Sui profili penal-tributari della interposizione fittizia di manodopera
di Massimiliano TasiniPremessa
La disciplina riservata dal Legislatore al fenomeno della interposizione fittizia di manodopera nel corso del 2024 ha subito profonde modifiche per effetto di quanto disposto dal D.L. n. 19/2024, c.d. Decreto PNRR, poi convertito, con modificazioni, nella Legge n. 56/2024.
Si è trattato di una Riforma indotta da alcune indagini che hanno portato a ipotizzare (e poi confermare) l’impiego di lavoro irregolare in grandi imprese operanti nei settori della logistica e della moda, oltre ad altri.
Anteriormente alla Riforma, sul piano penale, 2 erano i corpi normativi di riferimento.
Intanto, il Codice penale, che, all’art. 603-bis, contemplava (e contempla tuttora) il reato di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro, punito nella sua configurazione base con la pena della reclusione da 1 a 6 anni e la multa da 500 a 1.000 euro per ciascun lavoratore reclutato.
In secondo luogo, l’art. 18, D.Lgs. n. 276/2003, contemplava varie ipotesi: l’esercizio non autorizzato delle attività di somministrazione, di quella di intermediazione, nonché di ricerca, selezione del personale e supporto alla ricollocazione.
Per le finalità di questo lavoro, vale però la pena di citare soprattutto le ipotesi dell’utilizzo della somministrazione illecita di prestatori di lavoro o in violazione dei limiti di Legge, punito con la pena dell’ammenda di 50 euro per ogni lavoratore occupato e per ogni giornata di occupazione (art. 18, comma 2), nonché dell’utilizzo e somministrazione di manodopera tramite l’appalto e il distacco illecito, punito con l’ammenda di 50 euro per ogni lavoratore e per ogni giornata di occupazione (art. 18, comma 5-bis).
Era, inoltre, prevista una circostanza aggravante per le ipotesi di somministrazione e di appalto illecito in caso di sfruttamento di minorenni.
Successivamente, è intervenuto l’art. 38-bis, D.Lgs. n. 81/2015, che contemplava un’ulteriore ammenda di 20 euro per lavoratore e per giorno di utilizzo in ogni caso di somministrazione fraudolenta, ossia posta in essere con la specifica finalità di eludere norme inderogabili di Legge o dei contratti collettivi.
Infine, l’art. 1, comma 445, lett. d), n. 1), Legge n. 145/2018 (c.d. Legge di bilancio 2019), ha previsto un ulteriore inasprimento, nella misura del 20%, di tutte le pene pecuniarie previste dal citato art. 18, D.Lgs. n. 276/2003.
In linea generale, può dirsi che l’art. 18, D.Lgs. n. 276/2003, contemplava, dunque, fattispecie contravvenzionali punite con la sola ammenda. Di talché, per effetto del D.Lgs. n. 8/2016, che ha depenalizzato molteplici reati colpiti con la sola multa o l’ammenda (tra i quali quelli oggetto del presente intervento, poiché non espressamente esclusi dalla depenalizzazione), di fatto la sanzione penale era venuta meno, sostituita da una sanzione amministrativa.
Il citato D.L. PNRR, ha ripristinato la rilevanza penale delle fattispecie citate, inserendo la pena dell’arresto in alternativa alla ammenda ed elevando le sanzioni applicabili.
Con specifico riguardo all’ipotesi di somministrazione illecita di manodopera, essa è ora contemplata dall’art. 18, comma 5-ter, D.Lgs. n. 276/2003, che prevede un notevole inasprimento delle sanzioni.
Per quanto qui particolarmente interessa, la modifica del regime sanzionatorio non ha inciso sull’identificazione delle fattispecie, che sono rimaste identiche: dunque, tutte le volte che un imprenditore congegna un meccanismo finalizzato a mascherare una mera somministrazione di manodopera, il suo comportamento assume rilievo anche penale.
Appalto illecito: un caso di specie
Il contratto di appalto illecito genera la fatturazione di una prestazione.
