Valutazione e liquidazione della quota del socio uscente nelle società di persone
di Valerio SangiovanniInquadramento normativo
Nelle società di persone, le vicende che possono portare alla cessazione del rapporto sociale limitatamente a un solo socio sono le seguenti: morte del socio, recesso ed esclusione. Queste fattispecie sono oggetto di apposite separate disposizioni del Codice civile:
− l’art. 2284, c.c. disciplina la morte del socio;
− l’art. 2285, c.c. regola il recesso del socio;
− gli artt. da 2286 a 2288, c.c. si occupano dell’esclusione del socio.
Queste 3 vicende sono accomunate dal fatto che al socio (o al suo erede, in caso di morte) va pagata una somma di danaro quale conseguenza della cessazione del rapporto sociale. La procedura di valutazione e liquidazione della quota del defunto è disciplinata in una disposizione espressa: l’art. 2289, c.c. La legge prevede anzitutto che: «nei casi in cui il rapporto sociale si scioglie limitatamente a un socio, questi o i suoi eredi hanno diritto soltanto ad una somma di danaro che rappresenti il valore della quota» (art. 2289, comma 1, c.c.).
La disposizione significa che il socio o i suoi eredi non hanno diritto all’assegnazione di determinati beni di proprietà della società, bensì unicamente a un importo che li ristori del valore della partecipazione.
Inoltre, seppure ciò non risulti in modo espresso nel testo dell’art. 2289, comma 1, c.c., si può ricavare dalla disposizione che il socio (o i suoi eredi) deve agire nei confronti della società. L’eventuale causa vede come attore il socio e come convenuta la società. La società deve trovare le risorse per pagare il socio. Se il socio che muore, recede o viene escluso è titolare di una piccola percentuale del patrimonio della società (5% o 10%) sarà facile pagargli la buonuscita; viceversa, se la partecipazione del socio è elevata, diventa più complesso per la società reperire le risorse necessarie.
Questo principio è stato affermato dalla Corte di Cassazione, a Sezioni Unite[1]. Secondo le Sezioni Unite, la domanda di liquidazione della quota di una società di persone, da parte del socio receduto o escluso ovvero degli eredi del socio defunto, fa valere un’obbligazione non degli altri soci, ma della società e, pertanto, va proposta nei confronti della società medesima, quale soggetto passivamente legittimato, senza che vi sia necessità di evocare in giudizio anche i soci.
Può tuttavia capitare che la società si sia ridotta a un socio unico: si pensi al caso in cui la società sia originariamente composta di 2 soci e uno di essi receda o venga escluso. In situazioni del genere, può bastare citare in giudizio l’unico socio rimasto. La Corte di Cassazione ha stabilito che, in tema di S.n.c., con riferimento alla domanda di liquidazione della quota, il necessario contraddittorio nei confronti della società può ritenersi regolarmente instaurato anche nel caso in cui sia convenuta in giudizio non la società, ma tutti i suoi soci, ove risulti accertato che l’attore abbia proposto l’azione nei confronti della società per far valere il proprio credito vantato nei confronti di essa[2].
Bisogna attribuire un valore alla quota, per poter pagare la somma corretta al socio. Al riguardo sovviene il comma 2, dell’art. 2289, c.c., secondo cui «la liquidazione della quota è fatta in base alla situazione patrimoniale della società nel giorno in cui si verifica lo scioglimento». Sono 2 i principi che emergono da questa disposizione. In primo luogo, viene statuito il criterio di valutazione della partecipazione societaria, che è quello della situazione patrimoniale. In secondo luogo, si indica qual è il momento in cui “fotografare” la situazione della società. Rilevante è il giorno in cui si verifica lo scioglimento. Ciò significa che va redatta una situazione patrimoniale ad hoc. Quest’ultimo principio è stato confermato dalla Corte di Cassazione, secondo la quale la situazione patrimoniale da assumere ai sensi dell’art. 2289, c.c., a base della liquidazione della quota di un socio uscente non può essere redatta facendo riferimento all’ultimo bilancio, ma occorre tener conto dell’effettiva consistenza al momento della uscita del socio, sicché, ai fini della determinazione del valore dell’avviamento – la cui rilevanza si proietta nel futuro, traducendosi nella possibilità di maggiori profitti per i soci superstiti – vanno considerati non solo i risultati economici della gestione passata, ma anche le prudenti previsioni della futura redditività dell’azienda[3].
