26 Gennaio 2019

Libertà di stabilimento ed esterovestizione

di Marco Bargagli
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Come noto, ai sensi dell’articolo 73, comma 3, Tuir, le società, gli enti ed i trust sono considerati fiscalmente residenti in Italia, quando per la maggior parte del periodo d’imposta (183 giorni) hanno la sede legale o la sede dell’amministrazione o l’oggetto principale nel territorio dello Stato.

Al fine di evitare fenomeni di doppia imposizione economica, i vari Stati hanno stipulato specifici accordi internazionali contro le doppie imposizioni sul reddito e sul patrimonio che intervengono per dirimere i casi in cui il contribuente è considerato residente in entrambi gli Stati contraenti, conferendo prevalenza al criterio della sede di direzione effettiva, conosciuto come “place of effective management”.

Sul punto l’Italia, formulando specifiche osservazioni all’articolo 4 del modello Ocse di Convenzione, ha introdotto una particolare riserva per effetto della quale, nel determinare la residenza fiscale di una società, oltre alla “sede della direzione effettiva”, dovrà essere attribuita estrema rilevanza anche al luogo nel quale viene svolta l’attività principale dell’impresa.

In tema di residenza fiscale, si è recentemente consolidato in giurisprudenza un particolare approccio ermeneutico: attesa la fondamentale importanza dei principi di libertà di stabilimento e libera prestazione di servizi, in ambito comunitario non può essere contestata l’esterovestizione societaria se non si è in presenza di una struttura di puro artificio, ossia di un soggetto che non svolge, in realtà, alcuna attività economica ma è stato costituito con il solo scopo di ottenere un indebito vantaggio fiscale .

Con particolare riferimento al tema della libertà di stabilimento, è recentemente intervenuta la Corte di cassazione con le sentenze n. 33234/2018 e 33235/2018, entrambe pubblicate in data 21.12.2018, con le quali è stato risolto un complesso e importante caso di esterovestizione societaria riguardante una società appartenente ad un famoso Gruppo italiano con sede legale in Lussemburgo.

In via preliminare, i supremi giudici hanno fornito la definizione di esterovestizione, ossia la fittizia localizzazione della residenza fiscale di una società all’estero, in particolare in un Paese con un trattamento fiscale più vantaggioso di quello nazionale, allo scopo di sottrarsi al più gravoso regime nazionale.

Il fenomeno in rassegna, per assumere una connotazione abusiva, deve avere come risultato l’ottenimento di un vantaggio fiscale che deve risultare, da un insieme di elementi oggettivi, lo scopo essenziale dell’operazione.

In linea con la giurisprudenza comunitaria, infatti, tra due operazioni il contribuente non è obbligato a scegliere quella che implica il pagamento di maggiori imposte ma, al contrario, ha il diritto di scegliere la forma di conduzione degli affari che gli consenta di ridurre la sua contribuzione fiscale.

Gli ermellini passano poi ad esaminare la rilevanza, in tema di residenza fiscale di una società o un ente, del principio comunitario della libertà di stabilimento, istituto cardine che ha l’obiettivo di permettere a un cittadino di uno Stato membro di creare uno stabilimento secondario in un altro Stato membro per esercitarvi le proprie attività e di partecipare così, in maniera stabile e continuativa, alla vita economica di uno Stato diverso dal proprio di origine e di trarne vantaggio. Tuttavia, la nozione di stabilimento implica l’esercizio effettivo di un’attività economica reale per una durata di tempo indeterminata, nonché l’insediamento in pianta stabile in un altro Stato membro.

Con particolare riguardo al fenomeno della localizzazione all’estero della residenza fiscale, la circostanza che una società sia stata creata in un determinato Stato per fruire di una legislazione più vantaggiosa non costituisce per se stessa un abuso di tale libertà.

Quindi, una misura prevista dall’ordinamento tributario che restringe la libertà di stabilimento è ammessa soltanto se riguarda le costruzioni societarie di puro artificio, finalizzate ad eludere la normativa dello Stato membro interessato.

Di conseguenza, a parere degli ermellini, “perché sia giustificata da motivi di lotta a pratiche abusive, una restrizione alla libertà di stabilimento deve avere lo scopo specifico di ostacolare comportamenti consistenti nel creare costruzioni puramente artificiose, prive di effettività economica e finalizzate ad eludere la normale imposta sugli utili generati da attività svolte sul territorio nazionale”.

