10 Ottobre 2025

Il particolare rapporto tra dichiarazione integrativa e rimborso IVA

di Gianfranco Antico
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In materia di IVA, continua a far discutere la possibilità o meno per il contribuente di modificare la scelta operata in sede di dichiarazione in ordine all’utilizzo dell’IVA eccedente. La richiesta di rimborso, piuttosto che la compensazione, avendo carattere negoziale, è in via di principio irretrattabile e come tale non può essere oggetto di dichiarazione integrativa. Tuttavia, la possibilità di rettificare l’originaria richiesta di rimborso del credito IVA, optando invece per la compensazione, è stata già ammessa da alcuni documenti di prassi, che hanno di fatto consentito l’integrativa non solo per correggere errori od omissioni, ma anche per modificare la scelta espressa in merito alla destinazione dell’eventuale credito maturato, pur se con dei precisi limiti.

 

Premessa

La possibilità o meno di rettificare l’originaria richiesta di rimborso del credito IVA, optando invece per la compensazione, continua a essere terreno di scontro, in assenza di una norma ad hoc.

Analizziamo, quindi, la questione, rilevando il pensiero della giurisprudenza di legittimità e gli orientamenti di prassi, così da offrire delle linee guida che possano meglio orientarlo nelle scelte.

 

La norma

Il Legislatore interno, con l’art. 8, comma 6-bis, D.P.R. n. 322/1998 – fermo restando l’applicazione delle sanzioni e di quanto contenuto nell’art. 13, D.Lgs. n. 472/1997[1] – consente l’integrazione delle dichiarazioni ai fini IVA per correggere errori od omissioni, compresi quelli che abbiano determinato l’indicazione di un maggiore o di un minore imponibile o, comunque, di un maggiore o di un minore debito d’imposta ovvero di una maggiore o di una minore eccedenza detraibile, mediante successiva dichiarazione da presentare, secondo le disposizioni ordinarie di cui all’art. 3, D.P.R. n. 322/1998, utilizzando modelli conformi a quelli approvati per il periodo d’imposta cui si riferisce la dichiarazione, non oltre i termini stabiliti dall’art. 57, D.P.R. n. 633/1972. I successivi commi 6-ter e 6-quater, art. 8, D.P.R. n. 322/1998, disciplinano le modalità di fruizione.

In particolare:

  • l’eventuale credito derivante dal minor debito o dalla maggiore eccedenza detraibile risultante dalle dichiarazioni integrate, presentate entro il termine prescritto per la presentazione della dichiarazione relativa al periodo d’imposta successivo, può essere portato in detrazione in sede di liquidazione periodica o di dichiarazione annuale, ovvero utilizzato in compensazione ai sensi dell’ 17, D.Lgs. n. 241/1997, ovvero chiesto a rimborso, sempreché ricorrano per l’anno per cui è presentata la dichiarazione integrativa i requisiti di cui agli artt. 30[2] e 34, comma 9[3], D.P.R. n. 633/1972;
  • l’eventuale credito risultante dalle dichiarazioni integrate ma presentate invece oltre il termine prescritto per la presentazione della dichiarazione relativa al periodo d’imposta successivo, può essere chiesto a rimborso ove ricorrano, per l’anno per cui è presentata la dichiarazione integrativa, i requisiti di cui agli artt. 30 e 34, comma 9, D.P.R. n. 633/1972, ovvero può essere utilizzato in compensazione per eseguire il versamento di debiti maturati a partire dal periodo d’imposta successivo a quello in cui è stata presentata la dichiarazione integrativa. Nella dichiarazione relativa al periodo d’imposta in cui è presentata la dichiarazione integrativa è indicato il credito derivante dal minor debito o dal maggiore credito risultante dalla dichiarazione integrativa.

Resta ferma in ogni caso per il contribuente la possibilità di far valere, anche in sede di accertamento o di giudizio, eventuali errori, di fatto o di diritto, che abbiano inciso sull’obbligazione tributaria, determinando l’indicazione di un maggiore imponibile, di un maggiore debito d’imposta o, comunque, di una minore eccedenza detraibile.