La Guardia di Finanza o l’Agenzia delle Entrate in sede di verifica contestano in linea di massima queste fatture come soggettivamente inesistenti: ciò che si afferma in sostanza è che la prestazione esiste ma il soggetto che la esegue non corrisponde a quello effettivo. Da questa impostazione deriva che le fatture sono contestate solo dal punto di vista dell’IVA ma non anche delle imposte dirette.
Vediamo un caso pratico, riproducendo alcuni stralci di un PVC: «Le aziende pseudo “committenti”, al fine di erogare parte dei propri servizi, sottoscrivevano con il CONSORZIO un contratto di appalto, simulando l’esternalizzazione di alcuni servizi. Il negozio stipulato era così articolato: l’appaltante affidava al CONSORZIO l’espletamento di una serie di servizi indicati in oggetto, tuttavia il CONSORZIO, dopo la sottoscrizione del contratto e l’assunzione della veste di appaltatore ed esecutore del servizio, non erogava la prestazione impiegando la propria forza lavoro (come detto sopra inesistente), bensì mediante quella fornita dalle cooperative consorziate […] attraverso la stipulazione di contratti aventi anch’essi la forma giuridica dell’appalto. Il rapporto così come era stato articolato, comportava in concreto la somministrazione di lavoro da parte delle cooperative finali […] che il CONSORZIO opportunamente “schermava”, limitandosi a filtrare il rapporto tra le varie società appaltanti e le cooperative che avevano formalmente in forza i lavoratori.
Dall’analisi dei contratti di appalto posti in essere tra l’utilizzatore e il CONSORZIO emerge la presenza di specifiche clausole in cui si vieta espressamente il subappalto o altre in cui viene richiesta una preventiva autorizzazione dell’appaltante in tal senso. Tali clausole sono state sistematicamente violate, in quanto il CONSORZIO ha affidato a sua volta, prima a X e poi a Y, l’esecuzione formale delle attività oggetto del contratto di appalto, introducendo all’interno dei cantieri e/o ambienti di lavoro dei committenti, lavoratori dipendenti formalmente delle società cooperative.
Nello stesso tempo, dal punto di vista delle imprese committenti, vi è stato un modus operandi connotato da una mancanza di verifica della regolare attuazione del contratto di appalto e della ricognizione e del controllo del personale impiegato nel contratto stesso, nel senso che gli appaltanti non hanno approfondito né si sono sincerati della reale appartenenza al CONSORZIO dei dipendenti impiegati nelle lavorazioni appaltate. Tutto ciò avveniva in palese violazione di disposizioni contenute nei contratti di appalto in cui, tra le altre cose, sono rintracciabili le seguenti specificazioni:
– l’appaltatore si impegna ad effettuare i servizi esclusivamente mediante proprio personale assunto;
– opera un divieto di subappalto per l’esecuzione dei servizi o lo stesso è ammesso solo dietro espressa autorizzazione dei committenti […].
Il vantaggio economico ottenuto dagli pseudo committenti mediante il ricorso alle descritte operazioni fraudolente, oltre a quello di natura fiscale […], è consistito nell’applicazione di tariffe fuori mercato che “Paolo Rossi” ed i suoi più stretti collaboratori sono stati in grado di applicare e garantire attraverso il premeditato omesso versamento delle imposte (dirette ed indirette) e dei contributi previdenziali riscontrato in capo alle cooperative X ed Y, vantaggio che altrimenti non si sarebbe potuto attuare e garantire.
In altri termini, se le cooperative a monte del sistema avessero onorato tutti i loro debiti (contributivi e fiscali), non avrebbero potuto praticare le tariffe applicate, caso contrario l’operazione sarebbe stata assolutamente priva delle necessarie valide ragioni economiche, costringendo a rilevanti perdite questi soggetti.
