11 Dicembre 2025

S.r.l. con soci al 50% e meccanismi di superamento dello stallo decisionale

di Valerio Sangiovanni
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In questo articolo ci occupiamo delle società in cui vi sono 2 soci al 50% del capitale in stabile conflitto tra di essi. La soluzione più lineare alla conflittualità è la vendita della partecipazione da un socio all’altro oppure a un terzo. Altrimenti, l’assemblea non funziona, e si può arrivare allo scioglimento della società.

 

La partecipazione paritaria al capitale e lo stallo decisionale

In questo articolo esaminiamo una situazione che, quando si verifica, determina il blocco del funzionamento della società. Ci stiamo riferendo al caso della S.r.l. in cui si contrappongono 2 soci (o 2 gruppi di soci) al 50% del capitale sociale, in conflitto perenne.

L’art. 2484, c.c., elenca le cause di scioglimento delle società di capitali. Tra i vari casi previsti dalla legge rientra l’impossibilità di funzionamento dell’assemblea o la continuata inattività dell’assemblea (n. 3)[1]. Continuata inattività dell’assemblea significa che l’assemblea non viene nemmeno convocata oppure che, se viene convocata, i soci non vi partecipano. Impossibilità di funzionamento dell’assemblea significa che l’assemblea viene convocata e si riunisce, ma non riesce a raggiungere le maggioranze previste dalla legge oppure dallo statuto. Uno degli adempimenti della società è l’approvazione del bilancio, che ha carattere ricorrente (una volta all’anno). Se l’assemblea di approvazione del bilancio non si tiene oppure non delibera, si verifica una causa di scioglimento della società.

L’assemblea è la riunione dei soci, e il suo mal funzionamento esprime la conflittualità tra soci. Le società italiane sono spesso di natura familiare, con compagini sociali ristrette (pochi soci), legate da rapporti di parentela. La situazione si complica quando il capitale è ripartito in misura paritaria tra soci. Tipico è il caso della società con 2 soci al 50%. Esistono tuttavia altre sfumature: ad esempio la presenza di 3 soci, che porta comunque a uno stallo, quando un socio detiene il 50% e gli altri 2 soci anch’essi insieme il 50%. Altre volte il capitale è in mano a numerosi soci, ma riconducibili a 2 gruppi familiari in lite. Tutte queste situazioni portano all’impossibilità di raggiungere le maggioranze, al non funzionamento dell’assemblea e dunque allo scioglimento della società.

Ma quali meccanismi esistono per (evitare o) superare lo stallo decisionale? L’esperienza mostra che, se il conflitto è insanabile, l’unica soluzione è che uno dei 2 soci esca dalla compagine sociale. A questo fine vengono in considerazione diverse modalità.

 

La vendita della partecipazione all’altro socio oppure a un terzo

Il meccanismo più lineare per eliminare il conflitto tra soci è la vendita della partecipazione. Se il socio Tizio vende al socio Caio oppure a un terzo la sua partecipazione, esce dalla compagine sociale e il conflitto tra soci viene meno. La vendita può avvenire all’altro socio oppure a un terzo. Ognuna di queste 2 situazioni presenta problemi diversi.

Nel caso di vendita all’altro socio, è molto difficile trovare un accordo sul prezzo: il socio venditore vuole una cifra alta, mentre l’altro socio offre una cifra piccola. Questo problema è risolvibile mediante una clausola c.d. di roulette russa, di cui ci occuperemo più avanti. La vendita da un socio a un altro è inoltre possibile se il socio acquirente dispone delle disponibilità finanziarie per acquistare il restante 50% del capitale. Se del caso, il socio interessato all’acquisto farà ricorso a un finanziamento bancario.