 

L’ultimo pronunciamento della Corte di Cassazione

Con l’ordinanza n. 16592/2025, la Corte di Cassazione è intervenuta sulla questione[4], a seguito del ricorso operato da una società, avverso la sentenza di II grado, con cui i giudici di appello hanno escluso l’effetto sostitutivo della dichiarazione integrativa, presentata dalla contribuente, assegnando rilevanza alla circostanza che essa non avesse comportato modifiche ricadenti su elementi essenziali della stessa, essendo rimaste immutate la volontà di chiedere il rimborso dell’IVA a credito e l’entità dello stesso. Sostiene la ricorrente che la presentazione della dichiarazione integrativa comporta la sostituzione della dichiarazione emendata a quella originaria, senza che a ciò osti la natura dell’errore emendato[5]. Osservano i massimi giudici che secondo un consolidato orientamento, sebbene le denunce dei redditi costituiscano di norma delle dichiarazioni di scienza e possano, quindi, essere modificate ed emendate, anche in sede giudiziale, in presenza di errori che espongano il contribuente al pagamento di tributi maggiori di quelli effettivamente dovuti[6], le scelte che il contribuente può operare, in quest’ambito: «attraverso la compilazione di un modulo predisposto dall’Erario, ad esempio per avvalersi di un beneficio fiscale o per optare per il rimborso piuttosto che per l’utilizzazione in compensazione di un credito d’imposta, implicano una manifestazione di volontà, cui la concessione del beneficio o quell’opzione è subordinata, avente valore di atto negoziale, la quale è, in quanto tale, irretrattabile anche in caso di errore, salvo che il contribuente dimostri che questo fosse conosciuto o conoscibile dall’amministrazione» (Cass., Sez. V, sent. n. 31237/2019; vedi anche Cass., Sez. Trib., ord. n. 33373/2024, punto 4.5)[7].

Il principio di generale emendabilità della dichiarazione, sia essa dei redditi che dell’IVA, si riferisce, infatti, all’ipotesi ordinaria nella quale la stessa rivesta carattere di mera dichiarazione di scienza, mentre, nelle parti in cui abbia carattere negoziale lo stesso non opera, salvo che il contribuente dimostri il carattere essenziale e obiettivamente riconoscibile dell’errore in cui sia incorso, ai sensi degli artt. 1427 ss., c.c.[8]. Pertanto: «la scelta operata dal contribuente di chiedere a rimborso il credito d’imposta, piuttosto che utilizzarlo in compensazione, ha carattere negoziale. Come tale è irretrattabile e non può, pertanto, essere oggetto di dichiarazione integrativa».

Se, pertanto, la dichiarazione integrativa presentata dalla società non era idonea a incidere sulla richiesta di rimborso «fatta con la dichiarazione annuale», certamente quest’ultima lo era per attivare in capo all’Amministrazione finanziaria i poteri di verifica della sussistenza del credito chiesto a rimborso, sicché è alla data di presentazione dell’originaria dichiarazione che l’Agenzia delle Entrate avrebbe dovuto far riferimento ai fini della decorrenza degli interessi di cui all’art. 38-bis, comma 1, seconda parte, D.P.R. n. 633/1972, non essendo giustificata una diversa decorrenza.

Per gli Ermellini una tale conclusione non è contraddetta da un suo precedente – Cassazione, n. 7983/2022 – in cui, con riferimento alla dichiarazione di successione, si è affermato che: «in caso di dichiarazione presentata oltre i termini di decadenza previsti dall’art. 27 del D.Lgs. n. 346 del 1990, l’obbligo di pagamento si ricollega alla spontanea presentazione della dichiarazione integrativa, con la conseguenza che solo da tale momento l’imposta potrà essere liquidata e diverrà esigibile e si potranno far decorrere gli interessi in caso di ritardato pagamento, ove esso avvenga oltre sessanta giorni dall’avviso di liquidazione; decorrenza che non può avvenire da una data anteriore, e segnatamente dalla scadenza del termine per presentare la dichiarazione originaria, atteso che a tale data l’ufficio non aveva attivato il potere di accertamento relativo a omissione o infedeltà della dichiarazione nel termine di decadenza previsto dalla legge, né vi era, in assenza di liquidazione, un credito liquido ed esigibile sul quale computare gli interessi, o una mora rispetto alla scadenza dell’obbligo di pagamento».