Sotto il profilo dei vantaggi fiscali, gli pseudo committenti hanno potuto utilizzare le fatture emesse dal CONSORZIO al fine di evadere le imposte sui redditi e l’IVA, avendo accertato utilizzo delle stesse fatture per operazioni inesistenti (soggettivamente inesistenti) in sede dichiarativa. vantaggio fiscale oltre a quello della detrazione dell’IVA relativa alle fatture emesse dal CONSORZIO è stato anche quello di dedurre interamente il costo ai fini delle imposte sui redditi e dell’IRAP».
I profili penal-tributari
Se si verte in ipotesi di fatture soggettivamente inesistenti, occorre stabilire se la fattispecie si inquadri nell’art. 2, ovvero nell’art. 3, D.Lgs. n. 74/2000.
La questione non è puramente teorica, bensì foriera di rilevanti effetti.
L’art. 1, D.Lgs. n. 74/2000, stabilisce alla lett. g-bis), che, per “operazioni simulate oggettivamente o soggettivamente” si intendono le operazioni apparenti, diverse da quelle disciplinate dall’art. 10-bis, Legge n. 212/2000, poste in essere con la volontà di non realizzarle in tutto o in parte ovvero le operazioni riferite a soggetti fittiziamente interposti.
A sua volta, l’art. 3, comma 1, D.Lgs. n. 74/2000, fa espresso riferimento al compimento di operazioni simulate (non solo oggettivamente, bensì anche) soggettivamente, lasciando intendere che, quantomeno dopo l’intervento del Legislatore del D.Lgs. n. 158/2015, la fattispecie della simulazione soggettiva sia contemplata proprio dall’art. 3, e non più dall’art. 2, come ritenuto dalla costante pregressa giurisprudenza.
La Relazione dell’Ufficio del Massimario della Suprema Corte, predisposta all’indomani della entrata in vigore del D.Lgs. n. 158/2015, ha tuttavia espresso perplessità su tale interpretazione, rimarcando il dato testuale del riprodotto art. 1, che sembra favorire una lettura volta a inquadrare la fattispecie nell’art. 2. Perplessità che hanno profondamente inciso sulla interpretazione della Suprema Corte, che ha sistematicamente accolto l’impostazione più rigorosa, tendente a ritenere integrata l’ipotesi di cui all’art. 2.
Le conseguenze sono naturalmente assai rilevanti, posto che l’art. 2 non contempla soglie di punibilità, diversamente dall’art. 3, il quale ultimo peraltro contempla pene più miti.
Accantonata la questione dell’inquadramento della fattispecie, veniamo al tema specifico.
La sentenza della Suprema Corte probabilmente più interessante su questa materia è la n. 19595/2023, resa dalla III Sez. pen..
È bene riprodurne alcuni stralci: «[…] secondo l’indirizzo interpretativo che si è formato su vicende analoghe, l’utilizzo di fatture per operazioni inesistenti che dissimulano un’attività illecita di somministrazione di manodopera, mascherata dalla conclusione di fittizi contratti di appalto di servizi, D.Lgs. n. 276 del 2003, ex art. 29 integra una operazione soggettivamente inesistente stante il carattere dissimulato del contratto, integrando quella divergenza tra realtà fenomenica e realtà meramente giuridica dell’operazione che, secondo la giurisprudenza consolidata, integra l’inesistenza di cui al D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, art. 1, comma 1, lett. a) (Sez. 3, n. 11633 del 02/02/2022, Casanova, Rv. 282985 – 01; Sez. 3, n. 20901 del 26/06/2020, Rv. 279509; Sez. 3, n. 6935 del 23/11/2017, Sez. 3, n. 27392 del 27/04/2012, Sez. 3, n. 1998 del 15/11/2019, Moiseev, Rv. 278378 – 01) che, quanto al versante dell’IVA, fittiziamente interposto apre la strada al recupero indebito dell’imposta stessa (Sez. 3, n. 20901 del 26/06/2020, Rv. 279509 – 02; Sez. 3, n. 29977 del 12/02/2019, Rv. 276289; Sez. 3, n. 4236 del 18/10/2018, Di Napoli, Rv. 275692 – 01; Sez. 3, n. 6935 del 23/11/2017, non mass.; Sez. 3, n. 24540 del 20/03/2013, Rv. 256424 – 01), mentre con riguardo all’imposta sui redditi, l’utilizzo. della fattura che dissimula una diversa prestazione apre la strada alla