22 Ottobre 2025

L’irragionevole intersezione causale “antieconomicità-inerenza” prospettata dalla Corte di Cassazione

di Luciano Sorgato
Scarica in PDF
La scheda di FISCOPRATICO

La Corte di Cassazione, ormai in molte sentenze (tra le altre, si veda la recentissima ord. n. 26312/2025) continua a ribadire che, in tema di imposte dirette, l’Amministrazione finanziaria, nel negare l’inerenza di un costo, può contestare l’incongruità e l’antieconomicità della spesa, che assumono rilievo, sul piano probatorio, come indici sintomatici della carenza di inerenza pur non identificandosi in essa. In tale caso, è onere del contribuente dimostrare la regolarità delle operazioni in relazione allo svolgimento dell’attività d’impresa e alle scelte imprenditoriali. In ordine a un tale passo, si deve sottolineare come la Cassazione incorra in un giudizio incongruente rispetto all’ermeneutica intrapresa con la nota sentenza n. 450/2018, con la quale ha marcato che l’inerenza deve essere intesa alla sola stregua di un giudizio meramente qualitativo, di relazione solo funzionale tra il costo sostenuto e l’attività d’impresa, con esclusione di ogni scrutinio utilitaristico-quantitativo – benefici alla base dell’assenza dell’inerenza del costo nel reddito d’impresa.

L’abituale passo della sentenza, per cui «l’incongruità e l’antieconomicità della spesa, assumono rilievo come indici sintomatici della carenza di inerenza pur non identificandosi con essa», appare essere del tutto equivoco, dal momento che se un fatto indice è sintomatico del mancato riscontro di un presupposto, esso non può non concorrere in qualche modo alla sua identità legale. Se, quindi, l’interazione funzionale tra un costo abnorme e la misura di sinergia utile che esso riversa nell’operatività dell’impresa, lo rende sintomaticamente non inerente, è perché il principio dell’inerenza nel suo paradigma concreto ritrae dalla congruità del rapporto costi-benefici la relativa configurazione strutturale. L’abnormità di un costo si misura necessariamente rispetto a un parametro, e tale parametro non può che essere rappresentato dall’utilità del suo concorso utilitaristico-quantitativo nell’attività economica, per cui prospettare sul piano sintomatico il sillogismo costo abnorme-mancanza di inerenza, altro non può volere dire che l’inerenza di un costo si misura attraverso la verifica del quantum di funzioni utili che esso genera nella dinamica di mercato. Le parole hanno un senso preciso e, se impiegate nel contesto di una sentenza, non possono che rendersi intellegibili proprio in base al loro significato semantico.

Proprio l’incoerenza del passo rinvenibile nella citata ordinanza n. 26312/2025 non può non rivelarsi chiara. Per la Cassazione:

  • il principio dell’inerenza si traduce in un giudizio di carattere qualitativo, che prescinde, in sé, da valutazioni di tipo utilitaristico (o di vantaggio economico) ovvero quantitativo;
  • il giudizio quantitativo o di congruità si colloca su un diverso piano logico e strutturale rispetto al giudizio di inerenza;
  • l’onere della prova grava sul contribuente che deve dimostrare l’esistenza e la natura del costo, i relativi fatti giustificativi e la sua concreta destinazione alla produzione, ovvero che esso è in realtà un atto d’impresa in quanto in correlazione con l’attività d’impresa;
  • l’Amministrazione finanziaria può confutare gli elementi dedotti dal contribuente a comprova del raccordo causale con l’inerenza, traducendosi in ordine al comparto delle imposte dirette, nella possibilità di negare l’inerenza di un costo in quanto non congruo e antieconomico, presupposti che assumono rilievo come indici sintomatici della carenza di inerenza pur non identificandosi in essa, e in tema di IVA nella possibilità, sempre per l’Amministrazione finanziaria, di dimostrare la macroscopica antieconomicità del costo, rilevando essa come indizio della mancanza dell’inerenza.

