30 Settembre 2025

Contratto di cointeressenza propria agli utili: i profili fiscali

di Paolo Meneghetti - Comitato Scientifico Master Breve 365
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Il contratto di cointeressenza agli utili è tornato recentemente all’attenzione degli operatori grazie al Principio di diritto n. 3 del 19.3.2025 con cui è stata esaminato questo negozio giuridico nella accezione c.d. propria, ai sensi dell’art. 2554, c.c.. Il contratto di cointeressenza agli utili, infatti, può presentarsi nella versione c.d. impropria, nella quale un imprenditore riconosce a un terzo una partecipazione agli utili della propria azienda, previo il corrispettivo di un determinato apporto e con esclusione dalla partecipazione alle perdite. Tale è la formulazione che si evince dalla prima parte dell’art. 2554, c.c., in cui si individua l’aspetto centrale nell’apporto che il terzo cointeressato conferisce all’imprenditore. In questa accezione, il negozio giuridico in oggetto si avvicina sensibilmente al contratto di associazione in partecipazione, con apporto di capitale e senza concorso alla copertura delle perdite. Nella versione “propria”, invece, si ha la partecipazione agli utili e alle perdite d’una impresa senza il corrispettivo d’un determinato apporto.

La finalità di quest’ultima versione del contratto è quella di evitare un andamento troppo imprevedibile dei risultati di esercizio, nel senso che il cointeressante ottiene dal cointeressato la sicurezza che quest’ultimo parteciperà alla copertura delle perdite, laddove esse si manifestassero, e per contro riconosce sempre al cointeressato una uguale partecipazione agli utili qualora questi si realizzassero.

È, quindi, una forma di garanzia che tutela da rischi di impresa troppo elevati in contropartita della concessione di una quota di utili di pari entità percentuale.

È evidente che, nella accezione propria, il contratto di cointeressenza non prevede alcun apporto da parte del cointeressato, il che ha portato al tema oggetto del principio di diritto: la somma che eventualmente il cointeressante/impresa riconosce al cointeressato (quota di utili) ha natura di corrispettivo?

La condivisibile risposta negativa dell’Agenzia delle Entrate muove proprio dal non riconoscere alcun collegamento tra la somma incassata e una prestazione dovuta dal cointeressato e da tale assenza di collegamento si genera la conclusione che il trasferimento di somme dall’una o dall’altra parte contrattuale è solo cessione di denaro che deve essere qualificata fuori campo IVA, ai sensi dell’art. 2, comma 3, lett. a), D.P.R. n. 633/1972.

Ma certamente l’interesse fiscale del contratto di cointeressenza agli utili nella versione “propria” non si esaurisce al comparto IVA; anzi, è nel comparto delle imposte sul reddito che questa forma di accordo manifesta il suo appeal, specie da quando, nel 2004, il contratto di associazione in partecipazione con apporto di capitale è stato assimilato al rapporto socio-società, con la conseguenza che la remunerazione dovuta all’associato, da tempo, non è più deducibile dal reddito dell’associante ex art. 109, comma 9, lett. b), TUIR.

La norma da ultimo citata, infatti, statuisce l’indeducibilità della remunerazione relativamente ai contratti di associazione in partecipazione e a quelli dell’art. 2554, c.c., allorché sia previsto un apporto diverso da opera e servizi (cioè quando sia previsto un apporto misto opera/capitale, oppure un apporto di mero capitale).

La remunerazione dovuta al cointeressato nella forma contrattuale impropria (quindi con apporto di quest’ultimo) certamente rientra nella sopra citata previsione di indeducibilità, ma il tema interessante è valutare se la remunerazione dovuta al cointeressato nella forma contrattuale propria subisce la stessa sorte. Da una parte, si potrebbe argomentare in senso positivo (quindi indeducibilità), muovendo dalla specifica citazione eseguita dall’art. 109, comma 9, TUIR (contratti cui all’art. 2554, c.c.), posto che la locuzione normativa cita il termine contratti al plurale, intendendo riferirsi sia alla forma impropria della cointeressenza, sia alla forma propria. Tuttavia, questa tesi si scontra con un dato normativo ineluttabile, e cioè che la indeducibilità della remunerazione contrattuale è indiscutibilmente condizionata dal fatto che vi sia un apporto del cointeressato di capitale o misto capitale/lavoro.

Laddove questa condizione non si manifesti, deve ritenersi non efficace la declaratoria di indeducibilità.

E la condizione sopra citata non si manifesta indubbiamente a fronte di un apporto di mera opera (associato d’opera), ma anche quando sia del tutto assente l’apporto stesso (cointeressenza propria). Del resto, l’indeducibilità della remunerazione dovuta alla parte che esegue un apporto di capitale è stata istituita a causa della analogia tra socio e associato/cointeressato di capitale: in entrambi i casi, vi è un apporto che sostanzialmente potremmo definire di equity, per cui, così come il dividendo (che deriva dall’apporto di capitale sociale eseguito dal socio) non può essere pensato come una posta deducibile dal reddito d’impresa della società erogante, allo stesso modo indeducibile è la remunerazione riconosciuta a chi apporta capitale.

Ma se non vi è alcun apporto si fuoriesce dalla dinamica socio/società e dalla previsione di indeducibilità di cui al citato art. 109, TUIR: la remunerazione senza apporto altro non può essere che un costo finanziario pienamente deducibile dal reddito d’impresa del soggetto erogante, così come esso sarà pienamente imponibile in capo soggetto percipiente.

La natura di componente finanziaria permette, a parere di chi scrive, di escludere la rilevanza della remunerazione anche dall’IRAP, sicché avremo un componente negativo non deducibile nell’area C del Conto economico, e, per contro, un componente positivo non rilevante collocato tra i proventi della stessa area C del Conto economico da parte dell’associato imprenditore.