Teoricamente possibile è anche l’acquisto di una parte sola dell’altrui partecipazione. Se Tizio col 50% acquista ad esempio il 10% della quota del secondo socio, dopo l’operazione il primo socio passa al 60% e il secondo al 40%. Questa possibilità è solo astratta in quanto il primo socio, cedendo una piccola percentuale del capitale perde qualsiasi potere decisionale in sede assembleare. Il socio che scende al 40% non ha la capacità di influire sull’assemblea. Una possibilità è quella di accompagnare la cessione del 10% a un patto parasociale, che riconosca al socio ora divenuto di minoranza col 40% alcuni poteri in ambito societario. Va peraltro detto che il patto parasociale ha effetto solo tra le parti. Inoltre, il socio di maggioranza potrebbe adottare delle politiche volte a comprimere i diritti di quello di minoranza. Si pensi alla possibilità che gli utili della società non vengano distribuiti, togliendo così al socio di minoranza non solo il diritto di nominare gli amministratori, ma anche quello di partecipare ai risultati positivi dell’attività imprenditoriale. Nella prassi è rarissimo che, in caso di soci in conflitto, uno di essi sia disponibile a cedere all’altro solo una parte della propria partecipazione. Una variante potrebbe verificarsi quando i soci sono 3, ad esempio: uno al 50%, uno al 40% e uno al 10%. Il socio al 10% potrebbe cedere a quello col 50% la sua partecipazione. Se vi è però stallo, è probabile che il socio col 40% e quello col 10% andassero d’accordo, ed è dunque improbabile che un socio di minoranza ceda la sua partecipazione. Spesso i 2 soci che formano insieme il 50% del capitale sono marito e moglie oppure fratelli, e dunque prevale la relazione personale rispetto all’interesse economico in sé considerato.

Un altro meccanismo per cercare di superare lo stallo decisionale all’interno della società è quello della vendita della partecipazione da parte di uno dei 2 soci a un terzo.

Nel caso di vendita a un terzo, il problema legale più frequente è la presenza di una clausola di prelazione. La figura della “prelazione” non è menzionata nell’ambito della disciplina legislativa delle società, seppure si tratti di un istituto di frequente ricorrenza pratica[2]. Nella S.r.l. la disposizione che, indirettamente, disciplina la prelazione è l’art. 2469, comma 1, c.c., il quale afferma che «le partecipazioni sono liberamente trasferibili per atto tra vivi e per successione a causa di morte, salvo contraria disposizione dell’atto costitutivo». L’atto costitutivo può dunque limitare la libera circolazione e uno dei meccanismi con i quali può essere limitata la circolazione è la clausola di prelazione.

La clausola di prelazione può essere definita come una pattuizione statutaria, la quale impone al socio che intende vendere la propria quota di offrirla prima – allo stesso prezzo offerto dal terzo – agli altri soci. Lo scopo della clausola è quello di lasciare intatta la compagine sociale, evitando che entrino in società persone non conosciute dagli altri soci o non gradite.

Bisogna controllare se lo statuto contiene una clausola di prelazione. In caso affermativo, una volta che è stato trovato un acquirente della quota, è necessario avvertire l’altro socio della possibilità di rilevare la partecipazione. Il socio prelazionario, a sua volta, ha 2 possibilità: esercita la prelazione e diventa titolare del 100% del capitale oppure non esercita la prelazione e il primo socio vende al terzo acquirente.

Come si è già intuito, anche la vendita al terzo è una possibilità di scarso rilievo pratico. Difatti il terzo entrerebbe in una società nella quale avrebbe il 50%, potendosi riproporre situazioni di stallo.

 

La covendita delle partecipazioni a un terzo

Un’ulteriore possibilità di superare lo stallo decisionale è quella che ambedue i soci vendano le loro partecipazioni a un terzo. Se però i soci litigano, è improbabile che riescano ad accordarsi in merito alla vendita di ambedue a terzi. Nella prassi capita, poi, che uno solo dei soci sia disposto a vendere, mentre l’altro non lo è.

Questo problema del possibile stallo andrebbe previsto e anticipato con apposite clausole statutarie. Si potrebbe inserire, fin dall’inizio, nello statuto una clausola che obbliga ambedue i soci a vendere al medesimo terzo, in caso di future situazioni di blocco decisionale. Si tratta delle clausole c.d. di covendita. Non esiste una definizione normativa di clausola di covendita né esiste una disciplina specifica di dette clausole. Provando a dare una definizione, si può affermare che, con la clausola che prevede l’obbligo di covendita (detta anche “clausola di trascinamento”, in inglese “drag-along”), 2 (o più) soci concordano che, nel caso in cui uno di essi intenderà vendere la propria partecipazione, il primo socio potrà obbligare il secondo socio a vendere contestualmente al medesimo terzo acquirente anche la sua partecipazione a condizioni predefinite. Le clausole di covendita riguardano la futura cessione delle partecipazioni sociali. Più precisamente, esse mirano a coordinare la futura vendita di più partecipazioni. Essendo ciascun socio titolare della propria partecipazione, ed essendo le partecipazioni in linea di principio liberamente cedibili, ciascuno di essi può procedere a vendere la propria a terzi, senza renderne conto agli altri soci. Per diverse ragioni, però, l’obiettivo dei soci nel momento in cui entrano nella compagine sociale può essere quello di legare la futura vendita dell’uno alla futura vendita dell’altro. A questo fine sono state sviluppate dalla prassi clausole di vario genere che limitano, nell’interesse reciproco o quantomeno di una delle parti, la libera circolazione delle partecipazioni, obbligando i soci a covendere. Se tutti e 2 i soci vendono a un terzo, il conflitto tra soci viene meno.

