21 Gennaio 2020

Per provare la frode fiscale è sufficiente un preciso quadro indiziario

di Marco Bargagli
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Tra i sistemi evasivi più insidiosi, possiamo certamente annoverare la “frode fiscale” realizzata mediante l’utilizzo di fatture per operazioni inesistenti emesse da società cartiere, spesso amministrate da soggetti prestanome, costituite al solo scopo di evadere le imposte sui redditi e l’imposta sul valore aggiunto.

Tale fenomeno ha immediata rilevanza penale, realizzando due distinte ipotesi delittuose:

  • la violazione prevista e punita dall’articolo 2 D.Lgs. 74/2000, che sanziona con la reclusione da quattro a otto anni chiunque, al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, avvalendosi di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, indica in una delle dichiarazioni relative a dette imposte elementi passivi fittizi. Il fatto si considera commesso avvalendosi di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, quando tali fatture o documenti sono registrati nelle scritture contabili obbligatorie o sono detenuti a fine di prova nei confronti dell’Amministrazione finanziaria. In merito, occorre tenere conto che, qualora l’ammontare degli elementi passivi fittizi risulti inferiore a euro centomila, si applica la reclusione da un anno e sei mesi a sei anni;
  • la violazione prevista e punita dall’articolo 8 D.Lgs. 74/2000, il quale sanziona con la reclusione da quattro a otto anni chiunque, al fine di consentire a terzi l’evasione delle imposte sui redditi o sul valore aggiunto, emette o rilascia fatture o altri documenti per operazioni inesistenti. In merito, per espressa disposizione normativa, l’emissione o il rilascio di più fatture o documenti per operazioni inesistenti nel corso del medesimo periodo di imposta si considera come un solo reato. Infine, qualora l’importo non rispondente al vero indicato nelle fatture o nei documenti, per singolo periodo d’imposta, è inferiore a euro centomila, si applica la reclusione da un anno e sei mesi a sei anni.

In linea con il prevalente orientamento giurisprudenziale, si è ormai consolidato il principio in base al quale non possono essere addossate responsabilità all’acquirente che, inconsapevole di prendere parte ad una frode fiscale, acquista realmente beni o servizi, anche nella particolare ipotesi in cui il fornitore risulti essere un vero e proprio evasore totale (non presentando le prescritte dichiarazioni dei redditi e/o le dichiarazioni annuali Iva).

Sotto il profilo dell’onere della prova, l’Amministrazione finanziaria deve raccogliere un dettagliato quadro indiziario che comprovi la partecipazione attiva del cessionario alla frode fiscale.

Di contro, il soggetto passivo che ha annotato in contabilità le fatture per operazioni inesistenti, dovrà dimostrare al giudice di avere utilizzato la massima diligenza tipicamente richiesta ad un operatore economico accorto.

A titolo esemplificativo, l’acquirente dovrà:

  • provare che il proprio fornitore ha ceduto i beni e/o i servizi esponendo in fattura un prezzo in linea rispetto al valore normale di mercato;
  • conservare tutta la documentazione amministrativo contabile riconducibile alla transazione economico commerciale posta in essere (es. le fatture di acquisto, la documentazione di trasporto, le contabili bancarie comprovanti il pagamento, gli ordini di acquisto e ogni altro documento utile a dimostrare che la fornitura dei beni o dei servizi è concretamente avvenuta);
  • verificare, prima dell’acquisto, la reale struttura del fornitore accertando – contestualmente – che lo stesso abbia un’idonea organizzazione di uomini e mezzi necessaria a soddisfare le prospettate esigenze del cliente.

Sempre in tema di onere della prova, è recentemente intervenuta la Corte di cassazione, Sezione 5^ civile, con la sentenza n. 30351/2019 del 21.11.2019 la quale, in linea con il filone ermeneutico espresso nel tempo da parte del giudice di legittimità, ha confermato che l’ufficio finanziario può constatare l’emissione di fatture per operazioni inesistenti anche sulla base di un “solido quadro indiziario” dimostrando, ad esempio, che il fornitore non aveva un’adeguata struttura organizzativa (beni aziendali, attrezzature strumentali, risorse umane a disposizione) che giustificasse l’effettuazione di determinate cessioni di beni o di prestazioni di servizio.

In merito, nel corso di una verifica fiscale, l’Amministrazione finanziaria aveva constatato che una determinata impresa era, in realtà, una mera “cartiera” priva di una struttura organizzativa sia in termini di mezzi che di dipendenti, rilevando che le operazioni contabilizzate dalla stessa società erano oggettivamente inesistenti.

Di contro, la parte ricorrente aveva lamentato che le presunzioni legali prospettate a supporto dei rilievi mossi non presentavano i requisiti di gravità, precisione e concordanza.

Gli Ermellini, accogliendo la tesi dell’Amministrazione finanziaria, hanno tracciato importanti principi di diritto, illustrando simmetricamente l’operatività delle presunzioni semplici in ambito tributario.

A parere dei giudici di piazza Cavour la fattura, di regola, è un documento idoneo a rappresentare un costo d’impresa e costituisce idoneo titolo per il contribuente ai fini del diritto alla detrazione dell’Iva e alla deducibilità dei costi.

Quindi, nella particolare ipotesi di fatture per operazioni inesistenti, non spetta al contribuente provare che l’operazione è effettiva, ma spetta all’Ufficio, che adduce la falsità del documento, dimostrare che l’operazione commerciale, oggetto della fattura, in realtà non è mai stata posta in essere (cfr. Corte di Cassazione, sentenza n. 27341 del 12.12.2005; Corte di Cassazione, sentenza n. 9108 del 06.06.2012; Corte di Cassazione, sentenza n. 25775 del 05.12.2014; Corte di Cassazione, sentenza n. 428 del 14.01.2015).

In merito, sulla base dell’orientamento giurisprudenziale sopra illustrato, tale prova può ritenersi raggiunta qualora l’Amministrazione fornisca validi elementi che possono anche assumere la consistenza di presunzioni semplici, “considerato che la prova presuntiva non è collocata su un piano gerarchicamente subordinato rispetto ad altri fonti di prova e costituisce una prova completa alla quale il giudice di merito può attribuire rilevanza anche in via esclusiva ai fini della formazione del proprio convincimento”.

In definitiva, qualora l’ufficio ritenga che la fattura sia riconducibile ad operazioni oggettivamente inesistenti, ossia la mera espressione cartolare di operazioni commerciali mai poste in essere”, ha l’onere di fornire gli elementi validi per affermare che l’operazione fatturata non è stata effettuata (ad esempio provando che la società emittente la fattura è una “cartiera” o una società “fantasma”). A questo punto, il contribuente avrà l’onere di dimostrare l’effettiva esistenza delle operazioni contestate.

Tale prova, tuttavia, non potrà consistere nella mera esibizione della fattura, né nella sola dimostrazione della regolarità formale delle scritture contabili o dei mezzi di pagamento adoperati (i quali sono normalmente utilizzati proprio allo scopo di far apparire reale un’operazione fittizia), mentre occorrerà dare concreta prova dell’avvenuta esecuzione delle operazioni indicate in fattura.

Conformemente, nella fattispecie in esame, l’Ufficio ha idoneamente fornito una serie di elementi indiziari dai quali è stato possibile evincere che la società era una mera “cartiera”, tenuto conto dell’assenza di una struttura organizzativa adeguata, della mancanza di dipendenti e di beni strumentali, dell’omesso assolvimento degli oneri fiscali (i.e. il versamento delle imposte dovute).

 

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