Del tutto incomprensibile non può non apparire l’intentato (da parte della Cassazione) sillogismo di continuità concettuale tra la ritenuta mancanza di aderenza costitutiva dell’antieconomicità in ordine al paradigma dell’inerenza e la contemporanea possibilità di far derivare proprio dall’antieconomicità la mancanza dell’inerenza (a cui è concettualmente estranea). Se l’antieconomicità non partecipa delle prerogative dell’inerenza, allora la coerenza sillogistica dovrebbe portare a ben altra conclusione: l’antieconomicità, non contigua con l’inerenza, non è in grado di rivelarne la mancanza e non può, al contrario, essere assunta ad asse sintomatico della sua mancanza. Come può un fattore non partecipe di un fenomeno rivelarne la presenza o la mancanza?

L’astrazione dell’intersezione causale “antieconomicità-inerenza” prospettata dalla Cassazione non può non rappresentarsi come esponenziale.

Allo scopo di verificare l’incongruenza dello scrutinio della Cassazione sull’antieconomicità, occorre analizzare il sopravanzante rango gerarchico del divieto della doppia tassazione incentrato sul medesimo presupposto d’imposta, legislativamente pensato a presidio costituzionale dell’obbligazione tributaria. Qualora (come in molte verifiche fiscali avviene) in sede d’istruttoria venga recuperato un costo perché ritenuto antieconomico sul piano del quantum, nonostante in ordine a esso si renda intravedibile un’intersezione qualitativa con le ragioni d’impresa, si pone la questione di rilevanza costituzionale della doppia tassazione che scaturisce dall’asimmetria fiscale del medesimo componente di reddito, contemporaneamente tassato e non dedotto. In ordine alla distorsione impositiva che si viene a generare in caso di recupero fiscale (anche solo parziale) dei costi, perché intesi antieconomici sul piano del quantum, procurata dall’inosservanza del divieto della doppia imposizione ex art. 163, TUIR, a mente del quale «lo stesso presupposto d’imposta non può essere tassato più volte neppure nei confronti di soggetti diversi», si deve considerare come tale principio venga avvertito come ineludibile nella verifica costituzionale dell’obbligazione tributaria, proprio come pensata e presidiata in Costituzione.

Per un insigne giurista (G. Falsitta) l’art. 163, TUIR, non si contrassegna alla stregua di un principio generale di governo dei vari tipi di reddito, ma come fondamentale «norma di orientamento costituzionale», mai eludibile nella delineazione strutturale dell’obbligazione tributaria. Non trattasi di un principio di diritto tributario genericamente raccordato con la fase attuativa del tributo, ma piuttosto di un presidio che con nesso diretto partecipa alla conformazione legislativamente indisponibile dell’obbligazione tributaria. Sotteso a tale divieto vi è, infatti, la fondamentale necessità di evitare che la ricchezza connessa a un qualsiasi fatto economico non abbia da essere interamente commutata in prestazione erariale. Lo scrutinio, quindi, dell’inerenza non è ammesso a raggirare il perentorio impulso esegetico che propaga dall’art. 163, TUIR, ma anzi ne subisce l’influenza dominante nella forma di vincolo e condizionamento imperativi.

La soluzione che si ritiene prestarsi a una coerenza di sistema è la collocazione dell’antieconomicità nell’ambito delle regole di governo dell’abuso del diritto. Solo, quindi, se l’operazione imprenditoriale viene a intersecarsi con piani pregiudizievoli al diritto erariale, del tutto contrari a logiche economiche e del tutto sprovvisti di ragioni extra fiscali, nonché solo portatori di illecite diminuzioni di carichi impositivi, contrariati dai c.d. principi impliciti dell’ordinamento giuridico, l’antieconomicità potrà giustificare il recupero fiscale del costo. Ma in tale caso, il divieto della doppia tassazione viene salvaguardato dal comma 11 dell’art. 10-bis che prevede l’integrale rimborso, ai soggetti diversi da quelli cui si applicano le disposizioni sull’abuso del diritto, delle imposte pagate a seguito delle operazioni abusive i cui vantaggi sono stati disconosciuti dall’Amministrazione finanziaria. Il raccordo dell’antieconomicità con l’abuso del diritto consentirebbe, quindi, non solo maggiori tutele procedurali nei confronti del soggetto a cui viene imputata l’operazione abusiva, ma consentirebbe, in ogni caso, la salvaguardia dell’ineludibile divieto della doppia tassazione.

Conclusivamente, alla luce di quanto sopra esposto, appare necessario un maggior ordine di idee da parte della Cassazione in relazione al principio dell’inerenza e, anzi, si ritiene che la soluzione migliore non possa che essere quella di demandare il suo paradigma al Legislatore.