 

Il recesso di un socio

Se la vendita all’altro socio non riesce e se nemmeno la vendita a un terzo riesce, cosa può fare il socio – stanco di stare in società con forte conflittualità – per abbandonare la compagine sociale? L’alternativa che viene in considerazione è quella del recesso. Il problema è che il recesso non è sempre consentito ad libitum.

Focalizzandoci sulla S.r.l., è l’art. 2473, c.c., a disciplinare il diritto di recesso del socio dalla S.r.l.[3]. Il recesso è il meccanismo mediante il quale il socio, volontariamente, decide di uscire dalla compagine sociale. Al socio che recede deve essere pagato un corrispettivo equivalente al valore della sua partecipazione.

Ma quali sono le ragioni per cui un socio può recedere dalla società? La regola fondamentale è quella dell’autonomia statutaria, prevedendo la legge che «l’atto costitutivo determina quando il socio può recedere dalla società e le relative modalità» (art. 2473, comma 1, c.c.). Il punto è che diversi statuti di S.r.l. non si soffermano sull’aspetto del recesso. Si tratta, tipicamente, di piccole società, con statuti standardizzati, preparati dal commercialista di fiducia oppure dal notaio rogante oppure da un avvocato, ma che – in assenza di specifiche richieste dei soci – non entrano in particolari dettagli.

Se manca una clausola statutaria, può il socio recedere liberamente dalla società? La risposta è negativa o, meglio: il socio può recedere solo in presenza di particolari circostanze. Il testo legislativo stabilisce difatti che: «in ogni caso il diritto di recesso compete ai soci che non hanno consentito al cambiamento dell’oggetto o del tipo di società, alla sua fusione o scissione, alla revoca dello stato di liquidazione, alla eliminazione di una o più cause di recesso previste dall’atto costitutivo e al compimento di operazioni che comportano una sostanziale modificazione dell’oggetto della società determinato nell’atto costitutivo o una rilevante modificazione dei diritti attribuiti ai soci a norma dell’articolo 2468, quarto comma» (art. 2473, comma 1, c.c.).

Come si può notare, un diritto di recesso del socio spetta solo a fronte di eventi dirompenti, che toccano profondamente la vita della società. Al di fuori di questi casi, non sussiste un diritto di recedere (salvo per quanto diremo subito con riferimento alla S.r.l. a tempo indeterminato).

Al di là dei casi elencati sopra, di carattere straordinario, e previsti espressamente dalla legge, vi è una situazione in cui è facile recedere dalla società: si tratta della fattispecie in cui la S.r.l. è costituita a tempo indeterminato[4]. La legge prevede difatti che: «nel caso di società contratta a tempo indeterminato il diritto di recesso compete al socio in ogni momento e può essere esercitato con un preavviso di almeno centottanta giorni; l’atto costitutivo può prevedere un periodo di preavviso di durata maggiore purché non superiore ad un anno» (art. 2473, comma 2, c.c.).

Ci si riferisce a questa situazione con l’espressione di recesso “ad nutum” (a piacere), ossia di recesso che non richiede alcuna causa scatenante né l’indicazione di alcun motivo: si tratta di una libera scelta del socio, che non intende più rimanere in società.

In via riassuntiva: solo quando la società è a tempo indeterminato, il socio in conflitto con l’altro socio può risolvere il contrasto esercitando il diritto di recesso. Negli altri casi il socio è bloccato dentro la società.

