7 Novembre 2025

Limiti alla restituzione dell’IVA in un contesto di frode fiscale

di Marco Peirolo
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L’Agenzia delle Entrate, con la risoluzione n. 50/E/2025, ripubblicata il 7 ottobre 2025, ha fornito chiarimenti sull’invalidità del titolo giuridico da cui scaturiscono le operazioni indebitamente assoggettate a IVA, precisando che, qualora il versamento dell’imposta all’Erario da parte del cedente/prestatore sia avvenuto in un contesto di frode fiscale, la restituzione dell’imposta stessa resta preclusa quand’anche la detrazione operata dal cessionario/committente sia stata recuperata a tassazione dall’ufficio.
Si tratta di un’indicazione che non appare coerente con la giurisprudenza comunitaria e nazionale, secondo la quale – in assenza di danno per l’Erario – anche le operazioni effettuate nell’ambito di una frode IVA danno diritto al cedente/prestatore di ottenere il rimborso dell’imposta in precedenza versata.

 

Effetti dell’IVA indebitamente applicata in fattura dal fornitore nella previgente disciplina

Nella legislazione vigente anteriormente alle modifiche operate dalla Legge n. 167/2017 (Legge europea 2017) e dalla Legge n. 205/2017 (Legge di bilancio 2018), la disciplina IVA prevedeva apposite regole per risolvere le situazioni in cui il fornitore addebitasse in fattura un’imposta non dovuta, cioè applicata in relazione a operazioni detassate, ovvero, se imponibili, soggette a un’aliquota inferiore a quella erroneamente utilizzata per determinare l’importo dell’imposta da rivalsare al cliente.

I rimedi a tal fine introdotti non sono risultati del tutto adeguati, in quanto il Legislatore si è trovato a dover conciliare l’esigenza di assicurare la neutralità dell’IVA per gli operatori economici con quella di salvaguardare l’interesse erariale alla riscossione dell’imposta dovuta, evitando la possibilità di commettere frodi.

Per tutelare l’Erario, l’art. 21, comma 7, D.P.R. n. 633/1972, dispone che: «se il cedente o prestatore emette fattura per operazioni inesistenti, ovvero se indica nella fattura i corrispettivi delle operazioni o le imposte relative in misura superiore a quella reale, l’imposta è dovuta per l’intero ammontare indicato o corrispondente alle indicazioni della fattura».

Tale previsione, nel recepire l’art. 203, Direttiva 2006/112/CE, stabilisce che l’imposta esposta in fattura deve essere comunque computata in sede di liquidazione periodica, concorrendo alla determinazione dell’imposta a debito o alla formazione dell’imposta a credito, a nulla rilevando la circostanza che essa non doveva essere applicata in via di rivalsa al cliente.

Allo stesso tempo, però, quest’ultimo non aveva – sino alla novità introdotta dalla Legge di bilancio 2018 – diritto a esercitare la detrazione assolta a titolo di rivalsa, essendo consolidato in tal senso l’orientamento della giurisprudenza, sia comunitaria che nazionale[1], sulla cui scia si è espressa anche la stessa prassi amministrativa[2], superando la propria posizione iniziale[3].

Al fine di evitare la violazione del principio di neutralità fiscale, una volta decorso il termine annuale previsto dall’art. 26, comma 3, D.P.R. n. 633/1972, per l’emissione della nota di variazione in diminuzione dell’imposta da parte del fornitore, la giurisprudenza consentiva al fornitore di chiedere il rimborso dell’imposta indebitamente versata direttamente nei confronti dell’Amministrazione finanziaria[4].

Identificando il fornitore nel soggetto legittimato a pretendere il rimborso dall’Amministrazione finanziaria e obbligato a restituire al cliente l’imposta pagata a titolo di rivalsa, la Suprema Corte aveva stabilito che, dall’effettuazione di un’operazione imponibile discende un triplice rapporto, rispettivamente tra:

− l’Amministrazione finanziaria e il cedente/prestatore, per il pagamento dell’imposta;

− il cedente/prestatore e il cessionario/committente, in ordine alla rivalsa dell’imposta;

− l’Amministrazione finanziaria e il cessionario/committente, per ciò che attiene alla detrazione dell’imposta assolta in via di rivalsa.