Come ci si può immaginare, diverse liti riguardano la valutazione della quota: la società propone un prezzo basso, mentre il socio uscito o i suoi eredi chiedono un importo maggiore.
Le operazioni in corso
Una disposizione di dettaglio prevede poi che «se vi sono operazioni in corso, il socio o i suoi eredi partecipano agli utili e alle perdite inerenti alle operazioni medesime» (art. 2289, comma 3, c.c.). La situazione patrimoniale fotografa la situazione della società in un determinato momento. Potrebbero tuttavia essere in corso operazioni significative che implicheranno utili o perdite per i soci. Ecco allora che il Legislatore impone di considerare anche detti risultati. La norma, peraltro, rende più complesso l’accertamento del valore della quota: il valore della quota viene sì determinato sulla base della situazione patrimoniale, ma deve poi essere rettificato alla luce delle operazioni in corso.
Dell’impatto delle operazioni in corso sul valore della società, e dunque della quota, si è occupata un’ordinanza della Corte di Cassazione[4]. La società coinvolta è una S.n.c. e deve essere liquidata la quota del 25% di titolarità di una socia. Viene disposta una consulenza tecnica d’ufficio e la quota viene valutata 21.450 euro. La società è proprietaria di un terreno che costituisce pertinenza del fabbricato all’interno del quale si trovano i locali in cui è svolta l’attività della società. I locali sono tuttavia di proprietà degli altri soci, e non possono essere computati al fine di determinare il valore della società. Gli altri soci avevano sconfinato e occupato il terreno di proprietà della società. Teoricamente sussiste dunque un credito risarcitorio della società nei confronti dei soci occupanti e questo credito risarcitorio potrebbe aumentare il valore della società. La Suprema Corte si chiede se ci sia un’operazione in corso, ai sensi del comma 3, dell’art. 2289, c.c., di cui tenere conto ai fini della valutazione della quota. L’operazione in corso consiste nell’occupazione del terreno e nel danno che la società sta conseguentemente patendo. Nella fattispecie affrontata dalla Corte di Cassazione, la sussistenza di questa situazione di fatto (occupazione del terreno di proprietà della società da parte di una porzione di fabbricato appartenente ai soci della società), seppure astrattamente idonea a far sorgere un credito indennitario in capo alla società nei confronti degli occupanti, non risulta essersi mai tradotta in una richiesta stragiudiziale di pagamento, né tantomeno in una pretesa azionata in via giudiziale. Non può dunque, conclude la Suprema Corte, parlarsi di “operazione in corso”, valutabile quale componente attiva ai fini della liquidazione della quota da assegnare al socio uscito dalla società.
Alcuni esempi di valutazione della quota del socio uscente
Abbiamo appena visto le disposizioni di legge che regolano la valutazione della quota nelle società di persone in caso di cessazione del rapporto sociale limitatamente a un socio. Vediamo ora alcuni esempi giurisprudenziali di come è stata valutata la quota.
