Ipotesi in cui si applica il reverse charge “esterno”
di Marco PeiroloL’IVA relativa alle cessioni di beni e alle prestazioni di servizi territorialmente rilevanti in Italia – poste in essere da soggetti non residenti (a eccezione di quelle rese per il tramite di una stabile organizzazione in Italia) – deve sempre essere assolta dal cessionario/committente, se soggetto passivo stabilito in Italia, mediante l’applicazione del meccanismo del reverse charge c.d. esterno.
A prevederlo è l’art. 17, comma 2, D.P.R. n. 633/1972, in recepimento della facoltà concessa agli Stati membri dall’art. 194, par. 1, Direttiva n. 2006/112/CE, che consiste nella possibilità di applicare il sistema dell’inversione contabile, in via generalizzata, alle cessioni di beni e alle prestazioni di servizi effettuate nel territorio dello Stato da soggetti non residenti nei confronti di soggetti passivi italiani.
La citata norma prevede, inoltre, che l’obbligo di reverse charge si concretizza con l’applicazione:
- della procedura di integrazione e di registrazione applicabile agli acquisti intracomunitari di beni, quando il cedente/prestatore non residente è stabilito in altro Stato membro; ovvero
- della procedura di autofatturazione, quando il cedente/prestatore non residente è stabilito al di fuori dell’UE.
Al fine di adempiere all’obbligo comunicativo, di cui all’art. 1, comma 3-bis, D.Lgs. n. 127/2015 (c.d. esterometro) per le operazioni effettuate a partire dal 1° luglio 2022, il cessionario/committente italiano deve inviare tramite il Sistema di Interscambio il TipoDocumento “TD17” (per gli acquisti di servizi) o “TD19” (per gli acquisti di beni) che sarà recapitato al solo soggetto emittente. La trasmissione del TipoDocumento “TD17” o “TD19” consente anche di adempiere all’obbligo di integrazione/autofatturazione, ai sensi dell’art. 17, comma 2, D.P.R. n. 633/1972.
Il reverse charge “esterno” trova applicazione anche, in via d’eccezione, per le operazioni per le quali la normativa italiana prevede l’applicazione del meccanismo del reverse charge “interno”, vale a dire per le cessioni e le prestazioni contemplate dagli artt. 17, commi 5, 6 e 7, e 74, commi 7 e 8, D.P.R. n. 633/1972, per le quali il debitore della relativa imposta resta il destinatario del bene/servizio, anche se non stabilito in Italia.
Come, infatti, specificato dalla circolare n. 21/E/2016, il debitore IVA è, in ogni caso, il cessionario/committente, ove soggetto passivo ai fini IVA, anche se non stabilito in Italia, indipendentemente dal fatto che il cedente/prestatore sia ivi stabilito o identificato. Per assolvere il predetto obbligo, dunque, il cessionario/committente – in assenza di sede o stabile organizzazione nel territorio dello Stato – deve necessariamente aprire una posizione IVA in Italia.
Infine, il reverse charge “esterno” si applica anche nelle ipotesi contemplate dall’art. 7-ter, comma 2, lett. b) e c), D.P.R. n. 633/1972, vale a dire quando si considerano soggetti passivi, per le prestazioni di servizi “generiche” a essi rese:
- gli enti, le associazioni e le altre organizzazioni di cui all’ 4, comma 4, D.P.R. n. 633/1972, anche quando agiscono al di fuori delle attività commerciali o agricole;
- gli enti, le associazioni e le altre organizzazioni, non soggetti passivi, identificati ai fini IVA.
La prima tipologia di enti è quella degli enti non commerciali soggetti passivi IVA, cioè che non hanno per oggetto esclusivo o principale l’esercizio di attività commerciali o agricole, per i quali l’art. 4, comma 4, D.P.R. n. 633/1972, prevede che si considerano effettuate nell’esercizio di imprese soltanto le cessioni di beni e le prestazioni di servizi fatte nell’esercizio di attività commerciali o agricole.
Ai fini della verifica del presupposto territoriale, i predetti enti non commerciali, per le prestazioni di servizi “generiche” ricevute, si considerano soggetti passivi anche quando agiscono al di fuori delle attività commerciali o agricole. Di conseguenza, devono applicare il meccanismo del reverse charge “esterno”, indipendentemente dalla destinazione dei servizi ricevuti alla sfera commerciale/agricola o a quella istituzionale.
La seconda tipologia di enti è quella degli enti non soggetti passivi, ma che sono identificati ai fini IVA, in quanto si trovano nella situazione contemplata dall’art. 38, comma 5, lett. c), D.L. n. 331/1993, il quale prevede un sistema alternato di applicazione dell’imposta, nel Paese UE di origine o in quello di destinazione, a seconda del volume di acquisti effettuati nell’anno precedente o in quello in corso. Nello specifico, al di sotto della soglia di 10.000,00 euro annui, l’IVA è addebitata dal fornitore comunitario, mentre al di sopra di questo limite monetario l’IVA è dovuta dall’ente italiano, previa attribuzione del numero di partita IVA, il quale – anche se “sotto soglia” – può comunque optare per l’applicazione dell’imposta in Italia.
In sostanza, se l’IVA relativa agli acquisti di beni di provenienza intracomunitaria è dovuta in Italia, per obbligo o per opzione, anche l’imposta relativa alle prestazioni di servizi “generiche” ricevute resta dovuta nel territorio dello Stato, con la conseguenza che l’ente non soggetto passivo identificato ai fini IVA diventa il debitore della relativa imposta.


