28 Febbraio 2019

La figura dell’imprenditore agricolo e l’utilizzo potenziale del fondo

di Luigi Scappini
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La riforma del 2001, come noto, ha rappresentato un punto di rottura per quanto riguarda il concetto di imprenditore agricolo e, in particolare, di quelle che sono le attività qualificanti.

Anteriormente la figura dell’imprenditore agricolo era saldamente ancorata a un concetto di attività direttamente e inscindibilmente legata al fondo, tant’è vero che lo stesso Legislatore fiscale vi ha agganciato la redditività in un connubio tutt’ora indissolubile.

Se tale scelta in passato non poteva prestare il fianco a critiche, l’attuale evoluzione del concetto di agricoltura ha comportato una sempre maggior difficoltà nel riconoscere in un reddito determinato su base catastale la giusta e corretta quantificazione delle effettive potenzialità reddituali di determinate attività.

Il sempre maggior sviluppo tecnologico applicato al comparto agricolo, comporta la nascita di attività che aspirano a essere classificate quali attività connesse a quelle agricole ex se (coltivazione del fondo, selvicoltura e allevamento di animali).

Tali attività, tuttavia, devono superare la “barriera” innalzata dal Legislatore civilistico attraverso l’introduzione di alcuni requisiti imprescindibili; infatti, l’attività connessa, che si ricorda nasce quale commerciale e solamente per fictio iuris assurge al ruolo di connessa, deve rispettare i requisiti di unisoggettività e prevalenza, nonché quello di coerenza con il comparto economico tra le attività esercitate.

Il requisito dell’unisoggettività sta a significare che l’attività, per essere considerata connessa, deve essere esercitata da un soggetto che in primis svolge una delle attività agricole ex se.

In altri termini, l’attività, per essere connessa, deve essere esercitata da un imprenditore agricolo.

Ecco che allora torna a essere fondamentale la corretta definizione delle attività agricole di coltivazione del fondo, selvicoltura e allevamento di animali, che hanno subìto un corposo e sostanziale restyling in occasione della riforma del 2001.

 Come noto, il D.Lgs. 228/2001 ha riscritto integralmente l’articolo 2135 cod. civ., qualificante l’imprenditore agricolo, apportando sostanzialmente 3 novità:

allargamento del concetto di fondo, esteso anche al bosco e agli specchi di acqua;

introduzione del concetto di ciclo biologico o di parte essenziale dello stesso e

potenzialità e non più necessità dell’esercizio dell’attività sul fondo.

Proprio quest’ultimo elemento è stato oggetto di un’interessante sentenza della Corte di Cassazione, la n. 12394 del 17.05.2017 con cui i Supremi giudici hanno ricordato come l’agricoltura, a prescindere dall’evoluzione della tecnica, rimane ancorata al suolo.

In effetti, la riforma aveva forse fuorviato allorquando la nuova formulazione dell’articolo 2135 cod. civ. ha previsto che le attività considerate agricole sono quelle “che utilizzano o possono utilizzare il fondo, il bosco o le acque dolci, salmastre o marine”.

Tale affermazione comporta che l’attività, per essere considerata quale agricola, non deve obbligatoriamente essere svolta sul fondo ma comunque potenzialmente lo dovrebbe; il tutto, si precisa in una pura declinazione civilistica (fiscalmente senza un reddito fondiario da dichiarare l’attività sarà sempre ricondotta tra quelle di impresa. Un esempio in tal senso è la pastorizia nomade).

La sentenza a dire il vero, solamente in via incidentale, si interessa della natura agricola o meno dell’attività, in quanto l’oggetto del contendere attiene alla giurisdizione, speciale od ordinaria, cui compente il contendere intorno a un contratto di comodato su di un fondo.

I Supremi giudici approdano alla conclusione per cui “appartiene alla competenza del Tribunale ordinario ogni controversia relativa alla concessione in godimento di un terreno agricolo destinato alla attività prevalente di allevamento di animali quali cani e gatti, in quanto non collegata funzionalmente alla produzione agraria del terreno, né riconducibile all’esercizio normale dell’agricoltura quale componente o fattore produttivo secondo la pratica zootecnica a quella connessa per l’impiego della forza lavoro animale o delle altre utilità normalmente fornite dal bestiame nel medesimo ciclo produttivo agrario”.

Le conseguenze di tale arresto non sono di poco conto in quanto se ne evince, quale corollario, che, a parere dei Supremi giudici, l’attività di allevamento di cani e gatti da affezione non è qualificante per l’imprenditore agricolo in quanto non è atta a sfruttare le potenzialità del fondo.

I giudici interpretano correttamente l’articolo 2135 cod. civ.; infatti, se è vero che il fondo non è più elemento imprescindibile, esso rimane comunque potenziale, da intendersi quale utilizzabile.

Ecco che allora emergono quelle antinomie che caratterizzano l’agricoltura quando si analizzano congiuntamente gli aspetti civilistici con quelli squisitamente fiscali. Nel nostro caso, ad esempio, si viene a delineare una situazione per cui l’allevatore di cani civilisticamente non si può considerare quale imprenditore agricolo (ergo è un imprenditore commerciale) ma dichiara un reddito di natura fondiaria per espressa previsione normativa.

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