17 Settembre 2025

Cassazione, ordinanza n. 16795/2025 in tema di tutela del segreto professionale nelle verifiche fiscali

di Francesco FerrajoliLuigi Ferrajoli
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Con la recente ordinanza n. 16795/2025, depositata il 23 giugno 2025, la Suprema Corte si occupa dell’acquisizione di documenti nel corso della verifica fiscale in presenza di un’autorizzazione del Procuratore della Repubblica. Al riguardo, ha ribadito il principio secondo cui, nel caso in cui nel corso della verifica nei confronti di un professionista venga eccepito il segreto professionale, l’autorizzazione deve essere necessariamente correlata all’esigenza di esplicitare l’avvenuta comparativa valutazione delle contrapposte ragioni offerte dalle parti, ovverosia dei motivi per i quali il contribuente-professionista ha opposto il segreto e delle ragioni che, secondo l’organo verificatore, rendono necessari e/o indispensabili, ai fini della verifica fiscale in atto, l’esame dei documenti e/o l’acquisizione delle notizie “secretati”. Ne consegue che siffatta autorizzazione può essere solo successiva all’opposto segreto professionale.

 

Il caso esaminato dalla Corte di Cassazione

Nel caso esaminato dalla Corte di Cassazione, l’Agenzia delle Entrate emetteva nei confronti di un avvocato un avviso di accertamento relativo all’anno di imposta 2007 contestando l’omessa fatturazione e, in alcuni casi, la sottofatturazione delle prestazioni da lui rese ai fini delle imposte dirette e dell’IVA.

La contestazione erariale si fondava sulle risultanze di un accesso eseguito dai militari della Guardia di Finanza presso lo studio del professionista, nel corso del quale erano stati rinvenuti documenti contenenti l’indicazione dei clienti e dei compensi da questi corrisposti, integranti, secondo i verificatori, una vera e propria contabilità parallela. Durante l’accesso, il professionista eccepiva il segreto professionale, ma i verificatori provvedevano comunque all’acquisizione dei documenti sulla base di un provvedimento autorizzativo, preventivamente rilasciato dal Procuratore della Repubblica, che ne autorizzava l’acquisizione anche in caso di eccezione avente a oggetto il segreto professionale.

Il contribuente proponeva ricorso avverso l’atto impositivo dolendosi, tra l’altro, dell’illegittima acquisizione dei documenti nel corso dell’accesso a causa di un provvedimento autorizzativo viziato. Il ricorso veniva respinto in I grado con sentenza che veniva confermata in sede di gravame. I giudici di appello insistevano per la regolare acquisizione della documentazione da parte della G.d.F. in ragione della preventiva autorizzazione rilasciata del Procuratore della Repubblica, che prevedeva comunque la possibilità di acquisizione di documenti nel caso in cui venisse eccepito il segreto professionale.

Proponeva ricorso per Cassazione il professionista. Per quanto rileva ai fini del presente commento, l’avvocato ha lamentato la violazione e falsa applicazione dell’art. 52, D.P.R. n. 633/1972, dell’art. 103, c.p., degli artt. 14, 15 e 111, Costituzione, e dell’art. 2697, c.c., per avere la CTR ritenuto utilizzabile la documentazione esaminata dalla G.d.F. in virtù del summenzionato provvedimento autorizzativo nonostante questo fosse illegittimo, in quanto esso conteneva una deroga al segreto professionale del tutto anonima e in bianco, non indicava i motivi che ne giustificavano l’emissione ed era stato rilasciato in un momento anteriore all’opposizione del segreto professionale, in palese inosservanza dell’art. 52, comma 3, D.P.R. n. 633/1972.

La Suprema Corte con l’ordinanza n. 16795/2025, ha ritenuto fondato il ricorso del contribuente, affermando che qualora durante l’accesso in locali destinati all’esercizio di attività professionale i verificatori intendano procedere all’esame di documenti in relazione ai quali sia stato eccepito il segreto professionale, essi devono «in ogni caso» munirsi di apposita autorizzazione del Procuratore del Repubblica o, in alternativa, dell’Autorità giudiziaria più vicina, la quale, pertanto, non può essere rilasciata in via preventiva rispetto al momento dell’opposizione del segreto professionale.