 

La mancata approvazione del bilancio e lo scioglimento della società

Il caso tipico di impossibilità di funzionamento dell’assemblea si ha quando non viene approvato il bilancio. L’approvazione del bilancio rientra tra le competenze dell’assemblea ed è un atto che va posto in essere regolarmente, una volta all’anno. Ai sensi dell’art. 2478-bis, comma 1, c.c., il bilancio «è presentato ai soci entro il termine stabilito dall’atto costitutivo e comunque non superiore a centoventi giorni dalla chiusura dell’esercizio sociale».

La questione della mancata approvazione del bilancio è stata affrontata, di recente, dal Tribunale di Venezia[5]. La società è una S.r.l. con diversi soci, riconducibili però a 2 gruppi familiari, ciascuno dei quali detiene il 50% del capitale della società. Tra i gruppi familiari ci sono dei dissidi che raggiungono il livello della insanabilità, al punto che non viene approvato l’ultimo bilancio. Il CdA è composto di 4 membri, che vengono nominati nella misura di 2 da ciascuna famiglia. Lo statuto contiene la clausola simul stabunt simul cadent, per effetto della quale, se anche un solo componente del CdA si dimette, decadono tutti gli altri componenti. Si verifica che un consigliere si dimette e l’intero CdA decade. Non riuscendosi a raggiungere le necessarie maggioranze non vengono nominati nuovi amministratori. Manca dunque anche il soggetto che debba/possa convocare l’assemblea. A questo punto alcuni dei soci si rivolgono al Tribunale di Venezia affinché accerti la sussistenza di una causa di scioglimento. Il giudice veneziano, in funzione di volontaria giurisdizione, accoglie il ricorso. Oltre a essere priva di un organo amministrativo, la società non è in grado nemmeno di deliberare sullo stato di scioglimento, sia perché nessuno convoca l’assemblea, sia perché – quand’anche convocata – l’assemblea non raggiungerebbe le maggioranze richieste. Il Tribunale di Venezia conclude accertando la sussistenza di una causa di scioglimento della S.r.l. ai sensi dell’art. 2484, n. 3), c.c.. Si osservi tuttavia che il giudice veneziano non procede alla nomina del liquidatore. Si tratta difatti di 2 distinti profili: un conto è l’accertamento del verificarsi di una causa di scioglimento, un altro conto è la nomina dei liquidatori: quest’ultima spetta all’assemblea.

 

La clausola di roulette russa

Può capitare che i vari meccanismi elencati sopra non funzionino. Un’altra possibilità per tentare di uscire dallo stallo può allora essere quella della c.d. roulette russa. Questo sistema presuppone che almeno uno dei 2 soci sia disponibile a vendere all’altro. In questi casi, generalmente, il problema è il prezzo: chi vende chiede un prezzo eccessivamente alto, mentre chi compra offre un prezzo troppo basso, cosicché non si riesce a raggiunge un accordo.

Nella roulette russa, si separa chi determina il prezzo da chi decide se comprare o vendere. E dunque: uno dei soci indica il prezzo della partecipazione. L’altro socio può dire se, a quel prezzo, intende acquistare o vendere. Se il secondo socio acquista, lo stallo è finito. Se il secondo socio non acquista, il primo socio è obbligato ad acquistare al prezzo che egli medesimo ha indicato. Anche in questo caso, lo stallo è terminato.

Idealmente una clausola del genere è contenuta nello statuto della società, e vincola dunque i soci fin dall’origine. Se lo statuto non contiene la clausola di roulette russa, lo stallo può essere superato facendo firmare alle parti un contratto che contiene il meccanismo della roulette russa. Una volta firmato il contratto, si avvia la procedura, con uno dei soci che determina il prezzo della partecipazione.

Un’alternativa rispetto alla roulette russa è un accordo dei soci, con il quale rimettono a un terzo (e non a un socio) la valutazione della partecipazione, obbligandosi a rispettare la valutazione economica effettuata dal terzo. Bisogna che la scrittura privata, se non sono contenute corrispondenti clausole già nello statuto, indichi anche chi tra i 2 soci sia quello obbligato a vendere e chi quello obbligato a comprare.

L’accordo tra soci altro non è che un patto parasociale. Idealmente il patto è anteriore al sorgere dello stallo societario. Altrimenti si può fare un accordo ad hoc, una volta che si è verificata l’impossibilità di funzionamento dell’assemblea.

