3 Ottobre 2025

Profili penali dell’utilizzo di crediti di imposta non spettanti o inesistenti

di Massimiliano Tasini
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Il reato di utilizzo di crediti di imposta non spettanti o inesistenti è oggetto di grande attenzione da parte degli studiosi e degli applicatori del diritto; le ragioni sono principalmente:

a) una disciplina asimmetrica sul fronte tributario rispetto a quello penale;

b) una forte evoluzione normativa;

c) una notevole applicazione pratica, in ragione delle frequenti contestazioni sull’argomento: basterà qui ricordare il notevole contenzioso in materia di crediti di imposta ricerca e sviluppo, nonché quello, più recente, relativo alla attività di formazione 4.0.
Il presente contributo riguarda i profili penalistici, ma in più passaggi sfiora anche quelli tributari, allo scopo di garantire un sufficiente confronto ma anche coordinamento tra le 2 discipline.

 

La fonte della responsabilità penale

La responsabilità penale trova la sua fonte nella previsione di cui all’art. 10-quater, D.Lgs. n. 74/2000, che stabilisce:

«Indebita compensazione.

1. È punito con la reclusione da sei mesi a due anni chiunque non versa le somme dovute, utilizzando in compensazione, ai sensi dell’articolo 17 del Decreto legislativo 9 luglio 1997, n. 241, crediti non spettanti, per un importo annuo superiore a cinquantamila euro.

2. È punito con la reclusione da un anno e sei mesi a sei anni chiunque non versa le somme dovute, utilizzando in compensazione, ai sensi dell’articolo 17 del Decreto legislativo 9 luglio 1997, n. 241, crediti inesistenti per un importo annuo superiore ai cinquantamila euro.

2-bis. La punibilità dell’agente per il reato di cui al comma 1 è esclusa quando, anche per la natura tecnica delle valutazioni, sussistono condizioni di obiettiva incertezza in ordine agli specifici elementi o alle particolari qualità che fondano la spettanza del credito.»[1].

L’attuale versione della disposizione è il frutto delle modifiche apportate dal D.Lgs. n. 87/2024, art. 1, entrato in vigore il 29 giugno dello stesso anno.

In precedenza, precisamente dal 22 ottobre 2015 al 28 giugno 2024, la disposizione operante era quella introdotta dal D.Lgs. n. 158/2015, art. 9. Essa si distingueva per non contemplare il nuovo comma 2-bis.

Riguardo alla modifica, la Relazione illustrativa al D.Lgs. n. 87/2024, osserva che: «La norma dà ulteriore attuazione al principio di delega recepito all’articolo 1, lett. a) (art. 20, comma 1, lett. a), n. 5) e non interferisce con l’articolo 15 del Decreto legislativo n. 74 del 2000 (Violazioni dipendenti da interpretazione delle norme tributarie), né con i principi stabiliti in relazione all’articolo 5 del codice penale dalla nota sentenza 364/88 della Corte Costituzionale, non incidendo sul tema delle condizioni qualitative della fattispecie obbiettivamente controverse, ma limitandosi a stabilire una regola di giudizio che è mera espressione di specificazione del canone in dubio pro reo»[2].

La dottrina sta cercando di valorizzare l’espressione, ma il dibattito è certamente aperto[3].

 

Crediti non spettanti e inesistenti

Anteriormente all’entrata in vigore del D.Lgs. n. 74/2000, ai fini penali non esisteva una nozione di crediti inesistenti e di crediti non spettanti.

L’unica definizione di questi era contenuta nel D.Lgs. n. 471/1997, che disciplina le sanzioni amministrative applicabili in conseguenza della commissione di violazioni tributarie. Precisamente, l’art. 13, D.Lgs. n. 471/1997, in materia di omessi versamenti di imposta, al suo comma 5, secondo periodo, stabiliva quanto segue: «Si intende inesistente il credito in relazione al quale manca, in tutto o in parte, il presupposto costitutivo e la cui inesistenza non sia riscontrabile mediante controlli di cui agli artt. 36-bis e 36-ter del Decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600, e all’art. 54-bis del Decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 633».

Dunque, affinché il credito potesse dirsi inesistente dovevano sussistere non uno bensì 2 presupposti:

− la mancanza del presupposto costitutivo;

− la riscontrabilità con le attività di liquidazione o di controllo formale delle dichiarazioni fiscali.

Ne conseguiva che, quand’anche il credito fosse anche letteralmente “inventato” dal contribuente, nell’ipotesi in cui tale circostanza (leggi: “invenzione”) potesse desumersi dall’espletamento delle attività di liquidazione/controllo formale della dichiarazione, il credito non era inesistente in senso tecnico, con le note conseguenze tributarie[4].

Dunque, esisteva una definizione in ambito amministrativo, peraltro parziale.