In particolare, la Corte di Cassazione richiama il contenuto dell’art. 52, D.P.R. n. 600/1973, secondo cui: «Gli uffici dell’imposta sul valore aggiunto possono disporre l’accesso d’impiegati dell’Amministrazione finanziaria nei locali destinati all’esercizio d’attività commerciali, agricole, artistiche o professionali per procedere ad ispezioni documentali, verificazioni e ricerche e ad ogni altra rilevazione ritenuta utile per l’accertamento dell’imposta e per la repressione dell’evasione e delle altre violazioni. Gli impiegati che eseguono l’accesso devono essere muniti d’apposita autorizzazione che ne indica lo scopo, rilasciata dal capo dell’ufficio da cui dipendono. Tuttavia per accedere in locali che siano adibiti anche ad abitazione, è necessaria anche l’autorizzazione del procuratore della Repubblica. In ogni caso, l’accesso nei locali destinati all’esercizio di arti o professioni dovrà essere eseguito in presenza del titolare dello studio o di un suo delegato. L’accesso in locali diversi da quelli indicati nel precedente comma può essere eseguito, previa autorizzazione del Procuratore della Repubblica, soltanto in caso di gravi indizi di violazioni delle norme del presente Decreto, allo scopo di reperire libri, registri, documenti, scritture ed altre prove delle violazioni. È in ogni caso necessaria l’autorizzazione del procuratore della Repubblica o dell’Autorità giudiziaria più vicina per procedere durante l’accesso a perquisizioni personali e all’apertura coattiva di pieghi sigillati, borse, casseforti, mobili, ripostigli e simili e per l’esame di documenti e la richiesta di notizie relativamente ai quali è eccepito il segreto professionale ferma restando la norma di cui all’articolo 103 del Codice di procedura penale».

Da tale disposizione si evince che, qualora durante l’accesso in locali destinati all’esercizio di attività professionale i verificatori intendano procedere all’esame di documenti in relazione ai quali sia stato eccepito il segreto professionale, essi devono «in ogni caso» munirsi di apposita autorizzazione del Procuratore del Repubblica o, in alternativa, dell’Autorità giudiziaria più vicina. Pertanto, secondo la Corte di Cassazione, dal momento che nel corso dell’accesso presso lo studio del professionista, in relazione ai documenti esaminati era stato eccepito il segreto professionale, i verificatori avrebbero potuto esaminare e acquisire tali documenti soltanto in forza di un’autorizzazione ad hoc. Una siffatta autorizzazione, proprio perché divenuta necessaria soltanto a seguito dell’opposizione del segreto professionale, non poteva che intervenire successivamente al verificarsi della situazione che ne aveva imposto il rilascio e con specifico riferimento ai documenti per i quali l’esigenza si era manifestata.

La Suprema Corte richiama sul punto la sentenza n. 11082/2010 delle Sezioni Unite, con la quale è stato affermato che l’autorizzazione in oggetto è un atto interno al procedimento fiscale, producente effetti soltanto in tale ambito, e che la valutazione circa la sua legittimità o meno è devoluta al sindacato del giudice tributario, la cui giurisdizione non riguarda esclusivamente gli atti finali del procedimento amministrativo di imposizione tributaria, ma si estende a tutti quelli che siano stati emanati nelle varie fasi dello stesso. In particolare, le SS.UU. hanno sottolineato che il contenuto motivazionale di detta autorizzazione: «deve essere necessariamente correlato all’esigenza di esplicitare l’avvenuta comparativa valutazione delle contrapposte ragioni offerte dalle parti, ovverosia dei motivi per i quali il contribuente-professionista ha opposto il segreto professionale e delle ragioni che, secondo l’organo verificatore, rendono necessari e/o indispensabili, ai fini della verifica fiscale in atto, l’esame dei documenti e/o l’acquisizione delle notizie “secretati”».