Invero, nella fattispecie esaminata dalla Corte in quel giudizio, la dichiarazione integrativa era stata presentata al fine di sanare l’omesso inserimento nell’originaria dichiarazione di altri cespiti immobiliari caduti in successione, sicché l’Amministrazione finanziaria fino alla presentazione della dichiarazione integrativa non aveva conoscenza dell’esistenza di tali ulteriori cespiti rientranti nella successione ereditaria e della loro incidenza ai fini della liquidazione dell’imposta e della sua esigibilità.

Diversamente, nel caso di specie l’esistenza di un credito IVA e la sua eventuale rimborsabilità era già nota all’Amministrazione finanziaria con la presentazione dell’originaria dichiarazione, che la CGT di II grado, con incontestato accertamento in fatto, ha affermato essere rimasta «del tutto immutata», avendo la dichiarazione integrativa «riguardato elementi diversi e non rilevanti ai fini di cui si discute», consistendo nella rappresentazione dell’avvenuto spontaneo versamento dell’IVA indetraibile originariamente indicata in eccesso e, dunque, «nella semplice illustrazione di un dato già “sterilizzato” e privo di effetti sull’entità dell’imposta da rimborsare e sulla relativa istruttoria».

In questo caso, dunque, la variazione apportata alla dichiarazione originaria con l’integrativa avrebbe potuto al più legittimare la richiesta alla società da parte dell’Amministrazione finanziaria di produrre eventuale ulteriore documentazione, ove strettamente necessaria ai fini dell’erogazione del rimborso.

 

L’orientamento dell’Amministrazione finanziaria

La possibilità di rettificare l’originaria richiesta di rimborso del credito IVA, optando invece per la compensazione, è stata già ammessa da alcuni documenti di prassi.

Originariamente, detta facoltà è stata riconosciuta – in assenza di una disciplina della dichiarazione integrativa ai fini IVA distinta e autonoma da quella propria delle imposte sui redditi e dell’IRAP – mediante la presentazione della c.d. dichiarazione integrativa “a favore” nei termini di cui all’art. 2, comma 8-bis, D.P.R. n. 322/1998, nella formulazione vigente fino al 23 ottobre 2016, ovvero «non oltre il termine prescritto per la presentazione della dichiarazione relativa al periodo d’imposta successivo» (cfr. in tal senso, le circolari n. 17/E/2011, n. 25/E/2012 e n. 35/E/2015).

Successivamente, l’art. 5, comma 1, lett. b), n. 2), D.L. n. 193/2016, conv. con modif. dalla Legge n. 225/2016, ha aggiunto il comma 6-bis, all’art. 8, D.P.R. n. 322/1998, attualmente in vigore, così introducendo una disciplina “ad hoc” della dichiarazione integrativa ai fini IVA. La nuova disciplina della dichiarazione integrativa ai fini IVA, distinta e autonoma, ma modellata e tendenzialmente coincidente con quella propria delle imposte sui redditi e dell’IRAP, equipara i termini entro i quali è possibile presentare la dichiarazione integrativa, a prescindere dalla circostanza che gli errori e le omissioni da emendare siano a favore dell’Amministrazione finanziaria o del contribuente.

Già con la risposta a interpello n. 231/E/2020, l’Agenzia delle Entrate ha fornito una serie di chiarimenti in merito alla possibilità di rettificare l’originaria richiesta di rimborso del credito IVA, optando invece per la compensazione[9]. A tal proposito, il documento di prassi richiamato consente di modificare la scelta dell’utilizzo del credito IVA (da rimborso a detrazione/compensazione):

  • sempreché il rimborso non sia stato ancora eseguito;
  • presentando una dichiarazione integrativa non oltre i termini stabiliti dall’ 57, D.P.R. n. 633/1972;
  • indicando il credito risultante dalla dichiarazione integrativa nella dichiarazione relativa al periodo d’imposta in cui è presentata la dichiarazione integrativa stessa.