Di recente si è pronunciata la Corte di Cassazione[5]. La società presenta 2 soli soci, ciascuno dei quali al 50% del capitale. Uno dei 2 soci muore e lascia 4 eredi (la moglie e 3 figli). Il socio superstite apre la procedura di liquidazione dell’intera società. Gli eredi chiedono invece che sia pagato loro il controvalore della quota facente capo al de cuius. In primo grado il Tribunale di Cosenza rigetta la domanda, sulla base della considerazione che la società, nel frattempo, è stata cancellata dal registro delle imprese. La Corte d’Appello di Catanzaro ribalta però la sentenza di primo grado, osservando che il venir meno della società non fa venir meno il diritto di credito degli eredi dell’ex socio. La quota viene valutata 87.164 euro. Non essendoci più la S.n.c., per effetto della cancellazione della medesima dal registro delle imprese, viene condannato l’altro socio a pagare agli eredi detta somma. La Suprema Corte afferma che, nelle società di persone, la morte di uno dei soci determina lo scioglimento del rapporto particolare del socio defunto alla data del suo decesso, mentre i suoi eredi acquistano contestualmente il diritto alla liquidazione della quota secondo i criteri fissati dall’art. 2289, c.c. Gli eredi – continua la Cassazione – non acquistano in automatico la posizione di socio alla morte del de cuius, ma solo un diritto di credito nei confronti della società.
Fra i precedenti di merito può essere utilmente segnalata una decisione della Corte d’Appello di Napoli[6]. Il giudice napoletano afferma che, nell’ipotesi di trasformazione da S.a.s. in S.r.l., cui è conseguito il recesso di un socio, la disciplina per la determinazione del valore della quota è quella dettata per le società di persone, con la conseguenza che non trova applicazione, neppure in via analogica, la disciplina della S.r.l. che, in caso di contrasto, affida detta determinazione a un terzo. La fattispecie può essere illustrata come segue. È corrente una S.a.s. che, a un certo punto, delibera di trasformarsi in S.r.l. 2 soci (un accomandante e un accomandatario) comunicano di voler recedere dalla società e chiedono il rimborso delle proprie quote. Poiché la società non provvede nel termine previsto, chiedono al Tribunale la nomina di un esperto che determini il valore delle quote. Nell’ambito del recesso dalla S.r.l., il comma 3, dell’art. 2473, c.c., prevede che: «i soci che recedono dalla società hanno diritto di ottenere il rimborso della propria partecipazione in proporzione del patrimonio sociale. Esso a tal fine è determinato tenendo conto del suo valore di mercato al momento della dichiarazione di recesso; in caso di disaccordo la determinazione è compiuta tramite relazione giurata di un esperto nominato dal Tribunale … su istanza della parte più diligente».
La questione che si pone è se questo comma, dettato per la S.r.l., sia applicabile anche al diverso caso della S.a.s. La Corte d’Appello di Napoli osserva che la disciplina applicabile in caso di trasformazione è quella della società ante trasformazione, in quanto sarebbe contraddittorio e contrario alla buona fede applicare la nuova disciplina (quella della S.r.l.) imponendo al socio dissenziente (della S.a.s.) di esserne comunque assoggettato. Non potendo applicarsi la disciplina delle S.r.l., continua il giudice napoletano, occorre aver riguardo alle disposizioni sulla S.a.s., che non prevedono alcun rinvio alla determinazione del terzo per la quantificazione del valore della quota, cosicché le contestazioni sul valore della quota devono essere rimesse a un giudizio a cognizione ordinaria.
I criteri di valutazione della quota previsti dall’art. 2289, c.c., sono derogabili dal contratto di società? La questione è stata oggetto di una sentenza del Tribunale di Nocera Inferiore[7]. Gli eredi chiedono di ottenere il pagamento della somma loro spettante a titolo di liquidazione della quota. I criteri di valutazione indicati dal comma 2, dell’art. 2289, c.c., sono 2: l’uso della situazione patrimoniale al momento dello scioglimento. Nel caso affrontato dal giudice nocerino, lo statuto prevedeva che: «in caso di morte di uno dei soci, gli altri dovranno liquidare agli eredi una somma pari al valore della quota del defunto, in base alla situazione patrimoniale della società, risultante dal bilancio successivo al decesso, salvo che gli eredi preferiscano continuare l’attività. La liquidazione avverrà in forma graduata ed entro cinque anni dal decesso».