La questione della legittimità della clausola di roulette russa è giunta all’attenzione della giurisprudenza, fino alla Corte di Cassazione[6]. Il caso giunto alla Suprema Corte riguardava una clausola di roulette russa contenuta in un patto parasociale. La Cassazione ritiene valida la clausola. Il dubbio che si era posto è quello relativo all’equa valorizzazione della partecipazione. Se ci si avvale del meccanismo della roulette russa, il prezzo della partecipazione non è necessariamente quello di mercato, essendo determinato da uno dei soci a sua discrezionalità. Il prezzo potrebbe dunque essere “ingiusto”, nel senso di divergere – anche significativamente – dal prezzo di mercato. Secondo la Suprema Corte, questa circostanza non rende invalida la clausola. Viene enunciato dalla Corte di Cassazione il principio di diritto secondo cui alla clausola c.d. russian roulette, contenuta in un patto parasociale, non è applicabile analogicamente il principio di equa valorizzazione delle azioni, previsto in caso di recesso del socio dall’art. 2437-ter, c.c., in quanto detta clausola non costituisce in stato di soggezione il socio oblato rispetto a quello che la attiva, ma lascia la facoltà di acquistare, allo stesso prezzo, la partecipazione del socio proponente.

Il ragionamento della Corte di Cassazione appare condivisibile. Il socio che fissa il prezzo della partecipazione si accolla, liberamente, il rischio di cedere oppure di acquistare la partecipazione a quel prezzo. Detto socio non è dunque esposto a un rischio eterodeterminato, ma a un rischio cui si assoggetta volontariamente.

Prima dell’intervento della Corte di Cassazione, il Consiglio notarile di Milano si era già espresso in favore della legittimità della clausola di roulette russa[7]. Secondo questo organo rappresentativo dei notai, è: «legittima la clausola statutaria, tipicamente prevista in caso di suddivisione del capitale sociale tra 2 soli soci in misura paritetica o in presenza di 2 soci di controllo paritetico, che attribuisca ai soci – al ricorrere di determinate situazioni di stallo decisionale nell’organo amministrativo e/o in assemblea – la facoltà di attivare una procedura in forza della quale ciascun socio (o uno di essi, a seconda delle circostanze) ha diritto di determinare il prezzo per il trasferimento delle reciproche partecipazioni paritetiche, attribuendo così all’altro socio la scelta tra (i) vendere la propria partecipazione al socio che ha determinato il prezzo, oppure (ii) acquistare la partecipazione di quest’ultimo al medesimo prezzo».

 

Lo scioglimento della società nella giurisprudenza

Abbiamo cercato di delineare alcuni meccanismi che possono consentire di superare lo stallo decisionale all’interno della S.r.l.. Se tuttavia nessuno di questi sistemi riesce a operare, non esistono alternative che mettere in liquidazione la società. Questo esito finale è negativo, soprattutto nei casi in cui la società produce utili. Difatti, all’esito della procedura di liquidazione, l’attività imprenditoriale viene meno.

La giurisprudenza si è occupata diverse volte dello scioglimento della società in conseguenza dell’impossibilità di funzionamento dell’assemblea. Tra i precedenti più recenti può essere menzionata una sentenza del Tribunale di Milano[8]. Una S.r.l. presenta 3 soci, con la seguente ripartizione del capitale: 50%, 25% e 25%. La società è proprietaria di un immobile, di cui godono a titolo gratuito – a mezzo usufrutto – i 2 soci di minoranza. Il socio al 50% è anche amministratore della S.r.l. e convoca un’assemblea, al fine di deliberare che i 2 soci di minoranza debbano iniziare a pagare un corrispettivo per l’uso del bene immobile. Non si raggiunge un accordo sul punto, dal momento che i soci di minoranza non hanno interesse a iniziare a pagare un corrispettivo per un bene di cui usufruiscono a titolo gratuito. Fanno seguito altre assemblee, nelle quali però non si riesce a raggiungere alcuna maggioranza. Il socio al 50% si rivolge dunque al Tribunale di Milano, affinché questi constati che l’assemblea non è in grado di funzionare e si è verificata una causa di scioglimento della società. Il punto è che lo statuto della S.r.l. contiene una clausola compromissoria, cosicché il giudice milanese deve comprendere se sussista o meno la sua competenza a dichiarare l’esistenza di una causa di scioglimento della società. Il Tribunale di Milano accoglie l’eccezione di arbitrato. La clausola compromissoria prevede che le controversie tra soci e tra soci e società siano devolute a un collegio arbitrale. L’istanza di un socio volta a ottenere la declaratoria di accertamento dell’esistenza di una causa di scioglimento della società è una lite tra socio e società e, come tale, assoggettata ad arbitrato. Di conseguenza, il giudice milanese dichiara la propria incompetenza a decidere la domanda di accertamento della causa di scioglimento della società, a favore del collegio arbitrale. L’insegnamento tratto dall’esame di questa sentenza del Tribunale di Milano è la necessità di verificare se lo statuto contenga una clausola compromissoria. Nel caso in cui la S.r.l. non sia stata ancora costituita, i soci devono riflettere su vantaggi e svantaggi di una clausola compromissoria. Come emerge dalla decisione del giudice milanese, la clausola compromissoria tende a coprire tutte le controversie, comprese quelle concernenti lo scioglimento della società.

