L’inerenza delle spese di rappresentanza dei professionisti
di Gianfranco AnticoL’attività di controllo nei confronti dei lavoratori autonomi è generalmente svolta attraverso metodologie di carattere indiretto-presuntivo, con il preciso scopo di ricostruire gli eventuali compensi omessi. Resta ferma, naturalmente, la possibilità per i verificatori di un approccio di tipo analitico, volto a riscontrare elementi negativi non deducibili. È in questo ultimo contesto che si inserisce la recente ord. n. 26553/2025 della Corte di Cassazione, secondo cui in tema di deducibilità delle spese promozionali da parte del professionista, non è sufficiente la dimostrazione dell’astratta possibilità di ricomprendere un bene acquistato tra le spese di rappresentanza, in considerazione della sua natura, occorrendo assicurare la prova che l’acquisto sia stato effettivamente destinato a finalità promozionali dell’attività professionale e non personali, e che pertanto gli esborsi sostenuti rispettino il requisito dell’inerenza.
Premessa
Il reddito di lavoro autonomo è quello derivante dall’esercizio di attività lavorative diverse da quelle di impresa o di lavoro dipendente.
Sotto il profilo fiscale sono previste 2 tipologie di reddito di lavoro autonomo:
− attività artistiche e professionali (art. 53, comma 1, TUIR), esercitate in modo professionale (cioè, sistematico e organizzato) e abituale (cioè, in maniera regolare, stabile e non occasionale);
− altre attività di lavoro autonomo, elencate in modo tassativo dall’art. 53, comma 2, TUIR.
Sempre sul piano fiscale, come rilevato dalla circolare n. 1/2018 della Guardia di Finanza (G.d.F.), la definizione di reddito di lavoro autonomo ha natura residuale, «nel senso che il Legislatore ha inteso definire come tali quei redditi che non derivano né da attività di lavoro dipendente né dall’esercizio di un’impresa», pur indicando gli elementi che caratterizzano la particolare attività (autonomia, professionalità, abitualità, e natura non imprenditoriale).
È considerato reddito di lavoro autonomo anche quello derivante dall’esercizio in forma associata di cui all’art. 5, comma 3, lett. c), TUIR; in tali casi, il reddito è determinato in capo all’associazione professionale ed è imputato agli associati in base al principio di trasparenza.
Allo stesso modo, i redditi prodotti dalle società tra professionisti, costituite ai sensi del D.Lgs. n. 96/2001, per l’esercizio in forma associata della professione di avvocato, costituiscono redditi di lavoro autonomo.
Prendendo le mosse dalle modalità di controllo dei professionisti, puntiamo la nostra attenzione sull’inerenza delle spese per il mondo professionale, e sull’ultimo interessante pronunciamento della Corte di Cassazione (ord. n. 26553/2025).
Le indicazioni della Guardia di Finanza sui controlli ai professionisti
Il manuale sui controlli diramato dalla G.d.F. attraverso la circolare n. 1/2018, rileva che, in via preliminare, l’attività di verifica nei confronti dei lavoratori autonomi: «deve essere tendenzialmente ispirata a metodologie di controllo di carattere indiretto – presuntivo, fondate soprattutto sull’acquisizione e sullo sviluppo di una molteplicità di elementi materiali e documentali i quali, opportunamente elaborati e sviluppati, possono fornire indicazioni relative alle effettive dimensioni del ciclo d’affari e, complessivamente considerati, siano in condizioni di supportare un quadro indiziario grave, preciso e concordante, idoneo a superare le risultanze della contabilità, ove esistente».
In pratica, deve tendere alla ricostruzione degli eventuali compensi omessi.
L’esperienza operativa sul campo della G.d.F. segnala che, nei riguardi dei lavoratori autonomi: «possono essere operativamente proficui approcci ispettivi volti alla ricostruzione del reddito complessivo agli stessi riferibile, sulla base di disponibilità, spese ed investimenti sintomatiche di capacità contributiva».
Nell’ipotesi in cui, comunque, occorra procedere attraverso un approccio di tipo analitico-normativo, pur se il reddito di lavoro autonomo non si determina muovendo dal bilancio, nella pratica, è frequente riscontrare un rendiconto sotto forma di bilancio contabile informale: «tanto nel caso in cui un documento del genere sia disponibile, quanto qualora non lo sia, il riscontro analitico – normativo deve necessariamente prendere le mosse dalla riconciliazione dei documenti fiscali elementari con i dati riportati nelle scritture contabili tenute dal lavoratore autonomo, in base allo specifico regime adottato e con quelli riportati nella dichiarazione presentata, ai fini delle imposte sui redditi e dell’IVA oltre che, se necessario, dell’IRAP».
