20 Maggio 2016

La nozione di profitto rilevante ai sensi dell’art. 13 D.Lgs. 231/2001

di Luigi Ferrajoli
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Con l’entrata in vigore del D.Lgs. n.231/01 sulla “Responsabilità amministrativa degli enti”, anche gli enti collettivi possono essere chiamati a rispondere dei reati commessi nel loro interesse o vantaggio dalle persone fisiche inserite nella struttura organizzativa. La riforma compiuta dal legislatore ha segnato un vero e proprio spartiacque rispetto agli orientamenti dottrinali e giurisprudenziali assunti in precedenza; la disciplina dettata dal D.Lgs. n.231/01 prende, infatti, le distanze dal principio fissato nell’art.27 della Costituzione che consacra la natura personale della responsabilità penale e costituisce una deroga all’antico brocardo secondo cui societas delinquere non potest.

Ad oggi gli enti, siano o no persone giuridiche, possono essere assoggettati sia a sanzioni di carattere penale-amministrativo sia, ai sensi dell’art.45 del D.Lgs. n.231/01, a misure cautelari interdittive “quando sussistono gravi indizi per ritenere la sussistenza della responsabilità dell’ente per un illecito amministrativo dipendente da reato e vi sono fondati e specifici elementi che fanno ritenere concreto il pericolo che vengano commessi illeciti della stessa indole di quello per cui si procede”.

Tuttavia, l’articolo 13, comma 1, del D.Lgs. n.231/01 è intervenuto a precisare che le misure interdittive si applicano al ricorrere di ulteriori condizioni. In particolare, alla lett. a) del citato articolo, è stabilito che l’ente deve aver tratto dal reato “un profitto di rilevante entità” e che il reato deve essere stato commesso “da soggetti in posizione apicale ovvero da soggetti sottoposti all’altrui direzione quando, in questo caso, la commissione del reato è stata determinata o agevolata da gravi carenze organizzative”.

La Corte di Cassazione, con sentenza n. 11029/16, è tornata nuovamente a pronunciarsi sulla nozione di profitto facendo chiarezza sugli elementi indicatori che il giudice di merito deve prendere in considerazione per poter determinare la rilevanza dell’entità del profitto.

Il caso da cui scaturisce la pronuncia della Cassazione muove da una misura interdittiva emessa dal Giudice delle indagini preliminari verso una società indagata per una serie di reati di corruzione, commessi dai propri dirigenti, finalizzati ad assicurare alla società l’aggiudicazione di appalti da parte di enti locali.

In tale occasione, la Cassazione (come peraltro già affermato nella precedente sentenza n. 51151/13) ha sostenuto che “la nozione di profitto di rilevante entità non può limitarsi ad un mero dato numerico, ma ha un contenuto più ampio di quello inteso come utile netto, in quanto in tale concetto vi rientrano anche vantaggi non immediati comunque conseguiti dall’ente attraverso la realizzazione dell’illecito”.

Sebbene siano molteplici le interpretazioni dottrinali e giurisprudenziali elaborate sul concetto del profitto, la Cassazione nella sentenza n. 11029/16 è intervenuta a ribadire che la rilevanza dell’entità del profitto non può essere valutata in riferimento solo al margine netto di guadagno ma deve necessariamente tener conto di altri “indicatori” quali ad esempio, per il caso di specie:

  1. l’acquisizione da parte dell’impresa di ulteriori lavori in occasione della precedente aggiudicazione illecita;
  2. l’assunzione dei requisiti per la qualificazione dell’impresa ai fini della partecipazione a gare di affidamento di lavori pubblici;
  3. l’incremento del merito di credito dell’impresa presso gli istituti bancari e/o finanziari, stimolati dall’aumento del fatturato e dell’utile aziendale conseguito dall’impresa a seguito della aggiudicazione illecita;
  4. l’aumento del potere contrattuale verso fornitori e subappaltatori, e così l’aumento delle possibilità di scontare condizioni economiche più favorevoli in termini di prezzi, qualità della fornitura e tempistiche di consegna;
  5. l’ottimizzazione dell’utilizzo delle risorse aziendali.

Confinare la valutazione della rilevanza del profitto ad una lettura semplicemente economico-aziendalistica sembrerebbe perciò un po’ riduttivo, in quanto non consente al giudice di merito di percepire e di valutare realmente il disvalore della condotta posta in essere dall’ente.

Alla luce delle suesposte considerazioni, la Cassazione nella sentenza in commento ha così ribadito come il giudice di merito sia chiamato a compiere una “valutazione globale dei fatti, con la presa in considerazione di tutti gli elementi dai quali sia possibile trarre l’esistenza di vantaggi economici ricollegabili casualmente al reato presupposto per cui si procede”.

Solo qualora il giudice non si limiti al mero dato numerico, ma riesca a motivare congruamente e logicamente la sussistenza di ulteriori vantaggi indiretti acquisiti in via mediata dall’ente, la decisione non potrà essere in alcun modo censurabile in sede di legittimità.