24 Giugno 2020

Note di variazione: un’altra sentenza UE fa vacillare norma e prassi nazionali

di Roberto Curcu
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La scheda di FISCOPRATICO

La Corte di Giustizia Europea, con la sentenza C-146/19, ha di fatto ammesso la possibilità di emettere nota di variazione al fallimento, per i soggetti che non si sono insinuati al passivo, smentendo l’orientamento manifestato dall’Amministrazione finanziaria (circolare AdE 77/E/2000), recentemente confermato (risposta ad interpello 33/2020).

L’importanza della sentenza, tuttavia, va ben oltre al caso specifico, posto che, in assenza della spesso richiesta e mai attuata riforma dell’articolo 26 del Decreto Iva, il contribuente deve valutare attentamente la possibilità di disapplicare tale ultima norma, qualora sia manifesta la sua incompatibilità con l’articolo 90 della Direttiva 112/06.

La sentenza C-146/19, peraltro, è stata seguita da due ordinanze (C-756/19 e C-292/19), non ancora pubblicate nella raccolta ufficiale, e con una di esse è stata ammessa la procedura di rettifica dell’Iva a seguito della chiusura di una procedura di fallimento intervenuta in altro Stato membro.

L’articolo 90 della Direttiva vanta oramai oltre 20 sentenze interpretative, ed il suo funzionamento è molto chiaro, così come chiaro è che, qualora la normativa nazionale non rispetti quella comunitaria, il contribuente può direttamente disapplicare la prima e procedere comunque alla rettifica dell’Iva, emettendo una nota di variazione. Analizziamo quindi l’articolo 90.

In primo luogo si evidenzia che l’articolo 90 è una rettifica della base imponibile dell’operazione originaria, e non una detrazione dell’Iva, come riportato nell’articolo 26 del Decreto Iva; ciò appare evidente a tutti coloro che, nel compilare la dichiarazione Iva inseriscono le note di variazione con il segno negativo tra le operazioni attive, e non con il segno più tra le operazioni passive.

Tuttavia, ciò sembra meno evidente per l’Amministrazione finanziaria, la quale, agganciandosi al dato formale dell’articolo 26, contrastante con la norma comunitaria, in più occasioni ha ripetuto che il diritto alla variazione va esercitato entro il termine previsto per l’esercizio del diritto alla detrazione.

Questa limitazione temporale della possibilità di emettere la nota di variazione appare in contrasto con la disciplina comunitaria, anche se è anche vero che il diritto unionale consente comunque la limitazione temporale dei diritti del contribuente, per un principio di certezza del diritto; principio di certezza che normalmente prevale su quello della corretta tassazione dopo cinque anni, e non dopo uno, posto che i termini dello stesso dovrebbero essere unici per tutte le situazioni.

L’articolo 90, come interpretato dalla Corte, stabilisce che gli Stati membri non possono limitare il diritto del contribuente alla emissione di nota di variazione, quando “successivamente alla conclusione di un’operazione, non viene percepita dal soggetto passivo una parte o la totalità del corrispettivo”; in particolare, il corrispettivo può non essere percepito per due motivi: il contratto è venuto meno, oppure il contratto è stato eseguito ma il debitore non ne ha pagato il prezzo.

Bene, gli Stati membri possono imporre dei limiti all’emissione della nota di variazione, solo nel secondo caso, ed in particolare, solo quando il contratto sia stato eseguito ed il mancato pagamento non sia definitivo.

Il principio sottostante è quello per cui il soggetto passivo non può versare allo Stato Iva che non ha incassato e che è certo che non incasserà mai, mentre gli Stati membri possono introdurre delle misure di cautela per i casi in cui, a fronte di una cessione di beni o di una prestazione di servizi che sia stata eseguita e fatturata, il cedente o prestatore intenda rettificare l’Iva già versata a fronte di un omesso versamento che potrebbe essere difficile da accertare o considerarsi solo provvisorio, in quanto lo Stato non ha la possibilità di verificare che in un momento successivo tale pagamento venga effettuato.

Tutte le altre limitazioni imposte dagli Stati membri, contrarie a tale principio, sono state considerate inapplicabili dalla Corte di Giustizia, la quale permette quindi al contribuente di emettere le note di variazione anche in contrasto con la normativa nazionale.

La prima, grande, fonte di incomprensione della norma nazione, sta nelle situazioni in cui il contratto viene dichiarato nullo, annullato, risolto, rescisso, ecc..

Su tale situazione nessuna limitazione può essere posta al contribuente che voglia emettere nota di variazione: se il cliente non ha pagato il prezzo, ma non è divenuto proprietario di un bene o non ha usufruito del servizio, è evidente che a fronte di una operazione che non c’è stata non può essere richiesto al fornitore di versare dell’imposta, e se questa fosse stata versata a seguito dell’emissione di fatture di acconto, la stessa deve sempre poter essere recuperata, e ciò quando il venir meno del contratto è dichiarato da un giudice, quando lo stesso deriva automaticamente da una clausola contrattuale (clausola risolutiva espressa, termine essenziale, ecc…), ma anche quando la mancata esecuzione del contratto deriva dalla sopravvenuta volontà delle parti.

La seconda grande fonte di incomprensione è quella relativa a contratti che sono stati eseguiti, ma non onorati dal cessionario o committente.

Su tale questione, la giurisprudenza della Corte è  giunta oramai a concludere che gli Stati membri non possono limitare il diritto del cedente o prestatore a recuperare l’Iva che non ha incassato, “in una situazione caratterizzata dalla riduzione definitiva degli obblighi del debitore nei confronti dei suoi creditori”, e quindi quando il creditore possa dimostrare che “il credito da egli vantato nei confronti del suo debitore presenta un carattere definitivamente irrecuperabile”; ciò può avvenire a seguito di procedure esecutive rimaste infruttuose, di procedure concorsuali, di transazioni, di inesistenza del debitore, ecc

Ad esempio, sono poco comprensibili gli interventi di prassi secondo cui il soggetto che debba fare una rivalsa post accertamento nei confronti di un cliente non più esistente, debba versare una imposta che non ha mai incassato, così come un serio ragionamento dovrebbe essere fatto riguardo ai crediti che sono andati in prescrizione.

Quanto al credito del soggetto che non si è insinuato nel fallimento, e che per definizione è irrecuperabile, la Corte di Giustizia ha statuito che gli Stati membri non possono limitare il diritto di emissione di nota di variazione, “quand’anche detto soggetto dimostri che, se avesse insinuato il credito in questione, questo non sarebbe stato riscosso.

In sostanza, posto che dalla inerzia del contribuente potrebbe derivare un danno erariale, la Corte subordina la possibilità di emissione di nota di variazione alla dimostrazione che, in ogni caso, nessun credito sarebbe stato riscosso.

Tale richiesta di prova è preceduta dalla considerazione che “la semplice insinuazione di un credito nella procedura fallimentare non può essere considerata, in termini di oneri finanziari e amministrativi, come eccessivamente costrittiva”, in quanto la Corte bilancia sempre quelli che sono i diritti del contribuente con quelli che sono gli oneri amministrativi incombenti.

A tale riguardo, c’è da chiedersi se sia ancora legittimo ritenere che, per poter emettere nota di accredito in caso di crediti inesigibili estranei alle procedure concorsuali, sia necessario – come richiesto dall’Agenzia delle Entrate – esperire una procedura esecutiva che spesso ha costi maggiori rispetto al credito vantato.