Viceversa, non esisteva una definizione in ambito penale.

La definizione era parziale poiché l’art. 13, comma 5, D.Lgs. n. 471/1997, si limitava a definire i crediti inesistenti ma non anche quelli non spettanti. Peraltro, con riferimento ai crediti non spettanti vi è un ulteriore e delicato problema, poiché, proprio per la mancanza di una disposizione definitoria, non è affatto chiaro se l’eventuale rilevabilità da parte dell’ufficio nell’ambito delle attività di liquidazione o controllo formale sia, o meno, requisito richiesto ai fini della integrazione della fattispecie.

Quale che sia la soluzione, almeno sul piano penale rinveniamo un punto fermo nella sentenza n. 6/2024 della Corte di Cassazione la quale, nel comporre il pregresso dibattito, ha stabilito che la nozione di crediti inesistenti contenuta nell’art. 13, D.Lgs. n. 471/1997, non trova applicazione in ambito penale, mancando una norma che lo preveda espressamente[5]. Tesi peraltro confermata dalla recente sentenza n. 19868/2025[6] della Cassazione.

Veniamo ora all’assetto post Riforma. Il D.Lgs. n. 87/2024, ha, per un verso, eliminato la definizione “amministrativa” di crediti non spettanti e di crediti inesistenti, e per altro verso introdotto una definizione “penalistica” degli stessi, emendando l’art. 1, D.Lgs. n. 74/2000.

Prima di esaminare questa importante modifica, è bene fare 2 precisazioni.

La prima. La nuova definizione è solo apparentemente tale, atteso che secondo la giurisprudenza di legittimità l’intervento normativo non ha fatto altro che recepire quanto già ritenuto sul punto dalla Corte di Cassazione[7][8]. Si badi bene che questa affermazione è stata resa sia in sede tributaria che penale, e pertanto v’è da ritenere che, quanto meno sul piano generale, le nuove nozioni troveranno applicazione anche con riferimento al contenzioso riferito al periodo anteriore all’entrata in vigore del D.Lgs. n. 74/2000.

La seconda. In base all’art. 13, comma 4, D.Lgs. n. 471/1997: «4. Salvo quanto previsto dal comma 4-ter, si considerano inesistenti ovvero non spettanti i crediti rispettivamente previsti dall’articolo 1, comma 1, lettere g-quater) e g-quinquies) del Decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74»[9].

Quindi, cercando di schematizzare:

ante D.Lgs. n. 87/2024, ai fini amministrativi esisteva solo la nozione di crediti inesistenti, nozione che non si espandeva all’ambito penale;

post D.Lgs. n. 87/2024, ai fini penali esiste la nozione sia di crediti non spettanti che di crediti inesistenti e tale nozione si applica anche all’ambito sanzionatorio amministrativo. Le nuove nozioni trovano applicazione anche per il passato, anche se come osservato dalla Suprema Corte, poiché il Legislatore ha recepito in modo “sostanziale” gli orientamenti formatisi in seno alla Suprema Corte, possono certamente residuare aree di incertezza, all’interno delle quali potranno evidentemente aprirsi spazi interpretativi.

Così impostata la questione, si vedano le nuove nozioni di crediti inesistenti e di crediti non spettanti:

«g-quater) per “crediti inesistenti” si intendono:

1) i crediti per i quali mancano, in tutto o in parte, i requisiti oggettivi o soggettivi specificamente indicati nella disciplina normativa di riferimento;

2) i crediti per i quali i requisiti oggettivi e soggettivi di cui al numero 1) sono oggetto di rappresentazioni fraudolente, attuate con documenti materialmente o ideologicamente falsi, simulazioni o artifici;

g-quinquies) per “crediti non spettanti” si intendono:

1) i crediti fruiti in violazione delle modalità di utilizzo previste dalle leggi vigenti ovvero, per la relativa eccedenza, quelli fruiti in misura superiore a quella stabilita dalle norme di riferimento;

2) i crediti che, pur in presenza dei requisiti soggettivi e oggettivi specificamente indicati nella disciplina normativa di riferimento, sono fondati su fatti non rientranti nella disciplina attributiva del credito per difetto di ulteriori elementi o particolari qualità richiesti ai fini del riconoscimento del credito;

3) i crediti utilizzati in difetto dei prescritti adempimenti amministrativi espressamente previsti a pena di decadenza».

Si indaghino i requisiti soggettivi e oggettivi.

Si parta dai requisiti soggettivi. Si può fare il caso della disciplina del credito di imposta per attività di ricerca e sviluppo che, anteriormente all’art. 3, D.L. n. 145/2013, imponeva alle imprese di rivolgersi a soggetti qualificati, in cambio di un credito di rilevante ammontare, come le Università. Oppure, si può fare il caso di imprese utilizzatrici di un “bonus” fiscale che, per le loro dimensioni, sono al di fuori del perimetro soggettivo di applicazione della disciplina.