Pertanto, proprio la predicata necessità di una «comparativa valutazione delle contrapposte ragioni offerte dalle parti» lascia chiaramente intendere come il provvedimento di cui all’art. 52, comma 3, D.P.R. n. 633/1972, possa essere legittimamente adottato solo dopo che il segreto professionale è stato eccepito, e non anche in via preventiva, quando ancora non è dato sapere se, ed eventualmente in relazione a quali documenti, esso sarà opposto.

 

L’opponibilità del segreto professionale in sede di verifica fiscale

L’obbligo di rispetto del segreto professionale è imposto genericamente agli esercenti determinate professioni (avvocati, dottori commercialisti, consulenti del lavoro, notai) dai relativi ordinamenti professionali. Tali soggetti, inoltre, non possono essere obbligati a deporre nei processi penali su quanto conosciuto per ragione della propria professione (art. 200, c.p.p.) e non sono obbligati a consegnare all’Autorità giudiziaria che ne faccia richiesta atti, documenti e ogni altra cosa che dichiarino per iscritto coperta dal segreto professionale (art. 256, c.p.p.); infine, gli stessi hanno facoltà di astenersi dal testimoniare nei processi civili (art. 249, c.p.c.).

In questo contesto, pertanto, il segreto professionale si configura come un diritto/dovere di non-diffusione degli elementi di cui il professionista sia venuto a conoscenza, il quale resiste anche di fronte all’esercizio dei poteri istruttori da parte dell’Autorità giudiziaria.

L’ordinamento tributario riconosce espressamente il segreto professionale nell’art. 52, comma 3, D.P.R. n. 633/1972, laddove richiede l’autorizzazione del Procuratore della Repubblica o dell’Autorità giudiziaria più vicina per l’esame dei documenti e la richiesta di notizie relativamente alle quali è eccepito il segreto professionale. In particolare, la norma prevede che l’eccezione del segreto professionale possa essere sollevata da parte del professionista nel corso della verifica effettuata nei propri locali, in ragione del contenuto e della natura dei documenti e delle notizie richiesti, e nel contempo consente che tale eccezione possa essere superata con l’autorizzazione del giudice. La norma realizza, quindi, un bilanciamento fra contrapposte posizioni giuridiche, garantendo, da un lato, espressamente anche nel corso delle indagini fiscali la segretezza delle informazioni e delle notizie detenute dal professionista, e, dall’altro lato, predisponendo i rimedi atti a evitare che questo possa pregiudicare l’esito delle indagini medesime, contemperando la tutela della riservatezza e del diritto di difesa con le esigenze di efficacia dell’azione accertatrice del Fisco.

La norma contenuta nell’art. 52, comma 3, D.P.R. n. 633/1972, impone innanzitutto di valutare se tale disposizione abbia o meno natura derogatoria rispetto alle garanzie del segreto professionale, atteso che essa si limita a subordinare all’ottenimento dell’autorizzazione giudiziale l’esame di documenti e la richiesta di notizie relativamente ai quali viene eccepito il segreto professionale, senza però precisare se l’autorizzazione possa essere concessa anche nel caso in cui si tratti di documenti e notizie effettivamente coperti dal segreto ovvero solo nel caso in cui il segreto sia stato eccepito infondatamente sulla falsariga di quanto dispongono in sede penale gli artt. 200 e 256, c.p.p., secondo cui il giudice può imporre ai testi che abbiano eccepito il segreto professionale di testimoniare ovvero disporre il sequestro di documenti per i quali è stato eccepito il medesimo segreto solo se accerta che tale eccezione è infondata, in quanto non esiste un rapporto professionale fra il soggetto interpellato e il soggetto cui attengono le informazioni, né sussiste in capo al primo l’obbligo del segreto sulle informazioni che concernono il secondo, ovvero i documenti e le notizie richieste non sono effettivamente annoverabili fra quelle coperte dal segreto professionale.