L’esigenza di ricostruire in via indiretta la base imponibile con il metodo analitico-induttivo, in presenza di contabilità esistente e regolare, può essere operativamente soddisfatta, seguendo un percorso ispettivo che la G.d.F., nella citata circolare n. 1/2018, articola nelle seguenti 3 fasi:
| Le 3 fasi | |
| 1° fase | «selezione degli elementi oggettivi, di carattere strutturale, fattuale o documentale, da sottoporre ad elaborazione, fortemente significativi rispetto alle condizioni di esercizio ed alle caratteristiche dell’attività di […] di lavoro autonomo.» |
| 2° fase | «individuazione dei termini e delle modalità con cui gli elementi selezionati possono incidere sui risultati della gestione tipica dell’attività considerata, ricercando già in questa fase il confronto con il contribuente, al fine di pervenire, con riferimento a ciascun elemento selezionato, ad una ‘funzione’, aritmetica o statistica, espressiva dei […] compensi presuntivamente prodotti.» |
| 3° fase | «applicazione, a ciascun elemento selezionato, della rispettiva ‘funzione’ e determinazione in via presuntiva dei […] compensi.» |
La stessa G.d.F., in dettaglio, prevede che i verificatori prestino attenzione, fra l’altro:
− nel caso di professionisti facenti parte di associazioni, alla corretta ripartizione, tra i vari associati, dei costi complessivamente sostenuti per il mantenimento della struttura professionale;
− eventuali, ingiustificate, incongruenze delle spese rispetto ai compensi dichiarati;
− esame dei registri e dei documenti espressivi dei movimenti finanziari, anche per individuare entità, frequenza e natura dichiarata dei prelevamenti effettuati personalmente dal professionista e valutare se gli stessi possano essere in realtà espressivi di operazioni di altro genere;
− riscontro fra la documentazione contabile ed extracontabile acquisita.
L’analisi delle componenti reddituali attive potrà essere svolta attraverso, fra l’altro:
− la ricostruzione della tipologia e quantità delle prestazioni, nel caso in cui, a seguito della selezione delle operazioni da scrutinare, si individuino fatture emesse con descrizione generica delle prestazioni rese;
− il riscontro dell’effettiva gratuità delle prestazioni qualificate come tali dall’artista o professionista;
− il riscontro, se del caso a campione, dei documenti fiscali di carattere elementare (principalmente, parcelle/fatture – attive e passive –, note di credito, note di debito, ecc.) documentanti le operazioni selezionate;
− il riscontro dell’osservanza delle regole generali relative alla determinazione del reddito di lavoro autonomo, nonché degli effetti che il rispetto o la violazione delle citate regole ha prodotto in sede di dichiarazione, con riferimento alle operazioni selezionate.
L’analisi delle componenti reddituali negative potrà esser svolta attraverso:
− il riscontro dell’osservanza delle disposizioni riguardanti gli ammortamenti dei beni mobili strumentali, di proprietà e/o in leasing, verificando fra l’altro il rispetto dei coefficienti previsti dal D.M. 31 dicembre 1988;
− il riscontro dell’osservanza delle disposizioni in tema di deducibilità delle spese relative a mezzi di trasporto;
− il riscontro dell’osservanza delle disposizioni riguardanti gli ammortamenti dei beni immobili, di proprietà e/o in leasing;
− il riscontro delle spese per prestazioni di lavoro;
− il riscontro dell’osservanza delle regole relative alla deduzione delle spese di rappresentanza;
− il riscontro dell’osservanza delle regole relative alla deduzione delle spese per prestazioni alberghiere e somministrazione di alimenti e bevande in pubblici esercizi.
| I diversi momenti | ||
| Preparazione del controllo | → | Accesso |
| Controllo documentale | → | Controllo di merito |
Il riscontro di specifici indizi di evasione non può che, quindi, passare attraverso una serie di passaggi obbligatori da parte dei verificatori.
| I necessari passaggi dei verificatori | ||
| Ricerca di documentazione extracontabile | → | Brogliacci |
| Quantificazione delle prestazioni | → | Contraddittorio |
Il principio di inerenza
In forza di quanto disposto dall’art. 109, TUIR, i criteri per la deducibilità dei costi di esercizio o dei componenti negativi di reddito, sono subordinati al rispetto dei principi di competenza, certezza e determinabilità, nonché di inerenza. Quindi, l’inerenza dei componenti negativi del reddito d’impresa all’attività economica posta in essere costituisce condicio sine qua non ai fini della deducibilità.