Qui la disposizione è chiara: il credito difetta appunto del requisito soggettivo e dunque è “inesistente”.

Un’altra ipotesi di inesistenza soggettiva è quella relativa alla simulazione, che infatti può essere non solo oggettiva ma anche soggettiva: è il caso dell’impresa che ha effettivamente beneficiato di una attività di formazione del tipo 4.0 ma erogata da un soggetto diverso da quello che ha emesso la fattura sull’utilizzatore[10].

Passando al tema della inesistenza oggettiva, la questione diviene ancor più complessa. Infatti, alla luce del quadro normativo sopra riprodotto, potranno verificarsi 4 ipotesi.

Una prima ipotesi è quella nella quale i requisiti oggettivi apparentemente sussistono ma sono letteralmente “inventati”, cioè sono frutto «di rappresentazioni fraudolente, attuate con documenti materialmente o ideologicamente falsi, simulazioni o artifici». E qui la questione è semplice.

In secondo luogo, si deve esaminare il caso in cui i requisiti oggettivi non sussistono.

In questa ipotesi, è però necessario indagare se detti requisiti siano «specificatamente indicati nella disciplina normativa di riferimento». Si può qui fare l’esempio, molto significativo, della necessità che l’attività di ricerca e sviluppo, agevolabile ex art. 3, D.L. n. 145/2013, necessiti o meno del rispetto dei 5 punti indicati nel Manuale di Frascati.

La questione presenta riflessi di eccezionale rilevanza sul piano operativo. L’atto di indirizzo del MEF del 1° luglio 2025 in materia di crediti di imposta non spettanti e inesistenti esclude implicitamente, ma inequivocabilmente, che il Manuale di Frascati costituisca fonte normativa, dal che deriva che il credito potrà al più, dirsi “non spettante”[11].

Si venga a una terza ipotesi, che è quella nella quale sussistono i requisiti oggettivi specificamente indicati nella disciplina normativa di riferimento, ma sono fondati su fatti non rientranti nella disciplina attributiva del credito, o perché difettano di ulteriori elementi o di particolari qualità richiesti ai fini del riconoscimento del credito. Anche in questo caso, il credito potrà al più dirsi non spettante, ma va subito precisato che l’espressione utilizzata dal Legislatore è quanto mai ambigua e foriera di interpretazioni, sulle quali si può facilmente[12] immaginare un’evoluzione interpretativa a dir poco scoppiettante.

Chiude il quadro di riferimento la quarta ipotesi: qui i requisiti oggettivi sussistono ma, «anche per la natura tecnica delle valutazioni, sussistono condizioni di obiettiva incertezza in ordine agli specifici elementi o alle particolari qualità che fondano la spettanza del credito».

Dunque, si avranno 2 sotto-casi: il primo è quello in cui gli ulteriori elementi o le particolari qualità richiesti sono pacifici, e allora la relativa mancanza porterà a configurare la non spettanza. Viceversa, detti elementi e qualità potrebbero essere incerti “anche” (e dunque, non solo) per la natura tecnica delle valutazioni, e in questo caso l’incertezza determinerà la non punibilità della condotta.

Va da sé che l’indagine andrà operata caso per caso, e sarà tutt’altro che agevole, involgendo, con ogni probabilità, la soluzione di problemi tecnici/interpretativi complessi.

 

La prescrizione

Si chiude questo intervento su una materia più da addetti ai lavori, ma che è necessario trattare per il notevole interesse che sempre suscita nel cliente, ovvero la valutazione del se e quando il reato si prescrive.

La questione è complessa per la sovrapposizione di norme contenute nel D.Lgs. n. 74/2000, e nel Codice di procedura penale, le quali ultime hanno subito rilevanti modificazioni.

Iniziando dall’art. 17, D.Lgs. n. 74/2000, si ritrovano 2 regole fondamentali: la prima secondo cui il corso della prescrizione è interrotto, oltreché dagli atti indicati all’art. 160, c.p., dalla notifica del verbale di constatazione o dal verbale di accertamento. Non vi sono, invece, regole che da tale data sospendono il decorso dei termini, quindi, nei fatti, la notifica di uno degli atti citati produce l’effetto di far ridecorrere da “zero” la prescrizione.

Sul punto, va ricordato che nell’art. 161, c.p., è inserita una sorta di clausola di “blocco”: sebbene la prescrizione riprenda dall’inizio, essa non può andare oltre al 25% del termine iniziale. Dunque, premesso che per i reati che ci occupano la prescrizione è di 6 anni, se la violazione di compensazione di credito inesistente sopra soglia si è manifestata a giugno 2018 e il reato è stato constatato con PVC notificato a marzo 2021, la prescrizione sarà di 7 anni e mezzo, e dunque dicembre 2025 (salve naturalmente le ulteriori ipotesi di sospensione legale, vedi ad esempio le sospensioni COVID-19).