detrazione di costi anch’essi fittizi perché non correlati alla prestazione reale essendo funzionale ad abbattere indebitamente il reddito di esercizio mediante imputazione del costo dei servizi, rappresentato dal costo del lavoro che altrimenti le società non avrebbero potuto detrarre. In tema di utilizzazione di fatture per operazioni soggettivamente inesistenti, i costi relativi alle stesse non sono mai deducibili, con la conseguenza che la loro indicazione in dichiarazione configura una finalità di evasione (Sez. 3, n. 29977 del 12/02/2019, Romano, Rv. 276289 01). In conclusione, del D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, l’art. 2 non distingue tra inesistenza oggettiva o soggettiva: oggetto della sanzione di cui all’art. 2 è ogni divergenza tra la realtà commerciale e la sua espressione documentale, integrando il delitto di cui al D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, art. 2 l’utilizzazione, nella dichiarazione ai fini delle imposte dirette, di fatture formalmente riferite a un contratto di appalto di servizi, che costituisca di fatto lo schermo per occultare una somministrazione irregolare di manodopera, realizzata in violazione dei divieti di cui al previgente D.Lgs. 10 settembre 2003, n. 276, sostituito dal D.Lgs. 15 giugno 2015, n. 81, trattandosi di fatture relative a un negozio giuridico apparente, diverso da quello realmente intercorso tra le parti. attinente ad un’operazione implicante significative conseguenze di rilievo fiscale (Sez. 3, n. 45114 del 28/10/2022. Rv. 283771 – 01). con riguardo ad entrambe le imposte per le ragioni sopra evidenziate in quanto l’esposizione nella dichiarazione di dati fittizi anche solo soggettivamente implica la creazione delle premesse per un rimborso al quale non si ha diritto. Nella richiamata sentenza n. 8809 del 04.03.2021 la Suprema Corte ha anche stabilito che “è configurabile il concorso fra la contravvenzione di intermediazione illegale di mano d’opera (art. 18 D.Lgs. n. 276 del 2003) ed il delitto di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture per operazioni inesistenti (art. 2 D.Lgs. n. 74 del 2000), nel caso di utilizzo di fatture rilasciate da una società che ha effettuato interposizione illegale di manodopera” (nello stesso senso anche le sentenze nn. 20901/2020 e 24540/2013)».
Si impongono alcune riflessioni.
Per quanto premesso sopra, l’Agenzia delle Entrate non condivide questa impostazione, ritenendo piuttosto che la violazione è integrata ai fini dell’IVA – oltreché dell’IRAP, ma è questione che non rileva ai fini penali – ma non anche ai fini delle imposte dirette, vertendosi appunto in materia di operazioni “solo” soggettivamente inesistenti.
Questa conclusione è supportata dall’analisi tecnica del D.L. n. 16/2012, convertito nella Legge n. 44/2012, ma non è condivisa dalla giurisprudenza penale.
In particolare, la Relazione illustrativa al citato Decreto testualmente così si esprime: «l’indeducibilità non trova applicazione per i costi e le spese esposti in fatture o altri documenti aventi analogo rilievo probatorio che riferiscono l’operazione a soggetti diversi da quelli effettivi, ferme restando le regole generali in materia di detrazione della relativa imposta sul valore aggiunto di cui al Decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 633 e in tema di deduzione previste dal testo unico delle imposte sui redditi, approvato con Decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917. Pertanto, ove del caso, l’indeducibilità dei costi rappresentati in documenti emessi da soggetti che in tutto o in parte non hanno effettivamente posto in essere l’operazione, sarà, comunque, rilevabile per effetto delle altre disposizioni normative eventualmente applicabili e connesse ai requisiti generali di effettività, inerenza, competenza, certezza, determinatezza o determinabilità dei componenti negativi».
