27 Dicembre 2018

Ancora sui compensi sportivi – III° parte

di Guido Martinelli
Scarica in PDF

In questa “confusione” legislativa si inserisce un fatto nuovo. L’entrata in vigore, dal 1° gennaio 2019, dell’obbligo dell’inserimento nel registro Coni dei tecnici tesserati e della loro qualifica.

Ovviamente, il tesseramento, come tecnico da parte della Federazione o dell’ente di promozione sportiva, ha, come presupposto, che l’istruttore abbia partecipato ad un corso di formazione teso all’ottenimento della qualifica necessaria, indetto dallo stesso ente che poi procede al tesseramento.

Tale indicazione richiesta dal Coni fa conseguire che, anche agli effetti della circolare 1/2016 INL, in presenza di tale iscrizione nel registro Coni sia presupposto lo svolgimento di una attività riconosciuta dal Coni come sportiva; condizione essenziale, come è noto, per il riconoscimento del compenso sportivo.

Ma questo, ci sia consentito di insistere, non può escludere che il compenso sportivo possa legittimamente essere erogato anche al soggetto non tesserato come istruttore (e, quindi, non qualificato come tale da dall’ente affiliante di appartenenza) che, in maniera indiscutibile, stia allenando ad una disciplina sportiva riconosciuta, nella sua qualità di semplice laureato in scienze motorie o, come già ricordato, di tesserato come giocatore per il club di appartenenza.

Si ricorda che il presupposto normativo è la mansione, esercizio diretto di attività sportiva dilettantistica, e non le qualifiche del soggetto.

Se così non fosse, ad esempio, dovremmo avere anche qualifiche per le collaborazioni coordinate e continuative di carattere amministrativo – gestionale che, invece, nessuno rivendica.

Analogamente, non possiamo non ritenere valida, ai fini della legittima erogazione del compenso, l’attività dell’istruttore che abbia conseguito una qualifica valida per la disciplina praticata da altro ente diverso da quello per il quale è affiliato il soggetto presso il quale sta svolgendo la prestazione.

Ma questo produce un ulteriore problema. La professionalità assunta con la partecipazione a questi corsi indetti dalle varie Federazioni che se, in alcuni casi, sono di durata “irrisoria”, in altri si presentano impegnativi e anche a carattere pluriennale, non rafforza l’ipotesi che ci si trovi in presenza di un lavoratore e non di un dilettante?

Questi timori si rafforzano maggiormente nel momento in cui si ricorda che molte leggi regionali sullo sport impongono, per la gestione dell’attività corsistica a pagamento (e, stranamente, non per quella a carattere gratuito), la presenza di istruttori qualificati (intendendosi come tali i diplomati Isef o i laureati in scienze motorie) o di specifica disciplina. Con quest’ultimo termine ci si riferisce, per l’appunto, ai soggetti che possiedono un attestato di istruttore rilasciato da una Federazione o da un ente di promozione sportiva.

Ma la “necessità” dell’istruttore “brevettato” ai fini della citata legislazione ne fa conseguire anche il suo necessario inserimento organico all’interno della struttura della associazione o società sportiva dilettantistica organizzatrice del corso. Diventa una situazione analoga a quella dell’assistente bagnante: senza la sua presenza in vasca la piscina deve essere chiusa.

Premesso questo, posso continuare a ritenere che possa avere una finalità associativa la prestazione di un soggetto senza il quale il servizio che io offro agli utenti non potrà essere erogato? Questa corsa verso l’obbligatorietà della presenza di un istruttore adeguatamente formato (che, sia chiaro, è finalità che appare assolutamente condivisibile) non ci allontana dalla possibilità di erogare compensi per l’esercizio di una attività sportiva “dilettantistica” che non possono essere inquadrati in una fattispecie lavoristica?

La sensazione è quella di puntare, come dice il proverbio, ad avere la botte piena e la moglie ubriaca. Le due finalità appaiono confliggenti.

Ed emerge, ancora una volta, il danno che ha fatto l’abrogazione dell’inquadramento come collaborazione coordinata e continuativa che era stata introdotto con la Legge di bilancio 2018.

Il timore degli adempimenti conseguenti a tale qualifica, che oggettivamente avrebbero riguardato anche gli effettivi collaboratori con finalità associative, ha prodotto l’aver buttato il bambino con l’acqua sporca.

Quelli che apparivano eccessi formali, forse eliminabili, hanno precluso la soluzione di un problema che ormai si trascina da quasi vent’anni.

Ci vogliamo provare a risolverlo?

Per approfondire questioni attinenti all’articolo vi raccomandiamo il seguente corso:

Enti non profit: profili giuridici e fiscali