Come si può notare, questa clausola non nega agli eredi il diritto di ottenere il pagamento, ma prevede che non si usi la situazione patrimoniale al momento del decesso, bensì una successiva situazione patrimoniale. Le ragioni di questa deroga sono in realtà comprensibili. Si consideri che la morte del socio può avvenire in qualsiasi giorno dell’anno ed è altamente improbabile che avvenga nel giorno di redazione della situazione patrimoniale. In altre parole, l’applicazione rigida dell’art. 2289, c.c., obbliga sempre a redigere una situazione patrimoniale ad hoc, riferita al giorno esatto della morte del socio. Il testo dello statuto della S.n.c. riportato vuole evitare questo risultato, dando rilievo alla prossima situazione patrimoniale della società (in occasione del prossimo bilancio approvato). Secondo il Tribunale di Nocera Inferiore, l’art. 2289, c.c., è derogabile dal contratto di società. Le norme sulla valutazione della quota non sono imperative, e possono essere oggetto di una pattuizione diversa nell’atto costitutivo. Del resto, il medesimo art. 2284, c.c., nel disciplinare gli effetti della morte del socio, prevede la derogabilità, contenendo espressamente la previsione: «salvo contraria disposizione del contratto sociale». Nel caso di specie, gli eredi ritengono che la clausola statutaria li danneggi e sollevano alcune eccezioni, che non vengono però accolte. Gli eredi sostengono che la clausola non sarebbe loro opponibile, in quanto non sono soci della S.n.c. Il Tribunale di Nocera Inferiore chiarisce tuttavia che la clausola era vincolante per il de cuius (egli sì socio della società) e di riflesso vincola i suoi eredi. Gli eredi contestano poi che il nuovo bilancio non sarebbe stato da loro approvato né sarebbe stato a loro comunicato. Anche questa eccezione viene però rigettata, in primo luogo in quanto gli eredi non sono soci e non possono partecipare all’approvazione del bilancio; in secondo luogo, non ci sono disposizioni espresse che prevedano la comunicazione del bilancio agli eredi. Il giudice nocerino chiarisce che la clausola sopra riportata non impone la redazione di una situazione patrimoniale ad hoc, ma consente l’utilizzo del successivo bilancio. Il socio defunto deteneva il 25% del capitale della S.n.c. Il decesso del socio è avvenuto il 7 maggio 1998 e viene nominato un consulente tecnico d’ufficio, il quale usa il bilancio successivo al decesso, ossia quello al 31 dicembre 1998. La quota spettante agli eredi viene quantificata in 109.079 euro. In conclusione, il Tribunale di Nocera Inferiore condanna la società a pagare agli eredi detto importo.
La Corte di Cassazione, in tema di valutazione della quota ex art. 2289, c.c., ritiene che si debba tener conto anche del valore dell’avviamento e, secondo una stima di ragionevole prudenza, della futura redditività dell’impresa, considerato che la norma, facendo riferimento allo scioglimento del rapporto nei confronti di un solo socio, presuppone la continuazione dell’attività sociale che non può riferirsi solo a un compendio statico e disaggregato di beni, ma deve essere valutata anche avuto riguardo alla sua fisiologica e naturale propensione verso il futuro[8].
La presenza di immobili nel patrimonio della società
Nelle società di persone, la compagine sociale si compone generalmente di pochi soci (spesso solo 2 o 3 persone). Inoltre, le tipologie di attività svolte non richiedono di solito grandi mezzi. Il valore della società, dunque, è per lo più piuttosto basso. Uno dei beni più importanti che potrebbe far parte del patrimonio della società è costituito da eventuali immobili, come il capannone o l’ufficio dove si svolge l’attività. Alcuni precedenti giurisprudenziali si sono occupati di valutazione della quota proprio nel caso in cui la società possedeva uno o più immobili.
