25 Ottobre 2014

Cessione azienda e rendita vitalizia: è corretta la tesi della Cassazione?

di Comitato di redazione
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Abbiamo già discusso, nel
precedente caso controverso, della problematica attinente alle ripercussioni accertative che, in caso di
cessione d’azienda, insorgono tra il comparto dell’imposta di registro e quello delle imposte dirette. Vogliamo restare sul tema e, sempre grazie agli spunti raccolti durante le giornate del Master Breve, riflettere sulla questione della cessione d’azienda
a fronte della costituzione di una rendita vitalizia.
La casistica è tanto
semplice nella sua struttura quanto
complicata nelle conseguenze reddituali.
Il motivo per cui possa essere
interessante cedere un compendio aziendale a fronte di una rendita può essere sostanzialmente chiaro: oggi
molte aziende non hanno un valore evidente e ben definito, proprio per il fatto che risulta del tutto
incerto il guadagno che potrà trarsi dalla prosecuzione dell’attività. Tali incertezze si riflettono, da un lato, nel
poco interesse del potenziale acquirente alla
effettuazione di un
investimento e, aspetto non secondario, nella
difficoltà di ottenere un finanziamento per il pagamento del corrispettivo richiesto.
Allora la
rendita vitalizia assegnata al cedente persona fisica può rappresentare una interessante soluzione al problema, costituendo un
palliativo per il venditore che, pur non potendo realizzare “il gruzzolo” matura il diritto ad una sorta di pensione integrativa, così come rappresenta
un costo fisso nell’ammontare ma variabile nella durata per l’acquirente che, fatti gli opportuni calcoli, potrebbe riuscire ad ipotizzare un equilibrio economico e finanziario nella gestione dell’attività.
Le premesse, insomma, paiono essere presenti per riscontrare una validità di fondo dell’istituto che, per inciso,
contiene al suo interno anche
una piccola scommessa sulla durata del periodo per cui si dovrà erogare la rendita.
Ma a fronte di tali spunti di interesse, non possiamo non registrare le
difficoltà di natura tributaria che insorgono, per il sol fatto che
l’amministrazione finanziaria e la Cassazione ritengono che dall’operazione come sopra delineata emergano
due differenti materie imponibili.
Infatti, è da
tassare la plusvalenza da cessione di azienda ed è parimenti da
assoggettare ad imposizione la rendita, poiché la medesima non sarebbe una modalità di pagamento del prezzo, bensì un autonomo cespite redditualmente rilevante.
Ed invece a noi pare che
non si possa e non si debba aderire ad una tale conclusione che, nei fatti, conduce ad una doppia tassazione che il nostro ordinamento (ed anche la logica) vuole scongiurare.
Certo, può non essere semplice affrontare la vicenda di petto, già sapendo in anticipo che si dovrà affrontare
una fase contenziosa dall’esito più che incerto.
Però, ci sembra corretto riscontrare le seguenti anomalie:
  1. la Cassazione sostiene che la rendita non sarebbe una modalità di pagamento, bensì una posta autonoma; se così fosse, ci chiediamo, quale sarebbe la modalità di pagamento? Vero è che il reddito di impresa tassa la plusvalenza a prescindere dall’incasso, ma appare importante contrastare la conclusione per argomentare in senso negativo. Se non vi fosse alcuna modalità di pagamento, non si tratterebbe forse di una donazione e non di una cessione d’azienda?
  2. la Cassazione sostiene la correttezza della tassazione anche della rendita, in quanto assimila la casistica a quella del soggetto che, una volta incassato il corrispettivo, lo investe in modo da trarne un guadagno (per ipotesi reddito di capitale) che sarebbe ovviamente tassato. Ma anche questa affermazione presta il fianco ad evidenti critiche, per il semplice fatto che la rendita viene tassata in modo integrale e non solo per la eventuale quota di un rendimento ipotetico. Dunque, la conclusione appare ancora una volta orientata verso una doppia imposizione;
  3. la Cassazione sostiene la correttezza della doppia imposizione sul cedente ma non si occupa della deduzione del costo in capo all’acquirente. Normalmente, infatti, a fronte di materia imponibile da un lato dovrebbe accompagnarsi materia deducibile sul versante del reddito di impresa. Nel caso specifico così non è, poiché altrimenti l’acquirente finirebbe per dedurre due volte un unico prezzo; poiché ciò non è logicamente possibile, sembra equilibrato e logico ritenere che il contraltare della mancanza del costo debba essere l’assenza di reddito.
Certo è che le
pronunce di legittimità sono certamente
influenzate dal fatto che,
nel passato, le
rendite erano
solo parzialmente imponibili; pertanto, poteva insorgere il dubbio che la modalità di pagamento prescelta fosse unicamente il frutto di un
mero arbitraggio fiscale.
Ed a ben vedere, in quell’ottica si poteva addirittura ritenere che la quota parte di rendita tassabile rappresentasse solo il frutto dell’investimento del capitale, sia pure se le percentuali non potessero confermare tale ragionamento.
Oggi, però, non è più cosi, con la conseguenza che non possiamo che
sperare in un
drastico cambio di rotta, magari accompagnato da soluzioni “salomoniche” tese a riscontrare nella rendita una “ideale” quota di rendimento da tassare, magari facendo riferimento al tasso legale o a medie di rendimenti di titoli di riferimento.
Forse non sarebbe un approdo definitivo ma, quantomeno, si sarebbe rimossa una evidente stortura.