Risulterà evidente che questa impostazione non è invece condivisa dalla giurisprudenza penale, la quale contesta la sussistenza del reato anche sul fronte delle imposte dirette.
Più precisamente, ai fini IVA, dopo essere dato per “scontato” l’inquadramento della fattispecie tra quelle di cui all’art. 2, la Corte sostanzialmente, partendo dal presupposto che l’IVA è una imposta cartolare, afferma che, se la carta mostra un cedente diverso da quello reale, l’imposta non può essere detratta.
Diversamente, ai fini delle imposte dirette, ciò che determina la indeducibilità del costo è la sussistenza di una divergenza tra la prestazione invocata e quella effettiva: infatti, se l’appalto è illecito la prestazione resa non è un appalto.
Le conseguenze di questo disallineamento sono notevoli: si riscontrano invero casi in cui i contribuenti committenti definiscono la fattispecie con l’Agenzia delle Entrate (retrocedendo l’IVA e i relativi accessori) ma il Tribunale ordina anche la confisca del profitto conseguito ai fini delle imposte dirette, essendo il reato integrato anche sotto questo profilo.
Detto in altri termini, assai approssimativi ma efficaci sul piano pratico, l’imponibile contestato dall’Agenzia delle Entrate non equivale a quello contestato dalla Procura della Repubblica: ai fini penali, infatti, sarebbe irrilevante la previsione di cui al citato art. 8, D.L. n. 16/2012, il cui ambito applicativo sarebbe limitato alla determinazione dell’imponibile e alla sua conseguente tassazione.
Questa situazione determina una forte instabilità emotiva nel cliente e disorientamento nei suoi consulenti, oltreché non favorire soluzioni deflattive del contenzioso, e dovrebbe formare oggetto di attenta valutazione, probabilmente anche in sede legislativa.
Uno sguardo alla responsabilità 231
L’art. 25-quinquiesdecies, D.Lgs. n. 231/2001, a decorrere dal 24 dicembre 2019 – data di entrata in vigore della Legge di conversione del D.L. n. 124/2019 – ha introdotto nel catalogo dei reati presupposti della responsabilità “amministrativa” degli enti anche alcuni reati tributari.
In particolare, il suo comma 1, contempla la commissione dei reati di cui agli artt. 2 e 3, D.Lgs. n. 74/2000, prevedendo in entrambi i casi una pena fino a 500 quote.
Il comma 2 prevede inoltre che, laddove sia stato conseguito un profitto di rilevante entità, la sanzione è aumentata di 1/3.
Il comma 3 prevede, infine, che per tutti i reati presupposto indicati dallo stesso articolo trovano applicazione le sanzioni interdittive previste dall’art. 9, comma 2, lett. c), d) ed e), ovvero:
«c) il divieto di contrattare con la Pubblica amministrazione, salvo che per ottenere le prestazioni di un pubblico servizio;
d) l’esclusione da agevolazioni, finanziamenti, contributi o sussidi e l’eventuale revoca di quelli già concessi;
e) il divieto di pubblicizzare beni o servizi».
Conclusioni
La disciplina si presenta molto complessa e densa di previsioni normative che tra loro si sovrappongono, creando un quadro praticamente inestricabile. Si rifletta solo sul fatto che una contestazione di interposizione fittizia di manodopera trascina anche accertamenti ispettivi e conseguente pretese dell’Ispettorato del Lavoro, dell’INPS e dell’INAIL.