Recentemente se ne è occupato il Tribunale di Roma[9]. La S.n.c. è composta di 2 soli soci, ciascuno al 50%. Uno dei 2 soci esercita il diritto di recesso e matura, dunque, il diritto di ottenere la liquidazione della propria quota. Il giudice romano premette che il patrimonio sociale, al momento della nascita della società, è formato dai conferimenti dei soci in funzione dell’esercizio in comune di un’attività di impresa; ne discende che il valore del patrimonio sociale al tempo del recesso è presuntivamente identificabile con il complessivo valore dei conferimenti, fino a che non si dimostrino vicende sopravvenute di tipo maggiorativo o riduttivo. In realtà, se sono passati diversi anni dalla costituzione della società, il patrimonio sociale è spesso radicalmente diverso da quello originario. Nel caso di specie la S.n.c. gestiva un’autocarrozzeria e aveva in proprietà l’immobile dentro il quale veniva svolta l’attività di carrozziere. Viene nominato un consulente tecnico d’ufficio, il quale attribuisce un certo valore all’immobile. Il Tribunale di Roma osserva che, trattandosi di immobile destinato ad attività di autocarrozzeria, non può attribuirsi allo stesso la quotazione riservata dall’Osservatorio del Mercato Immobiliare ai negozi. Il giudice romano ritiene che sia corretto applicare il valore medio delle quotazioni dell’OMI previsto per i laboratori. Si giunge in questo modo a una certa valutazione del bene immobile. Sennonché la S.n.c., che è stata convenuta dal socio, esercita una domanda riconvenzionale. La società contesta al socio recedente di essere stato amministratore della medesima S.n.c. e di avere posto in essere atti di mala gestio. In particolare, risulta che il socio-amministratore non aveva pagato una serie di imposte e tasse della società, generando maggiori oneri a carico della S.n.c. per interessi, sanzioni e spese: la cattiva gestione ha causato un danno alla società. Sussistono dunque un credito del socio nei confronti della S.n.c., ma altresì un controcredito della S.n.c. nei confronti del socio. Fra i 2 crediti opera la compensazione. In conclusione, la società viene condannata a pagare al socio il controvalore della partecipazione, detraendo però le somme dovute dal socio a titolo di risarcimento del danno.
Il Tribunale di Venezia ha esaminato una richiesta di sequestro volta a bloccare il patrimonio della società, al fine di versare quanto dovuto agli eredi di uno dei soci che era morto[10]. La società coinvolta è una S.a.s., che presenta 2 soli soci. Uno dei soci muore lasciando come eredi la moglie e 2 figli. Gli eredi chiedono alla società la liquidazione della quota. Dal momento che non viene effettuato alcun pagamento volontario da parte della S.a.s., gli eredi chiedono il sequestro conservativo del patrimonio della società. Viene disposta una consulenza tecnica d’ufficio che valorizza la partecipazione sociale in una forchetta tra 489.500 e 713.000 euro, a seconda del regime fiscale applicabile alle plusvalenze. L’ordinanza rileva che l’unico modo di pagare gli eredi è quello di vendere i beni sociali (si tratta di immobili), vendita che però porterebbe a una tassazione. Il consulente tecnico d’ufficio ha stimato il valore della partecipazione prospettando 3 scenari, a seconda della fiscalità applicabile – in caso di cessione degli immobili – sulla plusvalenza generata dalla differenza tra il prezzo di vendita e il valore contabile del cespite, variabile, a seconda delle decisioni assunte dalla società, da un’imposizione fiscale del 40% per l’ipotesi di tassazione ordinaria a una tassazione del 12% per l’ipotesi di tassazione agevolata. Tra i vari scenari rappresentati dal consulente tecnico, il giudice veneziano segue quello che ipotizza una tassazione agevolata delle plusvalenze nella misura del 12%, in quanto regime più favorevole alla società e ai soci e, in quanto tale, da preferire al regime ordinario, nell’ottica di valorizzazione del patrimonio sociale. Detto importo viene aumentato del 50%, come è usuale in caso di sequestro. In conclusione, il Tribunale di Venezia autorizza il sequestro conservativo sui beni mobili, immobili e dei crediti della S.a.s.