L’inerenza, pertanto, va intesa come correlazione fra onere sostenuto e attività produttiva di reddito imponibile, con la conseguenza che il concetto di inerenza non è più legato ai ricavi dell’impresa, ma all’attività della stessa (si rendono deducibili/detraibili tutti i costi relativi all’attività).
In ragione di ciò, per accertare la sussistenza o meno dell’inerenza occorre valutare se tra spesa e attività o beni da cui derivano ricavi sussista una relazione immediata e diretta: in caso affermativo, l’onere risulta interamente deducibile.
Se per tradizione e lungo periodo il principio di inerenza è stato fatto discendere dall’art. 109, comma 5, TUIR, 2 pronunciamenti della Suprema Corte[1] hanno sganciato tale concetto dalla previsione normativa, mettendo in evidenza che il principio di inerenza è «un principio generale inespresso, immanente alla nozione di reddito d’impresa»[2], e la valutazione dell’inerenza «deve essere apprezzata attraverso un giudizio qualitativo, scevro da riferimenti ai concetti di utilità o vantaggio, afferenti ad un giudizio quantitativo»[3].
In particolare, la Corte di Cassazione, con l’ord. n. 450/2018, ha riallineato la nozione fiscale di inerenza al fenomeno economico peculiare all’esercizio dell’attività d’impresa, affermando che «il principio dell’inerenza dei costi deducibili si ricava dalla nozione di reddito d’impresa ed esprime la necessità di riferire i costi sostenuti all’esercizio dell’attività imprenditoriale», esclusa ogni valutazione in termini di utilità (anche solo potenziale o indiretta) o congruità, «perché il giudizio sull’inerenza è di carattere qualitativo e non quantitativo». Indirizzo riconfermato con l’ord. n. 3170/2018, secondo cui esula ai fini del giudizio qualitativo di inerenza un «apprezzamento del costo in termini di congruità o antieconomicità», parametri che non sono espressione dell’inerenza ma «costituiscono meri indici sintomatici dell’inesistenza di tale requisito, ossia dell’esclusione del costo dall’ambito dell’attività d’impresa».
Questo comunque non significa che gli uffici non possano sindacare la congruità dei costi sotto il profilo della c.d. antieconomicità, ma solo che ciò costituisce piuttosto un indice rivelatore della mancanza di inerenza, pur non essendone una sua espressione[4]. Infatti, in questi casi, in assenza di un automatismo sull’inerenza del costo, l’ufficio deve provare un qualcosa in più, anche attraverso elementi indiziari.
La stessa Cassazione[5] ha ritenuto che la derivazione dei costi da un’attività, che può essere espressione di distrazione verso finalità ulteriori e diverse da quelle proprie dell’attività dell’impresa, comporta il venir meno dell’indefettibile requisito dell’inerenza tra i costi medesimi e l’attività imprenditoriale, inerenza che è onere del contribuente provare; prova che non può, peraltro, consistere nella esibizione di una fattura generica.
Sarà, quindi, onere del contribuente – anche in base al canone della vicinanza della prova – dimostrare documentalmente i presupposti dei costi dedotti, ivi compresa la loro inerenza e la loro diretta imputazione ad attività produttive. Né tale regola – come sottolineato recentemente[6] – può ritenersi modificata dall’art. 7, comma 5-bis, D.Lgs. n. 546/1992, introdotto con l’art. 6, Legge n. 130/2022, che non stabilisce un onere probatorio diverso o più gravoso rispetto ai principi già vigenti in materia.
Le spese di rappresentanza dei professionisti deducibili se inerenti
Abbiamo visto che i verificatori pongono attenzione, fra l’altro, all’osservanza delle regole relative alla deduzione delle spese di rappresentanza e, in particolare, valutano i requisiti di certezza e inerenza delle spese in argomento[7].