Orientamento confermato successivamente, con la risposta a interpello n. 328/E/2022, dove peraltro l’Autorità fiscale italiana si è occupata anche del differimento dei termini di decadenza di cui all’art. 57, comma 3, D.P.R. n. 633/1972[10], richiamando la circolare n. 328/E/1997, ove è stato chiarito che: «Tale misura assolve la funzione cautelativa di evitare le frodi o il mancato assolvimento dell’imposta a danno dell’Erario, da parte di quei contribuenti che, non ottemperando deliberatamente alla richiesta dell’ufficio di presentazione di detta documentazione, mirano a far decorrere i termini di decadenza previsti dalle vigenti disposizioni, allo scopo di legittimare posizioni irregolari o debitorie nei confronti dell’ufficio, che si troverebbe così nell’impossibilità di poter effettuare i necessari controlli».

Per l’Agenzia delle Entrate, il rinvio ai termini stabiliti dall’art. 57, D.P.R. n. 633/1972, a opera del comma 6-bis, dell’art. 8, D.P.R. n. 322/1998 – con riferimento alle tempistiche di presentazione della dichiarazione integrativa ai fini IVA – non può che far riferimento ai termini “ordinari” disciplinati dal comma 1, dell’art. 57, D.P.R. n. 633/1972, per finalità di coerenza e organicità del sistema. Orbene, il “differimento” contemplato dal comma 3, del richiamato art. 57, D.P.R. n. 633/1972, rappresenta uno «strumento di controllo», volto a evitare strumentalizzazioni che potrebbero ravvisarsi nell’ipotesi in cui, come detto, il contribuente pretestuosamente «temporeggi» nell’ottemperare alla richiesta dell’ufficio di presentazione della documentazione necessaria ai fini dell’erogazione dei rimborsi IVA, con l’obiettivo di far decorrere i termini per l’accertamento. Trattasi, dunque, di una misura posta a presidio dei poteri dell’ufficio, la cui applicazione discende dall’adozione di una condotta del contribuente scorretta od omissiva, da cui pertanto non può derivare un beneficio a suo favore, qual è l’allungamento dei termini di presentazione della dichiarazione integrativa[11].

 

Brevi conclusioni

Come è noto, il rimborso del credito d’imposta consiste nella restituzione al contribuente delle somme che ha indebitamente versato o che ha versato in misura superiore a quelle dovute e si concretizza in una posizione creditoria che può essere oggetto di una domanda di restituzione delle somme illegittimamente prelevate.

A chi ha erroneamente pagato è attribuita l’azione di ripetizione che, nel diritto tributario, si traduce nella possibilità di presentare l’istanza di rimborso, la cui disciplina si differenzia a seconda della natura delle imposte, periodica e non, dirette e indirette.

E come rilevato in Cassazione n. 33373/2024, l’indicazione del credito nella dichiarazione IVA non implica, di per sé, la manifestazione di volontà di ottenimento del rimborso, dovendosi al riguardo verificare se nella compilazione della dichiarazione annuale possa in concreto rinvenirsi l’esplicitazione di una tale volontà. E infatti, la domanda di rimborso del credito d’imposta maturato dal contribuente deve considerarsi presentata con la compilazione del corrispondente quadro della dichiarazione annuale, la quale configura formale esercizio del diritto (Cass., n. 26371/2019).

In tema di detrazione IVA, non è la presentazione della dichiarazione IVA che regge, in quanto tale, la spettanza della detrazione, ma la sussistenza dei presupposti sostanziali per la sua fruizione. Il credito vantato dal contribuente nasce dalla legge e non dalla dichiarazione e, quindi, una volta dimostrata l’effettiva esistenza del credito, risultante dai registri IVA e dai documenti prodotti all’ufficio, l’Amministrazione finanziaria non può negare la compensazione, pur in mancanza della dichiarazione, in quanto in tale modo la PA verrebbe posta nella medesima condizione in cui si sarebbe trovata qualora il contribuente avesse presentato la dichiarazione (Cass., n. 3066/2023), sempre che – a nostro avviso – non siano scaduti i termini per l’esercizio dei poteri di controllo.