La seconda regola fissata dall’art. 17, D.Lgs. n. 74/2000, stabilisce che, per i delitti di cui agli artt. da 2 a 10, D.Lgs. n. 74/2000, la prescrizione è aumentata di 1/3; questa regola, però, non torna qui applicabile, poiché si sta ragionando dell’art. 10-quater, D.Lgs. n. 74/2000, che è esterno al perimetro.

Una precisazione. Nell’esempio di cui sopra, il calcolo è avvenuto in coerenza a quanto ritenuto dalla giurisprudenza di legittimità, secondo la quale occorre far decorrere il temine di prescrizione dal momento di presentazione del modello F24 con il quale si determina il supero della soglia di punibilità[13].

Naturalmente, questo modo di ragionare presuppone che l’Autorità giudiziaria non abbia contestato il reato continuato[14]: ricorrendo infatti quest’ultima ipotesi, per effetto della Legge n. 3/2019, che ha modificato l’art. 158, c.p., ripristinando la pregressa disciplina, la prescrizione decorrerebbe allora dalla cessazione della continuazione (cioè dall’ultimo fatto).

La questione merita almeno un cenno.

Il testo originario del c.p.p. stabiliva che il termine di prescrizione del reato continuato decorresse dalla data di cessazione della continuazione; la Legge ex Cirielli, riconoscendo la natura non unitaria del reato continuato ha espunto dall’art. 158, c.p., ogni riferimento al reato continuato, di talché risultava applicabile la stessa disciplina riservata all’ipotesi del concorso materiale, vale a dire che ognuno dei reati in continuazione iniziava a prescriversi dal giorno della sua consumazione. Infine, sulla questione è nuovamente intervenuto il Legislatore con la legge c.d. Spazzacorrotti (Legge n. 3/2019) ripristinando il testo originario dell’art. 158, c.p., a decorrere dal 1° gennaio 2020: per l’effetto, nel caso di reato continuato il dies a quo si identifica con la data di cessazione della continuazione[15].

Sul giudice incombe, dunque, un compito assai delicato, consistente nello stabilire se il «medesimo disegno criminoso» cui si riferisce l’art. 81, c.p., è stato delineato dall’agente prima dell’inizio dell’esecuzione del primo dei reati in concorso tra loro; occorrerà inoltre entrare nel merito del contenuto di quel programma: basterà la generica prefigurazione di una attività delinquenziale, ovvero sarà necessario che il programma contempli anche le concrete modalità di realizzazione[16][17]?

 

Conclusioni

Così come nell’Odissea Penelope abilmente rinviava la scelta di un nuovo marito, tessendo e disfacendo il sudario di Laerte, nella materia che qui occupa il Legislatore rimanda una soluzione definitoria, anche se sfugge il reale motivo.

Le Procure della Repubblica, i Tribunali e le Corti di Giustizia Tributaria sono piene di vicende relative ai crediti di imposta non spettanti e inesistenti. Nella discussione sull’attuazione della Legge delega n. 111/2023, sono pervenuti molti contributi, volti a suggerire un assetto semplice ed efficace, in larga misura disattesi, forse anche in ragione della scarsa consapevolezza della delicatezza della questione.

Il sistema presenta contraddizioni e gravissime incertezze, evidenti anche ai non addetti ai lavori. Basterà notare che:

a) l’ 10-quater, D.Lgs. n. 74/2000, contempla una identica soglia di punibilità per 2 fattispecie, quella dei crediti inesistenti e di quelli non spettanti, contraddistinte da un disvalore del tutto diverso;

b) un’analoga soglia di punibilità non è prevista nell’ 2, D.Lgs. n. 74/2000, quando però la fattispecie non sembra presentare, almeno nella generalità delle situazioni, una insidiosità diversa e maggiore;

c) la concreta individuazione delle fattispecie poggia su elementi tecnici in molte occasioni complessi finendo per colpire situazioni che non sembrano così insidiose da meritare una reazione penale.

Eppure, qui si è, e, a parere di chi scrive, si resterà a lungo.

[1] In realtà, la disposizione è stata soppressa del Testo Unico delle Sanzioni Amministrative e Penali approvato con D.Lgs. n. 173/2024, che però entrerà in vigore solo il prossimo 1° gennaio 2026.

[2] Ancora più generica è la scheda di lettura del Parlamento, nella quale si afferma che: «L’intervento è volto ad introdurre per la fattispecie di indebita compensazione di un credito non spettante una causa di non punibilità qualora, anche per la natura tecnica delle valutazioni, sussistono condizioni di obiettiva incertezza in ordine agli specifici elementi o alle particolari qualità che fondano la spettanza del credito».