Premesso che il segreto professionale costituisce una regola generale, nel senso che viene imposto a talune categorie di professionisti come dovere di non rivelare ad alcuno le notizie apprese per ragione della professione, si deve ritenere che la norma contenuta nell’art. 52, comma 3, D.P.R. n. 633/1972, non abbia natura derogatoria, per cui, similmente a quanto si verifica in materia penale, il magistrato non può derogare al segreto professionale qualora questo sia stato fondatamente eccepito dal professionista, sicché il suo intervento deve arrestarsi una volta accertata la fondatezza dell’eccezione.

La peculiarità della normativa tributaria viene, per contro, ad attestarsi sul piano delle conseguenze derivanti dall’esito negativo della valutazione operata dal magistrato in ordine alla fondatezza dell’eccezione, atteso che, mentre gli artt. 200 e 256, c.p.p., attribuiscono al Pubblico ministero il potere di obbligare alla testimonianza e di disporre il sequestro della documentazione, l’art. 52, comma 3, D.P.R. n. 633/1973, in conformità alla disciplina dell’istruttoria tributaria e delle prove, consente all’Amministrazione procedente di esaminare i documenti e di richiedere notizie, senza a ciò collegare né un immediato sequestro, né un obbligo di formale testimonianza.

In questa prospettiva, dunque, il compito del magistrato deve limitarsi a valutare la fondatezza dell’eccezione, ossia a giudicare se i dati e le notizie richiesti e non comunicati rientrino tra quelli coperti dal segreto professionale, senza alcuna possibilità di superare l’eccezione qualora questa sia stata legittimamente sollevata.

 

Le notizie e i documenti sui quali può essere eccepito il segreto professionale

In relazione all’individuazione delle notizie e dei documenti coperti dal segreto professionale, va precisato che la normativa tributaria non contiene al riguardo alcuna precisazione.

Tuttavia, al fine di assicurare un’effettiva operatività alla normativa, appare necessario oggettivizzare quanto più possibile l’area del segreto, tenendo conto sia del nesso che intercorre tra le informazioni e l’esercizio dell’attività professionale, sia della natura e della funzione che la Legge stessa talvolta attribuisce ai documenti che vengono formati o che vengono rimessi al professionista.

In questo senso, si possono escludere con sicurezza gli atti pubblici, i quali, proprio perché tali, non ha senso vengano coperti dal segreto. Ugualmente devono essere escluse le scritture contabili, tanto quelle del professionista quanto quelle del cliente, trattandosi di atti che la Legge impone di redigere anche al fine di documentare e rendere accessibili al Fisco i fatti che attengono all’attività economica esercitata dai contribuenti e le cui annotazioni, peraltro, nulla rivelano in ordine ai contenuti dell’attività professionale prestata a favore del cliente. Analogamente si ritiene debbano essere escluse anche le fatture e le ricevute fiscali emesse dal professionista, in quanto, trattandosi di documenti che, per Legge, devono essere conservati proprio in vista di un possibile controllo fiscale, appare irragionevole ritenere che possano essere sottratti all’ispezione anche attraverso l’eccezione del segreto professionale.

L’individuazione dei documenti e delle notizie coperte dal segreto dipende dalla natura dell’attività esercitata dal professionista e dalla connessione che deve sussistere tra questa e le informazioni di cui lo stesso venga in possesso, nel senso che, ciò che sembra connotare il segreto professionale, è l’obbligo di non divulgazione delle notizie e dei documenti che attengono all’esercizio dell’attività professionale, non di tutti quelli di cui il professionista venga a conoscenza in occasione dello svolgimento dell’attività professionale, pur concernenti il cliente. Ciò si desume dal fatto che il segreto rappresenta un diritto/dovere degli appartenenti a talune categorie professionali, anche in considerazione della natura intrinsecamente riservata delle informazioni di cui costoro necessitano per il corretto espletamento dell’attività, in quanto garanzia di riservatezza per il cliente ma anche condizione essenziale per lo svolgimento della professione.