Può invece capitare che, dopo alcuni tentennamenti, l’assemblea riprenda a funzionare. Se il bilancio viene comunque nelle more approvato, la domanda di messa in liquidazione della società va rigettata. Il Tribunale di Palermo si è occupato di una S.r.l. composta di 2 soci, ciascuno con il 50% del capitale[9]. Il primo socio non amministratore si rivolge al giudice palermitano per ottenere la declaratoria di scioglimento della società. La tesi dell’attore è che la S.r.l. debba essere dichiarata sciolta, in quanto l’assemblea non ha approvato il bilancio. In realtà, nelle more il bilancio viene approvato, cosicché è destituita di fondamento la tesi che l’assemblea non sia in grado di funzionare.

 

[1] In tema di scioglimento della società per patologie di funzionamento dell’organo assembleare cfr. R. Formisani, “L’orizzonte temporale dell’impossibilità di funzionamento dell’assemblea”, in Giurisprudenza italiana, n. 11/2020, pag. 2492; G. Niccolini, “L’assemblea di una società di capitali sciolta per impossibilità di funzionamento o per continuata inattività dell’assemblea non può nominare il liquidatore?”, in Foro italiano, n. 1/2023, I, pag. 319.

[2] Sulle clausole statutarie di prelazione cfr. E.E. Bonavera, “L’efficacia reale della clausola di prelazione”, in Società, n. 3/2022, pag. 331; S. Luoni – M. Cavanna, “Ancora sulla prelazione statutaria nelle S.r.l., nei trasferimenti ‘inter vivos’”, in Giurisprudenza italiana, n. 4/2023, pag. 887; F. Martino, “Rilievo della persona nella S.r.l., circolazione della partecipazione e abuso della maggioranza”, in Giurisprudenza commerciale, n. 5/2023, II, pag. 933.

[3] In tema di recesso del socio dalla S.r.l. cfr. F. Cadorin, “Opponibilità della clausola compromissoria statutaria al recedente: il Tribunale di Milano torna sugli effetti della dichiarazione di recesso nella S.r.l.”, in Rivista del diritto commerciale, n. 4/2024, II, pag. 573; M. Corgatelli, “Sul termine per l’esercizio del recesso da S.r.l. nel silenzio dell’atto costitutivo”, in Giurisprudenza commerciale, n. 4/2024, II, pag. 884; F. Mosetto, “Recesso dalla S.r.l. e obbligo di vendere la quota”, in Giurisprudenza italiana, n. 12/2022, pag. 2701.

[4] Con riferimento al recesso del socio dalla S.r.l. quando la società è costituita a tempo indeterminato v. P. Butturini, “Termine di durata ‘lungo’ e recesso ‘ad nutum’ da società di capitali. Il dibattito continua”, in Contratto e impresa, n. 4/2021, pag. 1256; I. Capelli, “Il recesso del socio di S.r.l. nel caso di durata ‘eccessiva’ della società”, in Società, n. 4/2022, pag. 459; M Favaretto, “Il diritto di recesso ‘ad nutum’ del socio di S.r.l. è legittimo solo se la società è a tempo indeterminato”, in Nuovo diritto delle società, n. 3/2023, pag. 509.

[5] Trib. Venezia 5 giugno 2024.

[6] Cass. n. 22375/2023.

[7] Consiglio notarile di Milano, massima n. 181/2019.

[8] Trib. Milano 6 maggio 2025.

[9]Trib. Palermo 16 maggio 2022”, in giurisprudenzadelleimprese.it.