[3] R. Lucev, “Nuove prospettive di non punibilità dei reati tributari nel nuovo schema di Decreto legislativo n. 144”, in Giurisprudenza Penale Web, n. 4/2024, osserva: «Interessante, innanzitutto, la causa di non punibilità di cui al nuovo comma 2-bis dell’art. 10-quater:La punibilità dell’agente per il reato di cui al comma 1 è esclusa quando, anche per la natura tecnica delle valutazioni, sussistono condizioni di obiettiva incertezza in ordine agli specifici elementi o alle particolari qualità che fondano la spettanza del credito”. L’istituto si pone come causa speciale di non punibilità dell’indebita compensazione mediante crediti non spettanti, al ricorrere di condizioni di obiettiva incertezza sugli specifici elementi o alle particolari qualità che fondano la spettanza del credito, anche per la natura tecnica delle valutazioni. Tra i primi commenti si è rilevato trattarsi di una specificazione della causa di non punibilità di cui all’art. 15 D.Lgs. 74/2000, con la quale condividerebbe il fondare l’esimente sull’obiettiva incertezza della fattispecie nell’ambito della quale il contribuente è incorso in errore» (così E. Belli Contarini, “Nuova causa di non punibilità per i crediti R&S contestati”, in Il Sole – 24 Ore, 2 aprile 2024, pag. 28, nonché F. Di Vizio, op. cit., pag. 20, secondo il quale la nuova previsione sarebbe «distonica oltre che ultronea»). Questa interpretazione però convince solo in parte. Se da un lato è vero che l’errore sulla spettanza del credito può tipicamente riguardare l’errata interpretazione e applicazione delle norme che la disciplinano (tanto più alla luce della nuova definizione che viene proposta nello Schema per il concetto di “non spettanza”), il riferimento alla natura tecnica delle valutazioni in cui può situarsi l’errore lascia intendere che l’esimente in parola abbia portata più ampia di quella di cui all’art. 15, potendo abbracciare anche ipotesi di errore sul fatto (riconducibili quindi piuttosto all’esimente di cui all’art. 47, c.p.). Se ne deduce che questo nuovo comma 2-bis, art. 10-quater, pur se in parte sovrapponibile all’operatività dell’art. 15, non ne condivide a pieno il perimetro e non può quindi ritenersi un mero pleonasmo normativo. Sembra questo l’orientamento prescelto anche nella Relazione accompagnatoria allo Schema, pag. 3, ove si legge che l’esimente «non interferisce con l’articolo 15 del Decreto legislativo n. 74 del 2000 […], né con i principi stabiliti in relazione all’articolo 5 del codice penale dalla nota sentenza 364/88 della Corte costituzionale, non incidendo sul tema delle condizioni qualitative della fattispecie obbiettivamente controverse, ma limitandosi a stabilire una regola di giudizio che è mera espressione di specificazione del canone “in dubio pro reo”». Circa l’ambito oggettivo di applicabilità dell’esimente, essa si riferisce in modo chiaro alle sole indebite compensazioni mediante crediti non spettanti: non contempla quelle mediante crediti inesistenti. La soluzione non sembra particolarmente condivisibile nella sua logica. L’ipotesi di non spettanza del credito d’imposta era già coperta dalla causa di non punibilità di cui all’art. 13, comma 1, D.Lgs. n. 74/2000 e non avvertiva quindi il bisogno di un’ulteriore esimente, dai contorni tra l’altro del tutto nebulosi, come si legge nella proposta di testo.

[4] Per un verso, l’inapplicabilità del termine “lungo” di 8 anni per dar corso all’accertamento; per altro verso, l’impossibilità di applicare la sanzione maggiorata di cui al citato comma 5 dell’art. 13, D.Lgs. n. 471/1997, dal 100% al 200% del credito.