Ricordiamo che nell’ambito del lavoro autonomo, l’art. 54-septies, comma 2, TUIR, prevede la deducibilità delle spese di rappresentanza nei limiti dell’1% dei compensi percepiti nel periodo d’imposta a condizione che i pagamenti siano eseguiti con versamento bancario o postale ovvero mediante altri sistemi di pagamento previsti dall’art. 23, D.Lgs. n. 241/1997. Sono comprese nelle spese di rappresentanza anche quelle sostenute per l’acquisto o l’importazione di oggetti d’arte, di antiquariato o da collezione, anche se utilizzati come beni strumentali per l’esercizio dell’arte o professione, nonché quelle sostenute per l’acquisto o l’importazione di beni destinati a essere ceduti a titolo gratuito.
È in questo contesto normativo che si colloca la recente ord. n. 26553/2025 della Corte di Cassazione, che trae origine da un avviso di accertamento notificato a un professionista (commercialista), con il quale si disconosceva la deducibilità di oneri contabilizzati quali spese di rappresentanza, per un importo di 24.280 euro, a causa del difetto di prova dell’inerenza.
Il contenzioso avviato vedeva soccombente il contribuente sia in I che in II grado. Da qui il ricorso in Cassazione, dove, per quel che ci interessa in questa sede, il ricorrente censurava la violazione di legge del giudice del gravame, per aver ancorato la deducibilità delle spese di rappresentanza all’indicazione analitica dei clienti destinatari degli omaggi, piuttosto che a un giudizio di ragionevolezza e conformità agli usi di settore.
Preliminarmente i massimi giudici rilevano che il ricorrente svolge attività professionale quale affermato commercialista, conseguendo redditi ingenti.
Gli esborsi sostenuti per le spese di rappresentanza, per finalità promozionali dell’attività e di pubbliche relazioni, sono quindi potenzialmente deducibili nella misura dell’1%, limite che è stato di per sé rispettato dal professionista.
L’Amministrazione finanziaria contesta, però, che difetta la prova, da parte del contribuente, dell’inerenza delle spese sostenute con l’attività professionale svolta, trattandosi peraltro di oneri, acquisti di gioielli ecc., che ben possono essere stati sostenuti per finalità personali e non professionali.
La CTR ha correttamente confermato la decisione dei primi giudici, secondo cui la prova dell’inerenza degli oneri deducibili compete al contribuente, e quindi ha esaminato ogni categoria di spesa, tra quelle contestate dal contribuente, e ha ritenuto che manchi la prova della destinazione a finalità promozionale dell’attività, non essendo stata dimostrata «la effettiva destinazione dei singoli beni».
Il giudice di appello ha osservato più specificamente che l’acquisto di un vaso Gallé rosso epoca 1900 si risolve nell’acquisto di un’opera d’arte, che può rientrare tra le spese di rappresentanza, ma nel caso di specie non risulta integrata la prova dell’inerenza con l’attività professionale. La spesa sostenuta per la corresponsione di un premio, agli allievi di una scuola del Comune natale della madre del contribuente, è certamente meritoria, ma non vi è la prova che presenti un rapporto di inerenza con l’attività professionale, e pertanto che si risolva in una spesa di rappresentanza deducibile. In ordine all’acquisto di oggetti di pregio e di gioielli, il contribuente sostiene che si tratti di oneri sostenuti, anche profittando di favorevoli condizioni di acquisto, per omaggi da distribuire alla clientela con finalità promozionali, anche in anni futuri, ma anche in questo caso difetta ogni prova in ordine alla reale destinazione di tali oggetti, e pertanto la dimostrazione dell’inerenza.
Osservano gli Ermellini che la CTR ha sì segnalato che il contribuente non ha indicato a quali clienti avrebbe consegnato i beni acquistati, ma ha evidenziato pure che non ha provato in alcun modo la realizzata destinazione dei beni a finalità promozionali dell’attività professionale e di pubbliche relazioni, da cui dipende il riconoscimento del requisito dell’inerenza.
L’affermazione del contribuente, secondo cui l’inerenza sarebbe desumibile da un giudizio di ragionevolezza e conformità agli usi di settore della spesa sostenuta, non regge, atteso che neppure ha indicato quali siano gli usi di settore invocati, né come la circostanza sia stata provata.
