Questioni ancora controverse in tema di deducibilità fiscale dei compensi agli amministratori
di Luciano SorgatoLa Corte di cassazione ha ormai consolidato il principio, già affermato da Cass., SS.UU., n. 21933/2008, per il quale la mancanza di esplicita delibera assembleare in ordine alla determinazione del compenso degli amministratori, qualora il medesimo non risulti essere già stato predefinito nello statuto, interdice alla società il diritto di deduzione fiscale del compenso erogato, non potendosi considerare implicito il relativo consenso sociale nella delibera di approvazione del bilancio.
Sempre in ordine ai compensi deliberati a favore degli amministratori, la Corte ha anche consolidato il diritto/potere dell’Amministrazione finanziaria di sottoporre a verifica valutativa l’entità e la congruità del compenso degli amministratori.
Specificamente, in ordine alla prima questione, per la Corte di cassazione la necessità di un’esplicita delibera dell’assemblea alla base della determinazione del compenso riservato agli amministratori deriverebbe:
- dalla natura imperativa e inderogabile delle previsioni normative, dovendo considerarsi la disciplina di funzionamento delle società dettata anche a supporto dell’interesse pubblico al regolare svolgimento dell’attività economica;
- dalla distinta previsione della delibera di approvazione del bilancio e di quella di determinazione dei compensi ( 2364, n. 1 e 3, c.c.);
- dalla mancata liberazione degli amministratori dalla responsabilità di gestione nel caso di approvazione del bilancio ( 2434, c.c.);
- dal diretto contrasto, in quanto strutturalmente diverse, delle delibere tacite e implicite con le regole di rituale formazione della volontà della società ( 2393, comma 2, c.c.).
Da tale diversità strutturale del consenso sociale, per il giudice di Cassazione deriverebbe che l’approvazione del bilancio contenente la posta relativa ai compensi degli amministratori non è idonea a configurare la specifica delibera richiesta dall’art. 2389, c.c.. Solo un’assemblea totalitaria convocata per l’approvazione del bilancio che dai relativi verbali risulti aver specificamente discusso e approvato la proposta di determinazione dei compensi degli amministratori è nella condizione di supportare la legittimità dell’emolumento remuneratorio e con essa la certezza e l’oggettiva determinabilità fiscale del compenso degli amministratori.
La Corte di cassazione, inoltre, in più di una circostanza, ha ribadito come tale novero di principi, raccordato alla formulazione della norma nel testo anteriore alle modifiche di cui al D.Lgs. n. 6/2008 (Riforma Vietti), appare ugualmente applicabile anche dopo l’introduzione della Riforma del diritto societario, avendo le Sezioni Unite chiarito che le modifiche introdotte con il D.Lgs. n. 6/2008 non appaiono decisive per avvallare una diversa interpretazione rispetto a quella già proposta in ordine al regime fiscale dei compensi degli amministratori.
Tale principio appare, però, esprimere scarsa coerenza di scrutinio con la vera portata delle novità introdotte con la riforma Vietti e, soprattutto, appare del tutto incongruente il presunto rapporto di interazione normativa tra S.p.A. e S.r.l. a cui il giudice di Cassazione continua a riferire, nonostante l’autonomia disciplinare dei due assetti societari perseguita dalla Commissione Vietti. Proprio il manifesto intento di interrompere quella sorta di cordone ombelicale che prima della riforma consentiva di sanare ogni lacuna normativa della S.r.l. attraverso la ricongiunzione con la disciplina della S.p.A., interdice la perpetuazione di una scontata compenetrazione normativa tra i due assetti societari. Con la riforma Vietti, la S.r.l., pur mantenendo i fondamenti costituitivi della società di capitali, è stata dotata di istituti più tipici della società di persone che della S.p.A.. Nella S.r.l. il rapporto d’interazione tra assemblea dei soci e organo amministrativo non è più strutturato con la rigida separazione di ruoli e funzioni che, invece, continua a governare la S.p.A.. Nella S.p.A. la decisione dell’atto amministrativo, anche se avvallata dall’assemblea dei soci, rimane di