[5] «La sentenza richiamata, la cui motivazione questo Collegio condivide, non ha concordato con questa impostazione, dando seguito a quel diverso indirizzo interpretativo che ritiene applicabile alla sola materia degli illeciti di natura amministrativa la definizione dell’art. 13 del D.Lgs. 471/1997, imperniata sul duplice presupposto della mancanza totale o parziale del presupposto costitutivo dei crediti medesimi, e della non riscontrabilità della compensazione indebita mediante i controlli di cui agli artt. 36-bis e 36-ter del DPR 600/73 e all’art. 54-bis del DPR 633/72. 3.1. Deve, a tal proposito, essere osservato che l’art. 10-quater non richiama espressamente, a fini definitori dei “crediti inesistenti”, il citato art. 13 anche se costituisce un dato inequivocabile, sottolineato dal ricorrente, che entrambe le norme sono state modificate dal medesimo D.Lgs. 158/2015. Questo, da un lato, ha diversificato la reazione sanzionatoria penale in caso di indebita compensazione di crediti non spettanti (primo comma dell’art. 10-quater) o di crediti inesistenti (secondo comma); dall’altro ha modificato proprio l’art. 13 del D.Lgs. 471/1997, estrapolando, dall’originaria indistinta fattispecie sanzionatoria dell’omesso versamento, in tutto o in parte, alle prescritte scadenze, dei versamenti in acconto, dei versamenti periodici, del versamento di conguaglio o a saldo dell’imposta risultante dalla dichiarazione, le specifiche condotte di “utilizzo in compensazione di crediti inesistenti per il pagamento delle somme dovute”, fornendo, al contempo, la definizione di “crediti inesistenti” nei termini specificati dal comma 5 della norma (così Sez. 3, n. 23083 del 22/02/2022, Rv. 283236). La sentenza n. 16353 del 21/02/2023 evidenzia che, proprio perché le norme sono state modificate con lo stesso testo normativo, il mancato richiamo dell’art. 13 nella fattispecie penale di indebita compensazione costituisce un forte argomento a sostegno della inapplicabilità della definizione di “credito inesistente” contenuta nella normativa tributaria».

[6] «Per quanto attiene alla nozione di credito inesistente, anche dopo la riforma del 2015, si ritiene applicabile alla sola materia degli illeciti di natura amministrativa la definizione di cui all’art. 13, comma 5, del Decreto legislativo n. 471/1997, imperniata sul duplice presupposto della mancanza totale o parziale del presupposto costitutivo dei crediti medesimi e della non riscontrabilità della compensazione mediante i controlli di legge.».

[7] Per Cass., sent. n. 25018/2024, «il D.Lgs. 14 giugno 2024 n.87 (pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 150 del 28 giugni 2024) avente ad oggetto la revisione del sistema sanzionatorio tributario, all’art. 1, comma 1, opera una precisa distinzione tra crediti inesistenti e crediti non spettanti ai fini dell’applicazione della fattispecie di indebita compensazione prevista dall’art. 10 quater del D.Lgs. 10 marzo 2000, n. n. 74. La distinzione operata nella norma sostanzialmente ripercorre i criteri differenziali enucleate dalle Sezioni Unite di questa Corte ed ulteriormente arricchite dalle pronunce giurisprudenziali che ne sono seguite».

[8] Per Cass., Sez. sent. n. 19868/2025, «Con il nuovo Decreto vengono aggiunte, all’art. 1 del D.Lgs. 74/2000, delle specifiche definizioni per “crediti inesistenti” (co. 1 lett. g-quater) e per “crediti non spettanti” (co. 1 lett. g-quinquies). Rientrano nella prima categoria i crediti per i quali mancano, in tutto o in parte, i requisiti oggettivi o soggettivi specificamente indicati nella disciplina normativa di riferimento; i crediti per i quali i requisiti oggettivi e soggettivi di cui sopra sono oggetto di rappresentazioni fraudolente, attuate con documenti materialmente o ideologicamente falsi, simulazioni o artifici. Rientrano, invece, nella seconda categoria di “crediti non spettanti”, i crediti fruiti in violazione delle modalità di utilizzo previste dalle leggi vigenti ovvero, per la relativa eccedenza, quelli fruiti in misura superiore a quella stabilita dalle norme di riferimento; i crediti che, pur in presenza dei requisiti soggettivi e oggettivi specificamente indicati nella disciplina normativa di riferimento, sono fondati su fatti non rientranti nella disciplina attributiva del credito per difetto di ulteriori elementi o particolari qualità richiesti ai fini del riconoscimento del credito; i crediti utilizzati in difetto dei prescritti adempimenti amministrativi espressamente previsti a pena di decadenza. Ritiene, il Collegio, che la definizione introdotta dal Legislatore abbia recepito quella frutto dell’elaborazione giurisprudenziale, sicché anche la questione posta con i motivi nuovi è manifestamente infondata».

[9] Il citato comma 4-ter dell’art. 13, così dispone: «4-ter. Si applica la sanzione di duecentocinquanta euro quando il credito è utilizzato in compensazione in difetto dei prescritti adempimenti amministrativi di carattere strumentale, sempre che siano rispettante entrambe le seguenti condizioni: a) gli adempimenti non siano previsti a pena di decadenza; b) la violazione sia rimossa entro il termine di presentazione della dichiarazione annuale ai fini delle imposte sui redditi relativa all’anno di commissione della violazione, ovvero, in assenza di una dichiarazione, entro un anno dalla commissione della violazione medesima».