Da qui la scrittura del seguente principio di diritto: «in tema di deducibilità delle spese promozionali da parte del professionista, non è sufficiente la dimostrazione dell’astratta possibilità di ricomprendere un bene acquistato tra le spese di rappresentanza, in considerazione della sua natura, per rendere in concreto deducibile l’onere sostenuto per l’acquisto, occorrendo assicurare la prova che l’acquisto sia stato effettivamente destinato a finalità promozionali dell’attività professionale e non personali, e che pertanto gli esborsi sostenuti rispettino il requisito dell’inerenza».
In conclusione, per la Corte di Cassazione, quindi, i requisiti di gratuità, finalità promozionale e ragionevolezza non sostituiscono la prova dell’inerenza, che rimane elemento autonomo e imprescindibile, che il contribuente deve dimostrare con elementi concreti.
[1] Cass., ord. n. 450/2018 e ord. n. 3170/2018.
[2] Cass., n. 3170/2018.
[3] Cass. civ., n. 450/2018.
[4] Cfr. Cass., ord. n. 14867/2020: l’inerenza deve essere apprezzata attraverso un giudizio qualitativo, scevro dai riferimenti ai concetti di utilità o vantaggio, afferenti a un giudizio quantitativo, e deve essere distinta anche dalla nozione di congruità del costo, anche se l’antieconomicità e l’incongruità della spesa possono essere indici rivelatori del difetto di inerenza.
[5] Cass., ord. n. 2060/2022.
[6] Cass. ord. n. 31878/2022. E secondo Cass. n. 26985/2024 «anche per l’inerenza, la prova, dunque, incombe sul contribuente, mentre spetta all’Amministrazione la prova della maggiore pretesa tributaria (Cass. n. 24880 del 2022 cit., Cass. 02/02/2021, n. 2224, Cass. 21/11/2019, n. 30366, Cass. n. 18904 del 2018 cit.). Quest’ultima, poi, ove ritenga gli elementi dedotti dal contribuente mancanti, insufficienti od inadeguati, oppure riscontri ulteriori circostanze di fatto tali da inficiare gli elementi allegati, può contestare l’inerenza con due modalità: da un lato, può contestare la carenza degli elementi di fatto portati dal contribuente, e quindi la loro insufficienza a dimostrare l’inerenza; dall’altro può addurre l’esistenza di ulteriori elementi tali da far ritenere che il costo non è correlato all’impresa (Cass. n. 2224 del 2021 cit.)».
[7] La deducibilità o meno delle spese di abbigliamento sostenute dal professionista – cravatte, vestiti, toghe, ecc. – continua a essere terreno di scontro, in assenza di una norma specifica, fra vestiario tecnico (toga, camice) e vestiario generico (il classico abito). La CGT di II grado del Veneto, con sent. n. 177/II/2023, ha accolto l’appello dell’Agenzia delle Entrate, che aveva contestato la deducibilità dei costi relativi a capi di vestiario non inerenti. Nel caso di specie, un contribuente/promotore finanziario aveva impugnato l’avviso di accertamento per l’anno d’imposta 2014, limitatamente alla parte in cui l’Agenzia delle Entrate aveva disconosciuto come non inerenti i costi sostenuti per l’acquisto di capi di vestiario, asseritamente ritenuti necessari per lo svolgimento dell’attività. I giudici di I grado avevano parzialmente accolto il ricorso, dichiarando legittima la deducibilità dei costi sostenuti nella misura del 50% stante l’uso promiscuo. Osservano i giudici di Appello che per poter dedurre un costo è necessario che lo stesso sia certo e determinato nel suo ammontare, documentato, nonché inerente ossia necessario per l’attività svolta dal professionista. Tutto ciò porta a ritenere che «le spese per l’abbigliamento inteso in senso generico e non specifico per lo svolgimento dell’attività, quale ad esempio una toga per un avvocato e/o una tuta per un artigiano, non rientri in tale disposizione non essendo sufficiente la mera considerazione che anche l’abbigliamento concorra all’immagine del professionista». Segnaliamo che antecedentemente, con la sent. n. 6443/2016, l’allora CTP di Milano ha ritenuto deducibili al 50% le spese sostenute per vestiario generico, qualificandole come costi a uso promiscuo, e inquadrandoli nell’art. 54, comma 3, TUIR.
Si segnala che l’articolo è tratto da “La circolare tributaria”.