In quest’ottica devono considerarsi coperte dal segreto professionale le cartelle cliniche e le cartelle mediche, gli appunti redatti da un professionista in occasione degli incontri con i propri clienti o nell’espletamento degli incarichi contenenti informazioni attinenti agli incarichi medesimi, i fascicoli dei difensori, e specificamente gli atti di istruzione delle pratiche, i documenti in deposito fiduciario concernenti operazioni eseguite con l’intervento del professionista interpellato, e in genere tutti quei documenti e quelle notizie che, pur in qualche misura connessi con operazioni aventi un risvolto tributario, rientrano in quell’aerea di riserbo che l’esercizio di una certa professione normalmente richiede e in ordine ai quali il segreto dovrebbe essere tenuto in vista di interessi diversi dalle convenienze fiscali del professionista o del cliente.

L’art. 52, comma 3, D.P.R. n. 633/1972, nel disciplinare l’opponibilità del segreto professionale fa comunque salva la norma contenuta nell’art. 103, c.p.p., che contiene una disciplina delle garanzie di libertà del difensore penale prevedendo, a tutela del diritto di difesa, una serie di garanzie rafforzate per le attività di indagine penale da svolgere negli uffici del difensore.

Mantenendo fermo l’art. 103, c.p.p., il Legislatore tributario appare intenzionato a scongiurare il pericolo che attraverso l’uso dei poteri di indagine previsti in materia tributaria si possano aggirare le garanzie predisposte dal Legislatore penale. Il richiamo operato nell’art. 52, comma 3, D.P.R. n. 633/1972, ha, quindi, lo scopo di impedire che i poteri fiscali di indagine vengano esercitati nei confronti del difensore senza le prescritte garanzie, onde evitare che le notizie e i documenti acquisiti in sede tributaria, al di fuori dei limiti di cui all’art. 103, c.p.p., vengano poi trasferiti in sede penale.

Questo comporta che, al di fuori dei casi e senza le garanzie di cui all’art. 103, c.p.p., anche con l’autorizzazione giudiziale prescritta dall’art. 52, comma 3, D.P.R. n. 633/1972, non è possibile effettuare ispezioni e perquisizioni per fini fiscali negli uffici dei difensori, né effettuare il controllo, sempre per fini fiscali, sulla corrispondenza del difensore e su quella intercorsa fra lo stesso e un imputato, anche quando quest’ultimo sia indagato ai fini tributari, né, infine, disporre il sequestro presso lo studio del difensore delle carte e dei documenti che formano oggetto della difesa.

 

La procedura da seguire per la verifica della fondatezza dell’eccezione sollevata dal professionista e l’impugnabilità dell’autorizzazione

L’art. 52, comma 3, D.P.R. n. 633/1972, prevede che nel caso di opposizione del segreto professionale l’ufficio possa procedere all’esame dei documenti o alla richiesta di notizie solo previa autorizzazione del Procuratore della Repubblica o dell’Autorità giudiziaria più vicina.

Dal punto di vista procedurale si pone la questione di quale sia il procedimento da seguire di fronte all’eccezione del segreto professionale: infatti, il magistrato per concedere o meno l’autorizzazione potrebbe avere bisogno di prendere in esame i documenti e sentire le ragioni del professionista anche semplicemente per valutare la fondatezza o meno dell’eccezione, ovverosia se il documento possa essere ricompreso o meno fra quelli coperti dal segreto.

In mancanza di una precisa disposizione al riguardo, l’unica normativa che appare applicabile deve considerarsi quella del codice di rito penale, la qual potrebbe operare giusto il rinvio effettuato dagli artt. 70, D.P.R. n. 600/1973 e 75, D.P.R. n. 633/1972, secondo cui: «per quanto non è diversamente disposto dal presente Decreto si applicano, in materia di accertamento delle violazioni e di sanzioni, le norme del codice penale e del codice di procedura penale…».