In buona sostanza, concludono i supremi giudici, per individuare un abuso del diritto di stabilimento non rileva la sussistenza o meno di ragioni economiche diverse da quelle relative alla convenienza fiscale, ma occorre accertare se il trasferimento della sede societaria è realmente avvenuto, ovvero se l’operazione sia meramente artificiosa, avendo come scopo la creazione di una forma giuridica che non riproduce una corrispondente e genuina realtà economica.

Ciò posto, i giudici di piazza Cavour passano ad esaminare la normativa nazionale e convenzionale di riferimento, illustrando le previsioni sancite dall’articolo 73 Tuir e dall’articolo 4 della Convenzione internazionale contro le doppie imposizioni sul reddito e sul patrimonio stipulata tra Italia e Lussemburgo che, per individuare la residenza fiscale di una società o di un ente, fanno esplicito riferimento al criterio della “sede effettiva”.

In merito, viene affermato che:

  • la nozione di “sede dell’amministrazione”, in quanto contrapposta alla “sede legale”, si deve ritenere coincidente con quella di “sede effettiva”, intesa come il luogo ove hanno concreto svolgimento le attività amministrative e di direzione dell’ente e si convocano le assemblee, e cioè il luogo deputato, o stabilmente utilizzato, per l’accentramento – nei rapporti interni e con i terzi – degli organi e degli uffici societari in vista del compimento degli affari e dell’impulso dell’attività dell’ente. Di contro, il criterio riferito all’oggetto principale identifica il luogo in cui si concretizzano gli atti produttivi e negoziali dell’ente nonché i rapporti economici che esso intrattiene con i terzi;
  • per determinare il luogo della sede dell’attività economica di una società occorre prendere in considerazione un complesso di fattori, al primo posto dei quali figurano la sede statutaria, il luogo dell’amministrazione centrale, il luogo di riunione dei dirigenti societari e quello, abitualmente identico, in cui si adotta la politica generale di tale società. Sul punto, possono rilevare anche altri elementi, quali il domicilio dei principali dirigenti, il luogo di riunione delle assemblee generali, di tenuta dei documenti amministrativi e contabili e di svolgimento della maggior parte delle attività finanziarie, in particolare bancarie.

In linea con l’orientamento espresso sul versante penale dalla medesima Corte di cassazione, in caso di società con sede legale estera non può costituire criterio esclusivo di accertamento della sede della direzione effettiva l’individuazione del luogo dal quale partono gli impulsi gestionali o le direttive amministrative, qualora esso s’identifichi con la sede (legale o amministrativa) della società controllante italiana. Infatti, in tale circostanza, è necessario accertare anche che la società controllata estera non sia costruzione di puro artificio, ma corrisponda a un’entità reale che svolge effettivamente la propria attività in conformità al suo atto costitutivo o allo statuto.

Nel corso del giudizio di legittimità è emersa la necessità di interpretare le informazioni ricavabili dalla documentazione extracontabile acquisita alla verifica fiscale (in particolare dalle e-mail) in base al complesso intreccio organizzativo e funzionale che intercorre tra una controllata e la sua controllante capo-gruppo, che fisiologicamente si risolve in un rapporto tra uffici e personale dell’una e dell’altra, in quanto, come rilevabile in sentenza, “resta difficile comprendere quale autonomia gestionale e finanziaria dovessero avere due semplici dipendenti per poter qualificare l’insediamento lussemburghese in termini di effettiva realtà…”.

In buona sostanza, rilevano i giudici, “si comprende, in realtà, che dietro quel ripetuto richiamo alla mancanza di autonomia gestionale e finanziaria si cela l’ispirazione di fondo dell’intera decisione: la predisposizione degli aspetti gestionali ed organizzativi dell’attività diinteramente in Italia, lasciando alla sede lussemburghese i soli compiti esecutivi. Con il che, però, si ammette che qualcosa in Lussemburgo effettivamente si faceva, sì da giustificare una sede amministrativa collocata in una struttura diversa da quella legale e i costi del personale dapprima distaccato, quindi direttamente assunto, che vi operava”.

Sulla base dei sopra indicati principi di diritto, la suprema Corte di cassazione – accogliendo il ricorso del contribuente – ha rilevato che il giudice di merito ha esaurito la propria valutazione nella sbrigativa considerazione, meramente assertiva, che “il top management della … operava in Italia”, facendo leva su “gli impulsi, gli incontri per assumere le decisioni riguardanti la realizzazione dell’attività sociale”, senza valutare l’attività comunque svolta in Lussemburgo, che emerge proprio dalla corrispondenza e-mail valorizzata in senso opposto e trascritta in ricorso.

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