3 Luglio 2018

Il trust fra luoghi comuni e falsi miti – I° parte

di Sergio Pellegrino
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Alcuni articoli apparsi recentemente sulla stampa specializzata mi hanno fatto comprendere come i pregiudizi siano, in generale, duri a morire e a questa regola non sfugge, ahimé, neppure il trust.

Si continuano infatti a leggere (e a sentire in giro) considerazioni sul trust decisamente atecniche, verrebbe da dire quasi “di pancia”, che denotano, almeno per quella che è la mia opinione, una scarsa conoscenza del fenomeno.

Molte volte il trust viene presentato come qualcosa di “nuovo” e quasi inesplorato, ma è bene ricordare, innanzitutto, che parliamo di un istituto giuridico che è di fatto “entrato” nel nostro ordinamento nel 1992, con l’entrata in vigore della Convenzione de l’Aja del 1985, che l’Italia aveva ratificato tre anni prima con la L. 364/1989.

Sono passati quindi più di cinque lustri (per tacere i secoli di applicazione nel diritto anglosassone), e nell’ultimo decennio c’è stata in Italia una sempre più penetrante diffusione, con provvedimenti legislativi che hanno “esaltato” le caratteristiche uniche del trust a discapito di quelli che sono gli strumenti tipici del nostro diritto: eppure, molti sono i luoghi comuni e i falsi miti che continuano ad essere evocati in relazione al trust.

Confutarli è un esercizio indispensabile per quei professionisti che ritengono, come me, che per i nostri clienti (ma anche per noi stessi) il trust possa rappresentare in molti casi la soluzione ottimale per rispondere a quelle che sono le esigenze, personali e familiari (limitandoci a ragionare, in questo ambito, del trust familiare).

Accade infatti sovente che il cliente al quale proponiamo la “soluzione” trust voglia sentire, come è giusto che sia, diverse “campane”, magari rivolgendosi ad altri professionisti che la possono pensare in modo differente: il rischio è che si venga a trovare “tirato per la giacchetta”, dovendo scegliere fra chi gli suggerisce entusiasticamente l’istituto e chi invece cerca di dissuaderlo, evidenziandone i (presunti) rischi.

Il confronto evidentemente non è facile, non solo perché, chiaramente, nel dubbio la scelta più semplice per il cliente è quella di “non fare”, ma anche perché non sempre le obiezioni che vengono fatte hanno un fondamento tecnico e ci si rende conto che, spesso, chi “sconsiglia” l’istituto semplicemente non lo conosce (ma per molti professionisti ammettere una cosa del genere è evidentemente inaccettabile).

Per questo in una serie di contributi che verranno pubblicati nei prossimi numeri di Euroconference News cercheremo, rispondendo alle domande che generalmente il cliente “medio” ci pone quando si incomincia a “ragionare” di trust, di analizzare (e confutare) alcuni fra i più ricorrenti luoghi comuni che gli “scettici/detrattori” oppongono all’istituto e che potrebbero allontanare il cliente (disinformato) dall’avvalersi di uno strumento che, invece, potrebbe rivelarsi particolarmente utile per lui e per la sua famiglia:

  1. Siamo sicuri che il trust interno sia legittimo?
  2. Se faccio il trust, la gente (e l’AdE) mi guarda “male”?
  3. I trust in Italia si fanno sul serio?
  4. Soltanto i grossi patrimoni giustificano l’istituzione di un trust?
  5. Come funziona il trust se non c’è una legge italiana che lo regola?
  6. In caso di contenzioso, si va davanti a un giudice “straniero”?
  7. La tassazione indiretta “incerta” rende “incerto” il trust?

Rispondendo a queste domande, che, come detto, è frequente e “normale” il cliente ponga, saremo in grado di dargli quella conoscenza “basilare” dell’istituto che possa consentirgli di superare l’iniziale diffidenza, che è naturale nei confronti di ciò che non si conosce, e di sviluppare il desiderio di approfondire la materia, per comprendere se il trust possa essere realmente uno strumento utile per far fronte alle sue necessità e a quelle dei suoi cari.

Per approfondire questioni attinenti all’articolo vi raccomandiamo il seguente corso:

Laboratorio professionale sul trust: casi operativi