Sul rapporto tra detrazione e rimborso del credito IVA, la giurisprudenza è pacifica nell’affermare che fra il diritto a detrazione e quello al rimborso del contribuente di un credito IVA esiste un meccanismo di alternatività che impedisce di sperimentare entrambi i rimedi da parte del contribuente rispetto all’eccedenza d’imposta. Infatti: «In tema di IVA, la facoltà del contribuente di portare in detrazione il credito d’imposta può essere esercitata soltanto nell’anno successivo alla maturazione di detto credito, mediante annotazione nel registro di cui all’art. 25, del D.P.R. n. 633 del 1972, derivando tale preclusione dagli artt. 32, comma 2, e 55, comma 1, del D.P.R. n. 633 del 1972. Ne consegue che, una volta maturata tale preclusione, il contribuente può soltanto domandare il rimborso della maggior imposta pagata, nei limiti e con le forme prescritte per la relativa istanza» (cfr. Cass. n. 16257/2007).

Tuttavia, il contribuente può modificare l’originaria richiesta di rimborso, optando per la compensazione del credito solamente, ai sensi dell’art. 17, D.Lgs. n. 241/1997, entro l’anno successivo alla maturazione del credito medesimo, in quanto il principio di alternatività tra rimborso e detrazione esclude l’illimitata possibilità di revoca della scelta del rimborso, originariamente effettuata (Cass. n. 15180/2014; Cass. n. 5387/2017; Cass. n. 23852/2019).

E come rilevato nella risposta a interpello n. 217/E/2023, da una serie di precedenti (risoluzioni n. 99/E/2014 e n. 82/E/2018, nonché circolare n. 35/E/2015, risposte a interpello n. 231/E/2020, n. 292/E/2020, n. 289/E/2021 e n. 328/E/2022) possono essere tratti alcuni principi, tra cui la revocabilità della manifestazione di volontà sottesa alla richiesta di rimborso, con rinuncia alla stessa e la modificabilità della richiesta formulata, nei limiti emendativi delle dichiarazioni annuali.

 

[1] Norma che disciplina il ravvedimento operoso.

[2] Norma che disciplina il versamento del conguaglio e il rimborso dell’eccedenza.

[3] Dettato per il regime speciale dei produttori agricoli.

[4] A margine, gli Ermellini hanno ribadito che il provvedimento con cui l’Amministrazione finanziaria neghi il rimborso di un credito, sia esso riferibile a tributi o agli interessi dovuti sugli stessi, «non ha, neppure sostanzialmente, natura di avviso di accertamento (che presuppone necessariamente una pretesa tributaria nuova), sicché l’atto non deve avere una motivazione simile a quella prevista da specifiche disposizioni di legge per gli atti costituenti esercizio della potestà impositiva» (conforme Cass. n. 8998/2014). Inoltre, nelle controversie aventi a oggetto l’impugnazione del rigetto di un’istanza di rimborso il contribuente riveste la qualità di attore in senso non solo formale – come nei giudizi di impugnazione di un atto impositivo – ma anche sostanziale, sicché grava sul contribuente l’onere di fornire la prova della propria domanda, mentre l’ufficio, non esplicitando alcuna “pretesa” (impugnata dal contribuente), come avviene con l’avviso di accertamento o di liquidazione, o l’irrogazione di una sanzione, «non incontra nella motivazione del provvedimento espresso di diniego gli obblighi impostigli dalle specifiche disposizioni in materia di motivazione degli atti impositivi, tant’è che nell’eventuale giudizio di impugnazione di quel provvedimento può prospettare, senza che si determini vizio di ultrapetizione, argomentazioni giuridiche ulteriori rispetto a quelle che hanno formato la motivazione di rigetto dell’istanza in sede amministrativa. Ne consegue che, non potendosi attribuire alla motivazione del provvedimento di rigetto (equivalente, peraltro, al cd. silenzio-rifiuto, del pari impugnabile) il carattere dell’esaustività, può ritenersi adeguata una motivazione del diniego che delinei gli aspetti essenziali delle ragioni del provvedimento, e che si fondi sull’insussistenza dei presupposti per il rimborso, richiamando altresì le norme di riferimento e gli eventuali provvedimenti adottati (Cass. n. 25999 del 2022; in termini anche Cass. n. 22620 del 2023)». Nel caso di specie, i giudici di appello, con la statuizione censurata, hanno disatteso tali principi erroneamente qualificando come espressione di «potere impositivo» nonché «dell’azione autoritativa» dell’Amministrazione finanziaria l’individuazione del periodo di sospensione posto a base del provvedimento di diniego di rimborso impugnato.

