13 Marzo 2014

L’elusione codificata non ha rilevanza penale

di Leda Rita Corrado
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Le vicende del c.d. “Gruppo Mythos” sono note. Operante a Milano fin dagli Anni Novanta, questa complessa organizzazione aveva ad oggetto lo svolgimento di “attività finanziaria di compravendita di partecipazioni e predisposizione di prodotti fiscali per l’impresa”. L’arresto di uno dei due soci per corruzione di funzionari tributari ha scoperchiato il vaso di Pandora: secondo la prospettazione accusatoria, il servizio offerto consisteva in realtà nella creazione di strutture societarie fittizie e nell’assistenza in operazioni inesistenti (dividend washing, management fees e finanziamenti) volte unicamente alla riduzione dei tributi dovuti dai clienti. I vertici del gruppo sono stati chiamati a rispondere di associazione a delinquere finalizzata alla realizzazione di reati tributari (artt. 2, 8 e 10 quater, d.lgs. n. 74 del 2000).

Tra i numerosi profili di interesse della sentenza n. 36859 del 2013, merita particolare attenzione il passaggio in cui la Suprema Corte esclude che possano essere considerate elusive le operazioni di dividend washing collegate ad utili inesistenti (come ampiamente dimostrato – tra l’altro –dalla mancanza delle corrispondenti disponibilità finanziarie e dal tenore testuale dei messaggi di posta elettronica scambiati dagli imputati).

Nello svolgere le proprie argomentazioni, la Corte di Cassazione inserisce un obiter dictum (§ 3.3 del “considerato in diritto”) in cui, pur muovendo dalle medesime – e condivisibili – premesse già enunciate per il caso “Dolce & Gabbana” (sentenza n. 7739 del 2012), scivola verso l’opposta conclusione dell’irrilevanza penale delle condotte elusive non soltanto quando esse si pongano in contrasto con il principio generale di matrice pretoria dell’abuso del diritto (cfr. sentenze nn. 30055, 30056 e 30057 del 2008), ma anche qualora siano osteggiate da una specifica disposizione legislativa come l’art. 37 bis, d.p.r. n. 600 del 1973. Due sono gli argomenti che il Collegio tratteggia. In primo luogo si osserva che, in un ordinamento sanzionatorio conformato al rispetto del “principio costituzionale di stretta legalità e del suo immediato corollario, che impone la tassatività delle fattispecie incriminatrici”, “per aversi sanzioni penali occorrono previsioni esplicite, indicative della volontà del legislatore di apprestare […] la tutela di maggior rigore”, non essendo sufficienti le disposizioni attribuiscono all’Amministrazione finanziaria il potere di disconoscere i vantaggi tributari indebiti. In secondo luogo si rileva che l’assenza di “una norma da cui ricavare una immediata equiparazione dell’elusione all’evasione, categorie concettuali che vengono ancora distinte in interventi legislativi recenti, seppure ispirati da una logica di comune intervento nei confronti di entrambe” (cfr. art. 35, d.l. n. 223 del 2006 e art. 24, comma 29, d.l. n. 98 del 2011), fa sì che sia “tutt’altro che automatico” l’allargamento all’elusione delle sanzioni penali espressamente previste per l’evasione, specie alla luce delle modifiche al diritto penale tributario introdotte con il d.lgs. n. 74 del 2000.

La sentenza in commento non soltanto segna un punto di svolta nei principi enunciati dalla giurisprudenza di legittimità sulla questione della rilevanza penale delle condotte elusive (cfr. sentenze nn. 7739 del 2012 e 19100 del 2013), ma, qualificando come inesistenti le operazioni di dividend washing su utili “fantasma” (o “farlocchi”, per usare una espressione gergale riportata in alcuni documenti in atti), pare anche superare un altro profilo critico dei precedenti richiamati. Sia nel caso “Dolce & Gabbana” (sentenza n. 7739 del 2012), sia nel caso “Raul Bova” (sentenza n. 19100 del 2013) ipotesi di evasione (esterovestizione nel primo, nel secondo interposizione) sono state impropriamente qualificate come fattispecie elusive: ricondurre tali casi nell’alveo della prima categoria consente di troncare il nodo gordiano dell’applicabilità delle sanzioni penali.

Il Giudice di legittimità è tanto fermo nelle proprie convinzioni da ritenere che non sussistano i presupposti né per investire le Sezioni Unite della questione della rilevanza penale delle condotte elusive – iniziativa sollecitata invece dal Pubblico Ministero – né per formulare un rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea o per esperire una azione finalizzata al risarcimento dei danni da illecito comunitario commesso dallo Stato italiano nell’esercizio della funzione giurisdizionale – come invece prospettato dalla difesa di uno degli imputati – per contrasto con l’orientamento della giurisprudenza europea secondo cui la constatazione dell’esistenza di un comportamento abusivo (ad esempio, l’indebita detrazione dell’Iva assolta a monte) “non deve condurre a una sanzione, per la quale sarebbe necessario un fondamento normativo chiaro e univoco, bensì e semplicemente a un obbligo di rimborso di parte o di tutte le indebite detrazioni dell’Iva assolta a monte” (Corte di Giustizia UE, 14 dicembre 2000, causa C-110/99, Emsland-Stärke, § 56 e Corte di Giustizia UE, Grande Sezione, 21 febbraio 2006, causa C-255/02, Halifax, § 93).