22 Novembre 2017

La “stretta” inerenza dei costi d’impresa

di Massimiliano Tasini
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Il dibattito sulla necessità che i costi di impresa – ma anche quelli delle attività professionali – siano strettamente inerenti sta portando alla proliferazione di una massa di sentenze che certamente alimentano gli “appetiti” dell’Agenzia delle Entrate. Non può sfuggire che la partita in gioco vale una quota importante del gettito derivante dall’attività di accertamento, poichè oramai non esiste più un atto impositivo che non evochi la mancanza di inerenza di un costo quale presupposto per poterlo dedurre, il che genera “ovviamente” riflessi anche sul fronte dell’Iva, poichè si sostiene che, se un costo non è inerente ai fini delle imposte dirette, non si vede come possa esserlo per l’Iva.

Non occorrerà evocare sentenze per affermare che l’inerenza, ovvero l’afferenza, del costo non va riferita ai ricavi: in vigenza del D.P.R. 597/1973, la prassi amministrativa aveva già affermato che la deducibilità di costi e oneri era, in ogni caso, sempre condizionata a una stretta inerenza all’attività svolta, e non a specifici componenti reddituali positivi (R.M. 12.11.1974 n. 2/1053). Con l’entrata in vigore del Tuir, il concetto d’inerenza poi non è più legato ai ricavi dell’impresa, ma all’attività complessiva della stessa, con la conseguenza che si rendono deducibili tutti i costi relativi all’attività dell’impresa e riferentisi ad attività e operazioni che concorrono a formare il reddito d’impresa (C.M. 7.7.1983 n. 30).

Venendo al tema dell’onere della prova, la sentenza della Cassazione 9 agosto 2017 n. 19875, con motivazione resa in forma semplificata, ha ritenuto, sulla scia delle precedenti sentenze n. 4554/2010 e n. 26480/2010, che lo stesso incomba sul contribuente. Ha altresì affermato che “nei poteri dell’Amministrazione finanziaria in sede di accertamento rientra la valutazione della congruità dei costi e dei ricavi esposti nel bilancio e nelle dichiarazioni, con negazione della deducibilità di parte di un costo sproporzionato ai ricavi o all’oggetto dell’impresa e che l’onere della prova dell’inerenza dei costi ha ad oggetto anche la congruità”.

Assistiamo quotidianamente a contrasti talora furiosi tra funzionari dell’Agenzia delle Entrate ed imprenditori e dirigenti: i primi, richiamando quasi meccanicamente tali principi, chiedono giustificazioni inverosimili, pretendendo di entrare nel merito di dinamiche aziendali; i secondi difendono con determinazione ed orgoglio il proprio operato, a maggior ragione se i risultati, in termini di reddito prodotto, gli danno ragione, quantomeno nel medio periodo.

Con il tradizionale approccio di equidistanza che mi contraddistingue, desidero allora esprimere alcune riflessioni, confidando sulla loro utilità.

Il primo monito è per gli imprenditori e per noi professionisti che li assistiamo. È inutile, dannoso, ma anche sbagliato, alzare barricate: i principi sono quelli che abbiamo esposto, ed è giusto che i funzionari del Fisco operino controlli anche sul piano dell’inerenza dei costi e delle spese.

Nondimeno, va considerato che la questione della congruità non può essere “stressata” in modo irragionevole: anche da ultimo, la sentenza della Cassazione n. 21405/2017 ha ammonito il Fisco ricordando che, in tanto, i costi possono ritenersi indeducibili in quanto “manifestamente” ovvero “del tutto” sproporzionati. Deve quindi trattarsi di comportamenti che si pongono “in contrasto con le regole del buon senso ed dell’id quod plerumque accidit”; ma non basta, perchè assurgono al rango di elementi gravi, precisi e concordanti solo “in mancanza di una giustificazione razionale”.

La stessa sentenza osserva peraltro che il sindacato in ordine alla congruità dei costi “non sembra possa spingersi, come postulato dall’Amministrazione ricorrente, sino alla verifica oggettiva circa la necessità, o quantomeno circa la opportunità (sia pure secondo una valutazione condotta con riguardo all’epoca della stipula del contratto), di tali costi rispetto all’oggetto dell’attività. E tanto perchè il controllo attingerebbe altrimenti a valutazioni di strategia commerciale riservate all’imprenditore” (in questo senso, la sentenza richiama anche Cassazione n. 10319/2015).

Va peraltro soggiunto che non tutti i costi sono uguali; ed invero la più recente giurisprudenza della Suprema Corte – sentenze n. 6548/2012 e n. 3340/2013ha avuto modo di precisare che il concetto di inerenza dei costi di impresa (certamente applicabile anche in materia di determinazione del reddito di lavoro autonomo) deve essere diversamente apprezzato avuto riguardo alla natura dei costi.  Più precisamente, laddove si tratti di spese “normalmente necessarie e strumentali” all’attività di impresa, l’onere della prova non grava sul contribuente bensì sull’Amministrazione.

Da ultimo, è appena il caso di osservare che, con riferimento all’Iva, il concetto di inerenza è addirittura più sfumato, dovendosi contemperare la nozione di inerenza con i principi generali che reggono tale imposta al livello Comunitario. In questo senso, la sentenza della  Cassazione 4 giugno 2014 n. 12502, in relazione al sostenimento di costi indeducibili per ritenuta antieconomicità, ha giudicato inammissibile tale sindacato da parte dell’A.F. nel comparto Iva, atteso che la nozione di “inerenza” deve ispirarsi al principio di neutralità che sottende a detta imposta, non potendosi sic et simpliciter traslare i principi elaborati in materia di imposte dirette all’Iva medesima.

Dobbiamo lavorare insieme. Gli imprenditori ed i professionisti devono fare la loro parte, ma allo Stato chiediamo equidistanza, equilibrio e misura: elementi, tutti, che favoriscono una reale compliance.

 

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