[5] La società in data 20 giugno 2012 presentava la dichiarazione IVA per l’anno d’imposta 2011, chiedendo il rimborso di una parte dell’IVA maturata a credito. Successivamente, in data 27 settembre 2013 presentava dichiarazione integrativa immodificata sia nella richiesta di rimborso del credito IVA sia nell’entità dello stesso. L’Agenzia delle Entrate ha calcolato il termine di inizio della decorrenza degli interessi di cui all’art. 38-bis, comma 1, seconda parte, D.P.R. n. 633/1972 («novantesimo giorno successivo a quello in cui è stata presentata la dichiarazione») dalla data della presentazione della dichiarazione integrativa, e ciò è stato ritenuto illegittimo dal giudice di appello sul rilievo che la dichiarazione integrativa di fatto non aveva inciso sugli “elementi essenziali” della prima dichiarazione.

[6] Cfr. Cass., SS.UU. n. 13378/2016.

[7] Per gli Ermellini deriva che l’utilizzazione o meno del credito d’imposta è lasciata alla libera scelta del contribuente e implica una manifestazione di volontà che viene espressa nella dichiarazione, manifestazione di volontà necessaria per formulare la richiesta di rimborso del credito IVA, che può essere revocata, con rinuncia alla stessa (cfr. anche risposta a interpello n. 217/E/2023); diversa è, invece, l’ipotesi di errore della dichiarazione, che assume una rilevanza specifica, a seconda che lo stesso sia emendabile (e in questo caso la dichiarazione dei redditi rappresenta una dichiarazione di scienza) o non emendabile (perché concerne la parte negoziale della dichiarazione dei redditi), essendo necessario nel secondo caso che il contribuente dimostri il carattere essenziale e obiettivamente riconoscibile dell’errore.

[8] Cass., Sez. V, sent. n. 35133/2022; in termini, Cass. n. 7294/2012 e Cass. n. 1117/2018.

[9] E la stessa Agenzia delle Entrate – risposta a interpello n. 289/E/2021 – ha riconosciuto la possibilità di presentazione di una dichiarazione IVA integrativa per apporre il visto di conformità e la dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà, prima assenti, anche se il contribuente non modifica la destinazione a rimborso del credito IVA e nonostante l’archiviazione della prima istanza di rimborso. E le predette integrazioni non comportano l’irrogazione di sanzioni, in quanto non sono riconducibili a un errore o a una violazione.

[10] Nel caso di richiesta di rimborso dell’eccedenza d’imposta detraibile risultante dalla dichiarazione annuale, se tra la data di notifica della richiesta di documenti da parte dell’ufficio e la data della loro consegna intercorre un periodo superiore a 15 giorni, il termine di decadenza, relativo agli anni in cui si è formata l’eccedenza detraibile chiesta a rimborso, è differito di un periodo di tempo pari a quello compreso tra il sedicesimo giorno e la data di consegna.

[11] Resta fermo che, in base all’art. 1, D.P.R. n. 443/1997, nell’ipotesi in cui il rimborso fosse denegato per difetto dei presupposti stabiliti dall’art. 30, D.P.R. n. 633/1972, con contestuale riconoscimento della spettanza del credito, ne sarebbe ammessa la «detrazione, successivamente alla notificazione» del provvedimento di diniego, «in sede di liquidazione periodica, ovvero nella dichiarazione annuale».

 

Si segnala che l’articolo è tratto da “Iva in pratica”.