[10] Al riguardo, è interessante notare che la simulazione è espressamente contemplata dall’art. 3, D.Lgs. n. 74/2000: «Fuori dai casi previsti dall’articolo 2, è punito con la reclusione tre a otto anni chiunque, al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, compiendo operazioni simulate oggettivamente o soggettivamente…». Sul punto, in un mirabile studio, Assonime osserva che «il punto che ha certamente attratto le maggiori perplessità risiede in una delle nuove tipologie di condotta punibili ai sensi dell’art. 3, ovvero quelle “operazioni simulate oggettivamente o soggettivamente” prodromiche alla presentazione di una dichiarazione fraudolenta. Anche a prima vista, per come descritte dalla nuova lett. g-bis) dell’art. 1, D.Lgs. n. 74/2000, tali operazioni evidenziano più di un elemento in comune con le “operazioni inesistenti” di cui alla lett. a) del medesimo art. 1 e che invece caratterizzano la condotta della fattispecie di cui all’art. 2: appare infatti quantomeno “nebuloso” il confine tra le “operazioni poste in essere senza la volontà di realizzarle in tutto o in parte o comunque riferite a soggetti fittiziamente interposti” e quelle “non realmente effettuate in tutto o in parte, o che si riferiscono a soggetti diversi da quelli effettivi”, che dunque generano inevitabilmente un’evidente sovrapposizione delle norme».

Si può altresì osservare che l’Ufficio del Massimario della Suprema Corte di Cassazione, nella Relazione n. III/05/2015, cit., pag. 5, testualmente afferma: «l’introduzione della categoria della simulazione pone evidenti problemi di coordinamento, nella misura in cui non è semplice stabilire se vi sia o meno coincidenza fra le operazioni inesistenti documentate in fatture e di cui alla lettera a) dell’art. 1 del D.Lgs. n. 74/2000 (rimasta invariata) e le operazioni simulate, ossia quelle poste in essere con la volontà di non realizzarle in tutto o in parte ovvero le operazioni riferite a soggetti fittiziamente interposti di cui alla nuova lett. g ter) dell’articolo medesimo».

[11] «appartengono infine “i crediti che, pur in presenza dei requisiti soggettivi e oggettivi specificamente indicati nella disciplina normativa di riferimento, sono fondati su fatti non rientranti nella disciplina attributiva del credito per difetto di ulteriori elementi o particolari qualità richiesti ai fini del riconoscimento del credito”. Questa è la tipologia che più significativamente riguarda i c.d. crediti d’imposta sovvenzionali (ad esempio, i crediti per le attività di ricerca e sviluppo, innovazione tecnologica, design e innovazione estetica) e che ha sollevato le maggiori criticità interpretative e applicative. Questa tipologia di non spettanza si verifica quando, ferma restando la sussistenza dei requisiti oggettivi e soggettivi specificamente individuati nella normativa di riferimento, il credito d’imposta difetta di ulteriori elementi o qualità individuate da fonti tecniche di dettaglio non specificamente richiamate dalla normativa, primaria e secondaria, dell’agevolazione».

[12] G. Girelli, in Rivista Telematica di Diritto Tributario, 17 ottobre 2024 così osserva: «infatti, al di fuori delle ipotesi fraudolente, è difficile comprendere la precisa differenziazione tra crediti non spettanti, perché “pur in presenza dei requisiti soggettivi e oggettivi specificamente indicati nella disciplina normativa di riferimento, sono fondati su fatti non rientranti nella disciplina attributiva del credito per difetto di ulteriori elementi o particolari qualità richiesti ai fini del riconoscimento del credito” e crediti inesistenti, “per i quali mancano, in tutto o in parte, i requisiti oggettivi o soggettivi specificamente indicati nella disciplina normativa di riferimento”. Quindi, sulla base di queste dizioni, non è affatto agevole scolpire la qualificazione – di inesistente o non spettante – per il credito indebitamente compensato derivante da costi regolarmente sostenuti e attività effettivamente svolte. Il richiamo ai fini distintivi ad ulteriori elementi o qualità comunque stabiliti dalla normativa di riferimento non è risolutivo per assicurare chiarezza interpretativa. A titolo esemplificativo, si pensi al già richiamato credito d’imposta “Formazione 4.0” che impone che, ai fini del riconoscimento del credito d’imposta, l’effettivo sostenimento delle spese ammissibili e la corrispondenza delle stesse alla documentazione contabile predisposta dall’impresa devono risultare da apposita certificazione rilasciata dal soggetto incaricato della revisione legale dei conti. Ebbene, anche nel nuovo quadro normativo non pare chiaro se il difetto di tale certificazione debba far ritenere inesistente il credito d’imposta ai sensi dell’art. 1, comma 1, lett. g-quater), D.Lgs. n. 74/2000 o se, invece, debba farlo semplicemente considerare non spettante ai sensi della successiva lett. g-quinquies), n. 2) della medesima norma. Allo stesso modo si pensi al credito d’imposta per attività di ricerca e sviluppo e alla necessità che debba essere soddisfatto il requisito della novità per potervi accedere, ovvero al credito d’imposta sui nuovi investimenti nel caso in cui il bene agevolato non entri in funzione entro un determinato periodo: in tali fattispecie, difatti, il credito d’imposta indebitamente fruito non potrebbe qualificarsi sia come credito non spettante per mancanza “di specifici elementi o particolari qualità”, sia come credito inesistente per assenza dei “presupposti costitutivi?”».