esclusiva attribuzione all’organo amministrativo, non rendendosi mai interscambiabile o ricongiungibile la relativa competenza, anche in ordine al regime della responsabilità, tra i 2 organi sociali. Se l’atto si connota oggettivamente d’identità gestoria, nella S.p.A. si raccorda soggettivamente solo con l’organo amministrativo. Nella S.r.l., invece, l’art. 2476, comma 8, c.c., prevede espressamente la responsabilità solidale dei soci che hanno deciso o autorizzato il compimento di atti pregiudizievoli per la società, i soci o i terzi ed ancora e persino con maggiore invasività in ordine alla commistione di ruoli e funzioni tra soci e amministratori, l’art. 2479, comma 1, c.c., prevede che i soci decidono sulle materie riservate alla loro competenza dall’atto costitutivo, nonché sugli argomenti che uno o più amministratori o tanti soci che rappresentano almeno 1/3 del capitale sociale sottopongono alla loro approvazione. A fronte di tali diverse dinamiche strutturali e intersoggettive tra gli organi sociali, il costante richiamo da parte della Corte di Cassazione a norme della S.p.A. (artt. 2364, commi 1 e 3, 2434, 2393, comma 2, e 2389, c.c.) a confutazione della regolare determinazione dei compensi degli amministratori e della certezza e oggettiva determinazione fiscale dei medesimi, non appare di alcun pregio giuridico.
Si deve, infatti, sottolineare, con la condivisione della Dottrina, come nel contesto normativo della S.r.l. non figuri più il richiamo all’art. 2389, c.c. (che invece il giudice di Cassazione continua a far proprio nella sua creativa costruzione giuridica). Solo nella S.p.A. con preciso rigore disciplinare continua a rimettere alla potestà dispositiva dell’assemblea dei soci la previsione dei compensi spettanti agli amministratori, ma non più nella S.r.l.. Nella S.r.l., inoltre, con la riforma Vietti, alla decisione dei soci non è più esplicitamente riservata la previsione dei compensi agli amministratori, dal momento che la previsione dell’art. 2364, comma 1, punto 3, c.c. («l’assemblea ordinaria [della S.p.A.] determina il compenso agli amministratori se non è stabilito dallo statuto»), prevista anche per la S.r.l. ante riforma, non compare più, post Riforma, nell’elenco delle materie esclusivamente riservate alla decisione dei soci dall’art. 2479, c.c.. Tale norma, al comma 2, punto 2, prevede, infatti, la sola competenza in ogni caso dei soci in ordine alla nomina degli amministratori, ma non in ordine alla determinazione dei compensi degli amministratori.
In ordine, infine, alla imperatività e inderogabilità della delibera dei soci in relazione alla spettanza e determinazione dei compensi degli amministratori, che il giudice di Cassazione pone alla base della necessità di considerare che la disciplina di funzionamento delle società è dettata anche a supporto dell’interesse pubblico al regolare svolgimento dell’attività economica, non può non sottolinearsi l’avvenuta abrogazione legislativa proprio del delitto di illecita percezione dei compensi amministrativi di cui all’art. 2630, c.c., per effetto dell’art. 1, D.Lgs. n. 61/2002.
La Corte di cassazione, quindi, continua nella sostanza a supportare l’inderogabilità della delibera nelle S.r.l., attraverso un richiamo normativo del tutto obsoleto, abolito e mutato, mentre come sostenuto in modo condivisibile in Dottrina, dal rinnovato quadro normativo appare lecita anche una verbale intesa tra soci e amministratori, in ordine alla determinazione dei compensi in questione.
Tale rigidità di scrutinio della Corte di cassazione appare del tutto incongruente, soprattutto con riferimento alle compagini sociali a ristretta base proprietaria, dove talora l’amministratore unico è anche il socio di maggioranza. Anche in tal caso, assunta la generale inderogabilità dei principi di diritto a presidio degli interessi pubblicistici dell’economia, insistentemente evocati dal giudice di legittimità, non sarebbe sufficiente l’appostazione in bilancio, nell’occasione della sua predisposizione, della trasparenza informativa relativa al compenso remuneratorio dell’amministratore, dovendosi in ogni caso procedere con specifica decisione dei soci.