Dal canto suo (e per terminare le osservazioni concernenti i beni immobili), la Corte di Cassazione ha stabilito che – ai fini della liquidazione della quota del socio che intenda recedere da una società – non può tenersi conto del valore derivante dalla detenzione da parte della stessa società, in forza di comodato senza specificazione di durata, di immobili appartenenti a un socio, trattandosi di disponibilità revocabile ad nutum dal proprietario concedente e dunque di titolo inidoneo a proiettare nel futuro tale utilità; né può attribuirsi valore al godimento di detti beni avvenuto nel passato, in quanto esso concreta un’utilità ormai consumata, la quale non concorre a determinare la situazione patrimoniale della società nell’attualità[11].
Il pagamento della liquidazione al socio uscente
L’ultima disposizione sulla procedura di liquidazione a favore del socio recedente è costituita dal comma 4 dell’art. 2289, c.c., secondo cui «il pagamento della quota spettante al socio deve essere fatto entro sei mesi dal giorno in cui si verifica lo scioglimento del rapporto». Un conto è valutare la quota (redazione della situazione patrimoniale), un altro conto è pagare effettivamente il corrispettivo al socio. La legge pone un limite di tempo al fine di evitare tecniche dilatorie degli altri soci, volte a procrastinare eccessivamente l’esecuzione del pagamento. La previsione di un termine di 6 mesi serve, peraltro, anche a consentire alla società di avere tempo sufficiente per reperire le risorse per pagare il socio uscente.
Può anche capitare che il socio, pur avendo esercitato il recesso o essendo stato escluso, ritardi nel chiedere il pagamento della quota. Laddove passi troppo tempo, si potrebbe verificare la prescrizione del diritto del socio uscente. La Corte di Cassazione ha affrontato queste tematiche in un’ordinanza del 2022[12]. Secondo la Suprema Corte, l’art. 2289, c.c., prevede che la prestazione sia esigibile dal socio creditore alla scadenza del termine di 6 mesi dallo scioglimento del rapporto, sicché la prescrizione del diritto di credito avente tale oggetto decorre dallo spirare del suddetto termine semestrale. Durante il termine di 6 mesi, la società non è obbligata a pagare. L’obbligo di pagare sorge alla scadenza dei 6 mesi. È solo da questo momento che la società, se ritarda il pagamento, si trova in mora, e decorre il termine di prescrizione.
[1] Cass. n. 22539/2023.
[2] Cass. n. 16556/2020.
[3] Cass. n. 5449/2015.
[4] Cass. n. 26501/2022.
[5] Cass. n. 13163/2024.
[6] “Corte di Appello di Napoli, 12 luglio 2022”, in Società, n. 2/2023, pag. 147 ss., con nota di C. Mele.
[7] “Tribunale di Nocera Inferiore, 13 maggio 2021”, in Giurisprudenza commerciale, n. 2/2022, II, pag. 572 ss., con nota di L. Giannatiempo.
[8] Cass. n. 24769/2018. Si legga anche “Tribunale di Milano, 22 febbraio 2016”, in giurisprudenzadelleimprese.it, il quale si è occupato di recesso del socio accomandante da una S.a.s. Il giudice milanese riconosce che il socio receduto ha diritto di percepire una somma corrispondente al valore della quota da lui posseduta nella società convenuta. Il socio si era fatto preparare una perizia di parte che aveva valutato la quota 30.279 euro. Nella fase stragiudiziale, detta valutazione della quota non era stata oggetto di contestazioni e viene recepita dal Tribunale di Milano.
[9] “Tribunale di Roma, 29 marzo 2024”, in dirittopratico.it.
[10] “Tribunale di Venezia, 20 marzo 2024”, in giurisprudenzadelleimprese.it.
[11] Cass. n. 19321/2013.
[12] “Cassazione n. 1200/2022”, in Giurisprudenza italiana, n. 5/2022, pag. 1153 ss., con nota di R. Rivaro.
Si segnala che l’articolo è tratto da “Bilancio, vigilanza e controlli”.