La procedura penale prevede che sia il magistrato a disporre gli “accertamenti necessari”, sicché, qualora fosse necessario esaminare i documenti e ascoltare il professionista non può che essere il Pubblico ministero o l’Autorità giudiziaria più vicina cui è richiesta l’autorizzazione ad attivarsi, recandosi di persona presso lo studio del professionista, richiedendo la comunicazione dei documenti ovvero procedendo all’acquisizione coattiva degli stessi (ai soli fini della delibazione in merito all’esistenza del segreto professionale opposto).

Una volta effettuato l’esame della documentazione, il magistrato potrà concedere o meno l’autorizzazione, la quale dovrà assumere la forma scritta e dovrà essere motivata in modo esauriente in ordine alla fondatezza dell’eccezione, cioè in ordine all’effettiva esistenza del segreto professionale.

In ordine alla tutela del contribuente a fronte della concessione dell’autorizzazione da parte dell’Autorità giudiziaria all’Amministrazione finanziaria di procedere all’esame di documenti o alla richiesta di notizie per le quali è stato opposto il segreto professionale, si è posta la questione se tale autorizzazione sia direttamente e immediatamente impugnabile davanti al giudice amministrativo ovvero se la sua eventuale illegittimità possa essere fatta valere in via indiretta solo con l’impugnazione dell’avviso di accertamento fondato su elementi di prova acquisiti a seguito della medesima autorizzazione.

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 11082/2010, ha chiaramente affermato che l’autorizzazione ex art. 52, comma 3, D.P.R. n. 633/1972, non è atto impugnabile direttamente avanti il giudice amministrativo ma solo indirettamente, attraverso l’impugnazione del successivo avviso di accertamento, avanti il giudice tributario.

La Corte di Cassazione chiarisce che l’autorizzazione del Pubblico ministero ha la funzione di consentire di esaminare i documenti o di acquisire le notizie relativamente ai quali il professionista ha eccepito l’esistenza di un segreto professionale, e attiene, quindi, a un procedimento amministrativo di verifica tributaria e produce effetti solo nell’ambito dello stesso.

La giurisdizione del giudice tributario non ha quale oggetto solo gli atti finali del procedimento amministrativo di imposizione tributaria, ma investe tutte le fasi del procedimento che hanno portato all’adozione e alla formazione dell’atto finale, tanto che l’eventuale giudizio negativo in ordine alla legittimità e/o alla regolarità su un qualche atto istruttorio prodromico può determinare la caducazione, per illegittimità derivata, dell’atto finale impugnato. L’autorizzazione dell’Autorità giudiziaria deve ritenersi un atto privo di autonomia e di qualsiasi efficacia esterna al procedimento di verifica fiscale, ma solo un atto interno a detto procedimento e, per conseguenza, soggetto al sindacato del giudice tributario cui il Legislatore, con l’art. 2, D.Lgs. n. 546/1992, ha demandato la tutela giurisdizionale di tutti i contribuenti in ordine ai tributi indicati nella norma, atteso che (come ha anche affermato la Cassazione nella sentenza n. 6315/2009) nella disciplina del contenzioso tributario, la tutela giurisdizionale è affidata in esclusiva alla giurisdizione delle Corti di Giustizia Tributarie, concepita comprensiva di ogni questione afferente all’esistenza e alla consistenza dell’obbligazione tributaria. Il carattere esclusivo della giurisdizione tributaria non permette che atti non impugnabili in tale sede siano devoluti, in via residuale, ad altri giudici, secondo le ordinarie regole di riparto della giurisdizione.

Nella citata sentenza n. 11082/2010, la Cassazione ha, inoltre, precisato che l’eventuale esito negativo dell’attività di accertamento, o l’adozione di un provvedimento impositivo del tutto avulso dall’esame dei documenti e/o delle notizie secretati, porta la valutazione di quel fatto (ove lesivo di qualche diverso interesse giuridico del contribuente ispezionato) nell’orbita giurisdizionale del giudice ordinario (non del giudice amministrativo) perché lesiva del diritto soggettivo del contribuente a non subire compressioni ai suoi diritti oltre i casi previsti dalla legge.

 

Si segnala che l’articolo è tratto da “Accertamento e contenzioso”.