Sul punto, è molto interessante riprodurre alcuni stralci del provvedimento di archiviazione assunto dalla Procura della Repubblica di Milano sul caso di una nota società di logistica: «Ciò ci riporta all’ultimo aspetto dà evidenziare, con riferimento alla vicenda in esame: la condotta tenuta da […] S.p.A. nelle more di entrambi i procedimenti e, in particolare, l’impegno mostrato in attività riparative delle conseguenze dannose e pericolose derivanti dal reato […] il momento sanzionatorio, quale extrema ratio, si giustifica e si legittima come conseguenza della mancata riorganizzazione. Ora, è indiscutibile che la società indagata, che già prima dei fatti aveva implementato un modello organizzativo ai sensi del Decreto 231 che tenesse conto anche della macroarea di rischio relativa al rapporto con i fornitori di beni/servizi, abbia proseguito virtuosamente – nello sforzo di dotarsi di un’organizzazione adeguata rispetto alla finalità preventiva perseguita dal Decreto in parola. Tra le varie attività portate avanti, a far data dal giugno 2021, meritano particolare attenzione i protocolli relativi al monitoraggio sugli adempimenti IVA da parte dei fornitori (come descritti nella memoria, cui si rinvia per maggiori dettagli) e il progetto di insourcing dei lavoratori che tramite i fornitori svolgono servizi di gestione dei magazzini e altre attività connesse (tale progetto, che ha già portato all’assunzione di 695 lavoratori, prevede l’assunzione diretta di ulteriori 761 lavoratori entro il 15 settembre 2022). In particolare, con riferimento al progetto relativo all’assunzione dei lavoratori operanti presso i fornitori, […] è riuscita ad implementare un modello virtuoso di gestione diretta del magazzino – in un lasso di tempo relativamente breve, considerata la complessità e l’onerosità dei lavori – che oltre a garantire una gestione rafforzata del rischio-compliance, costituisce un forte segnale, anche verso l’esterno, della volontà di proseguire nell’attività nella piena legalità. Ciò determina, evidentemente, una netta cesura con il precedente assetto organizzativo.
Ora, se è vero che tanto le sanzioni tributarie, quanto quelle previste dal Decreto 231, perseguono una finalità dissuasiva e preventiva che va al di là della mera funzione ripristinatoria e retributiva, non si può negare che un più che soddisfacente risultato in questi termini sia stato già raggiunto, sicché, anche alla luce delle considerazioni sopra esposte, la prosecuzione del procedimento ex D.Lgs. 231/2001 costituirebbe un’indebita duplicazione, che sfocerebbe nella sottoposizione, ormai non più giustificata, della società agli ulteriori effetti stigmatizzanti e afflittivi che il coinvolgimento in un procedimento penale comporta.
In data 12 settembre 2022 […] ha depositato nota in cui quantifica in € 9.816.469 i costi sostenuti per gli interventi finalizzati all’insourcing e al controllo ai fini IVA dei fornitori esterni In sintesi:
a) la sanzione amministrativa di circa 10 milioni di euro
b) le condotte riparatorie poste in essere (aldilà del doveroso pagamento del debito tributario) consistite in stabilizzazione di circa 1200 dipendenti; modelli organizzativi idonei a scongiurare che si ripetano fenomeni come quelli qui censurati; interventi organizzativi attuati su larga scala che hanno comportato un esborso di (ulteriori) circa 10 milioni di euro
rendono l’ulteriore irrogazione della sanzione ex 231/2001 un fatto che sembra porsi in contrasto con la consolidata giurisprudenza in materia di ne bis in idem, come sopra ricostruita […]».
È mia opinione che questo provvedimento sia tuttora attuale e possa contribuire a dare attuazione alla (pur meritoria ma) difficile previsione contemplata dall’art. 21-ter, D.Lgs. n. 74/2000, rubricato “Applicazione ed esecuzione delle sanzioni panelli e amministrative”, quale novellato per effetto della Legge delega n. 111/2023, che così recita:
«1. Quando, per lo stesso fatto è stata applicata, a carico del soggetto, una sanzione penale ovvero una sanzione amministrativa o una sanzione amministrativa dipendente da reato, il giudice o l’autorità amministrativa, al momento della determinazione delle sanzioni di propria competenza e al fine di ridurne la relativa misura, tiene conto di quelle già irrogate con provvedimento o con sentenza assunti in via definitiva».
Si segnala che l’articolo è tratto da “Accertamento e contenzioso”.