Non può non sottolinearsi come, in ordine alla determinazione dei compensi degli amministratori, la Corte di cassazione esalta proprio ciò che svilisce del tutto in ordine alla distribuzione extracontabile degli utili accertati nei confronti delle società a ristretta base sociale. In ordine agli utili asseriti evasi dalla società, l’elemento causale che consente di svalutare e persino di considerare una formalistica sovrastruttura la rigida dinamica disciplinare della società a responsabilità limitata, per la Corte di cassazione è da rinvenire nel vincolo di solidarietà, di complicità e di reciproco controllo di un ristretto numero di soci.
Secondo la Corte, come è ormai dato rinvenire, senza eccezioni, nelle sue sempre più stringate sentenze, la ristretta base proprietaria è sintomatica di complicità, e tale prerogativa rende del tutto poco coerente la ritualità procedimentale di un tale rapporto associativo così composto, al punto che è persino lecito ricondurre al paradigma di utile extracontabile distribuito le somme ritenute distratte dai soci, anche se il bilancio chiude in perdita e mantiene un valore reddituale negativo pure dopo aver proceduto a sommare in conto algebrico alla perdita di bilancio, l’utile asserito evaso dalla società. Nonostante e manifestatamente non si tratti di utili di esercizio, ma di somme che proprio per i presidi pubblicistici al regolare funzionamento dell’economia, andrebbero restituite al compendio patrimoniale della società, costituendo esse un suo preciso diritto di credito, per il giudice di Cassazione rappresentano autentici utili distribuiti, in totale spregio, quindi, alle regole civilistiche di formazione dell’utile di esercizio, di sua rendicontazione e approvazione in bilancio e di specifico necessario atto decisionale dei soci per la sua distribuzione. Tutta formalistica sovrastruttura regolamentare agevolmente sopravanzabile in considerazione del vincolo di solidarietà e di complicità rinvenibile in un ristretto gruppo di soci.
Nel caso, invece, di compenso autoliquidato dall’amministratore unico e socio di maggioranza, reso trasparente nel bilancio regolarmente approvato a unanimità dal medesimo socio di maggioranza e dall’altro socio di minoranza, la rigida dinamica strutturale e procedimentale della S.r.l. diventa assolutamente imprescindibile, dovendosi considerare la disciplina civilistica di funzionamento delle società dettata anche a supporto dell’interesse pubblico al regolare svolgimento dell’attività economica. Per chi scrive, l’incongruenza non potrebbe apparire più epidermica.
In ordine, poi, al giudizio sulla congruità dei compensi deliberati a favore degli amministratori, la Cassazione ritiene che rientri nei normali poteri dell’ufficio la verifica dell’attendibilità economica delle rappresentazioni esposte nel bilancio. Gli argomenti di raccordo con la diversa soluzione, condivisa da plurime pronunce della Cassazione di segno opposto e del tutto contrario all’indirizzo attuale (il riferimento è alle sentenze n. 6588/2002, n. 21155/2005, n. 28595/2008 e n. 24957/2010), andavano rinvenuti nel confronto tra la disposizione previgente (art. 59, D.P.R. n. 597/1973) che, in riferimento agli amministratori soci, stabiliva che i compensi dovessero essere ritenuti deducibili nei limiti delle spese correnti per gli amministratori non soci, intendendo così evitare eventuali manovre elusive attraverso la determinazione di un maggior compenso per gli amministratori soci, e quella successiva del TUIR che, in tema di deducibilità dei compensi agli amministratori, non ha più previsto alcun riferimento a tabelle o altre indicazioni vincolanti in ordine a limiti massimi di spesa e, quindi, di deducibilità. Il più vicino orientamento della Cassazione si fonda sul principio di diritto che raccorda agli ordinari poteri dell’Amministrazione finanziaria la valutazione della congruità dei costi e dei ricavi esposti nel bilancio e nelle dichiarazioni, anche in assenza di irregolarità nella tenuta delle scritture contabili o di vizi negli atti giuridici d’impresa, con la possibilità di negare la deducibilità di un costo ritenuto insussistente o sproporzionato, non essendo l’ufficio vincolato ai valori o ai corrispettivi indicati nelle delibere sociali o in contratti (nel medesimo senso anche Cass. n. 9497/2008).


