10 Novembre 2025

L’imprenditore agricolo cinofilo – Parte I

di Luigi Scappini
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La scheda di FISCOPRATICO

La Riforma del 2001, attuata in applicazione della delega prevista dalla Legge n. 57/2001, ha determinato l’introduzione della figura di un imprenditore agricolo moderno non più legato a doppio mandato con il fondo.

Tra le novità del “nuovo” imprenditore agricolo ex art. 2135, c.c., vi è anche quella consistente nella sostituzione del termine bestiame con quello di animali.

Il richiamo al bestiame, in passato, aveva comportato un vasto dibattito dottrinale che aveva portato a prevedere l’inclusione, tra le specie allevabili qualificanti l’imprenditore agricolo, delle sole categorie di animali che avevano una diretta connessione con il fondo e quindi, ad esempio, bovini, equini, suini, caprini e ovini, con conseguente esclusione dei piccoli animali, i c.d. animali di bassa corte quali polli, galline, anatre, oche, tacchini, pollastre, pulcini, galli, piccioni, conigli.

Adesso, quel che rileva è, da un lato, che tale allevamento possa essere potenzialmente effettuato sul fondo, requisito da intendersi quale effettiva funzionalità del terreno all’attività esercitata, e, dall’altro, che esso si sostanzi nella cura e sviluppo di un ciclo biologico o di una fase necessaria dello stesso.

Cura e sviluppo non sono alternative tra di loro, ma devono coesistere.

Ne deriva, ad esempio, che la mera attività di maneggio non comporta la qualifica dell’imprenditore quale imprenditore agricolo in quanto, se è vero che provvede alla cura dei cavalli, non è rinvenibile la fase di sviluppo, da intendersi quale procreazione o incremento in termini di peso.

Ancor prima della riscrittura dell’art. 2135, c.c., la Legge n. 349/1993, pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n. 213 del 10 settembre 1993, disciplinava l’attività cinotecnica, ovverosia, come stabilito dall’art. 1, quell’attività volta all’allevamento, alla selezione e all’addestramento delle razze canine.

Il successivo art. 2, stabilisce che tale attività si considera «a tutti gli effetti attività imprenditoriale agricola quando i redditi che ne derivano sono prevalenti rispetto a quelli di altre attività economiche non agricole svolte dallo stesso soggetto», con la diretta conseguenza, esplicitata al successivo comma 2 che «I soggetti, persone fisiche o giuridiche, singoli o associati, che esercitano l’attività cinotecnica di cui al comma 1 sono imprenditori agricoli, ai sensi dell’articolo 2135 del codice civile».

Tuttavia, questa classificazione dei soggetti che svolgono l’attività cinofila quali imprenditori agricoli soggiace a un’ulteriore verifica; infatti, il comma 3 stabilisce che non si considerano tali «gli allevatori che producono nell’arco di un anno un numero di cani inferiore a quello determinato, per tipi o per razze, con decreto del Ministro dell’agricoltura e delle foreste da emanare entro trenta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge».

Il Decreto è quello del 28 gennaio 1994, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 40 del 18 febbraio 1994, il cui articolo unico stabilisce che «Non sono imprenditori agricoli gli allevatori che tengono in allevamento un numero inferiore a cinque fattrici e che annualmente producono un numero di cuccioli inferiore alle trenta unità».

Dal combinato disposto delle norme di cui sopra si ha che per poter essere considerati imprenditori agricoli svolgendo l’attività cinofila, è necessario:

  1. che l’attività consista nell’allevamento, selezione e addestramento delle razze canine; attività che deve essere diretta «alla cura ed allo sviluppo di un ciclo biologico o di una fase necessaria del ciclo stesso, di carattere vegetale o animale, che utilizzano o possono utilizzare il fondo, il bosco o le acque dolci, salmastre o marine». La sola selezione o il solo addestramento non sono di per sé sufficienti in quanto non si effettua una fase di sviluppo dei cani;
  2. l’allevamento (che diventa elemento dirimente per la qualifica di imprenditore agricolo in quanto la mera selezione e/o addestramento non includendo lo sviluppo non sono qualificanti) deve avvenire avendo a disposizione almeno 5 fattrici che consentano la riproduzione, su base annua, di almeno 30 cuccioli;
  3. i redditi derivanti dall’attività cinofila devono essere prevalenti su quelli derivanti da altre attività economiche non agricole svolte dallo stesso soggetto ragione per cui, ad esempio, nel computo non si prendono in considerazione i redditi da pensione.