[13] Vedasi Cass. sent. n. 20853/2020: «Ai fini dell’integrazione del reato dell’art. 10-quater D.Lgs. n. 74 del 2000, non basta il mancato versamento dell’imposta, ma è necessario che lo stessi risulti giustificato dalla compensazione tra i debiti ed i crediti verso l’Erario, allorché i crediti non spettino o non esistano. È la compensazione che esprime la componente decettiva o di frode insita nella fattispecie e che rappresenta il quid pluris che differenzia il reato dell’art. 10-quater rispetto ad una fattispecie di omesso versamento (Cass., Sez. 3, n. 15236 del 16/01/2015, Chiarolla, Rv. 263051). Il delitto di indebita compensazione si consuma, di conseguenza, al momento della presentazione dell’ultimo Modello F24 relativo all’anno interessato e non in quello della successiva dichiarazione dei redditi, dal momento che, con l’utilizzo del Modello indicato, si perfeziona la condotta decettiva del contribuente, realizzandosi il mancato versamento per effetto dell’indebita compensazione di crediti in realtà non spettanti in base alla normativa fiscale (Cass, Sez. 3, n. 4958 del 11/10/2018, dep. 2019, Cappello, Rv. 274854). L’indebita compensazione deve pertanto risultare dal Modello F24, mentre, nella specie, il Modello non è stato presentato e non sono stati rappresentati nella motivazione elementi idonei a ricostruire con precisione la fattispecie delittuosa». In termini, vedasi già Cass. pen., Sez. III, sent. n. 44737/2019, non massimata.

[14] Ai sensi dell’art. 81, comma 2, c.p., si ha reato continuato quando taluno con più azioni od omissioni esecutive di un medesimo disegno criminoso, commette, anche in tempi diversi, più violazioni della stessa o di diverse disposizioni di legge. Dal punto di vista strutturale la figura del reato continuato non si discosta da quella del concorso materiale (più azioni od omissioni atte a realizzare più violazioni della stessa o di diverse disposizioni di legge), ma sotto il profilo funzionale ne rappresenta una deroga, in quanto il reato continuato è punito con la pena che dovrebbe infliggersi per la violazione più grave aumentata fino al triplo. Questo trattamento sanzionatorio, evidentemente più mite, si giustificherebbe in ragione della ritenuta minor pericolosità sociale di chi commette più reati in esecuzione di un unico disegno criminoso rispetto a chi commette più reati autonomi.

[15] Una giurisprudenza risalente (Cass. n. 23065/2008) ma applicabile tutt’ora, vista l’identità della disciplina delle fasi 1 e 3 sopra descritte, sostiene che ove il termine di prescrizione dei reati sia maturato ancor prima che il giudice si accinga a verificare la sussistenza delle condizioni per l’applicazione del vincolo della continuazione, sussiste l’obbligo di applicare la relativa causa estintiva ai sensi dell’art. 129, c.p.p.; e viceversa, se la riunificazione delle diverse fattispecie criminose preceda l’intervenuta prescrizione, il decorso del termine, per tutti i reati, inizia a decorrere dalla data di consumazione dell’ultimo

[16] Secondo Cass., SS.UU., sent. n. 28659/2007, è «necessario che al momento della commissione del primo reato, I successivi fossero stati programmati almeno nelle loro linee essenziali».

[17] Esula dalle finalità di questo lavoro l’esame della disciplina della prescrizione come novellata nel passaggio dalla disciplina “Orlando” a quella “Bonafede” e, da ultimo, a quella “Cartabia”: vale tuttavia la pena di osservare che, nell’assetto attuale, la sentenza di primo grado costituisce causa di cessazione del corso della prescrizione, sia essa di condanna o di assoluzione (art. 161-bis, c.p.); tuttavia, a evitare il rischio di processi di durata irragionevole, la riforma Cartabia ha introdotto una nuova causa di improcedibilità dell’azione penale, integrata dal superamento dei termini di durata massima del giudizio di appello (2 anni) e di Cassazione (1 anno) (art. 344-bis, c.p.p.).

 

Si segnala che l’articolo è tratto da “Accertamento e contenzioso”.