In caso di addebito in fattura di un’IVA non dovuta, la stessa giurisprudenza aveva affermato che[5]:

− il fornitore non può opporre al cliente – il quale agisca nei suoi confronti per la restituzione dell’indebito ex art. 2033, c.c. – l’avvenuto versamento dell’imposta, il cui obbligo è previsto dal richiamato art. 21, comma 7, D.P.R. n. 633/1972;

− il cliente non può opporre all’Amministrazione finanziaria – che escluda la detrazione dell’imposta erroneamente liquidata in fattura – che l’imposta è stata assolta in via di rivalsa e versata all’Erario;

− il fornitore ha titolo ad agire per il rimborso nei confronti dell’Amministrazione finanziaria, ai sensi dell’art. 21, comma 2, D.Lgs. n. 546/1992, la quale pertanto, essendo estranea al rapporto tra cedente/prestatore e cessionario/committente, non può essere tenuta a rimborsare direttamente a quest’ultimo quanto dallo stesso versato in via di rivalsa.

 

Effetti dell’IVA indebitamente applicata in fattura dal fornitore nell’attuale disciplina

Il sistema in vigore prima delle modifiche operate dalla Legge europea 2017 e dalla Legge di bilancio 2018 risultava inadeguato sotto un duplice punto di vista:

− in primo luogo, perché il termine biennale di decadenza a disposizione del fornitore per chiedere il rimborso di cui all’art. 21, comma 2, D.Lgs. n. 546/1992, è inferiore al termine quinquennale entro il quale l’Amministrazione finanziaria può contestare l’erronea applicazione dell’imposta e al termine decennale di prescrizione a disposizione del cliente per l’azione di ripetizione nei confronti dell’operatore, ex artt. 2033 e 2946, c.c. è noto che la Corte di Giustizia, nella causa C-427/10 del 15 dicembre 2011 (Banca Antoniana Popolare Veneta) ha ritenuto che il disallineamento dei termini di rimborso a disposizione, rispettivamente, del fornitore e del cliente non sia, di per sé, incompatibile con l’ordinamento comunitario, ma la tutela dei principi di effettività e di equivalenza esige che sia garantita la restituzione dell’IVA al fornitore se esposto all’azione di ripetizione del cliente. Giunto al vaglio della Corte di Cassazione il tema della coesistenza del doppio termine di rimborso, i giudici di legittimità hanno recepito in modo alquanto rigoroso le indicazioni della Corte europea, ritenendo che – per la restituzione dell’imposta al fornitore – non sia sufficiente la mera richiesta di rimborso avanzata dal cliente, essendo necessario un provvedimento coattivo che disponga l’obbligo di pagamento a suo favore[6];

− in secondo luogo, perché il cliente che avesse detratto l’imposta erroneamente addebita in fattura dal proprio fornitore, oltre a subire il recupero dell’imposta detratta, era soggetto anche all’applicazione della sanzione proporzionale (90% dell’imposta, ex art. 6, comma 6, D.Lgs. n. 471/1997).

Per superare le anzidette criticità, il Legislatore, sia pure in tempi diversi, ha introdotto alcune disposizioni finalizzate a ripristinare la neutralità dell’imposta, dal punto di vista sia del fornitore che del cliente[7].

 

Rimborso dell’IVA non dovuta

In primo luogo, l’art. 8, comma 1, Legge europea 2017, ha novellato l’art. 30-ter, D.P.R. n. 633/1972, al fine di disciplinare il rimborso dell’IVA non dovuta.

In base al comma 1, che corrisponde al contenuto dell’art. 21, comma 2, D.Lgs. n. 546/1992, avente per oggetto il c.d. rimborso anomalo, «il soggetto passivo presenta la domanda di restituzione dell’imposta non dovuta, a pena di decadenza, entro il termine di due anni dal versamento della medesima ovvero, se posteriore, dal giorno in cui si è verificato il presupposto per la restituzione».

Il successivo comma 2, stabilisce che, «nel caso di applicazione di un’imposta non dovuta ad una cessione di beni o ad una prestazione di servizi, accertata in via definitiva dall’Amministrazione finanziaria, la domanda di restituzione può essere presentata dal cedente o prestatore entro il termine di due anni dall’avvenuta restituzione al cessionario o committente dell’importo pagato a titolo di rivalsa».

Infine, il comma 3, pone un limite più generale al diritto di rimborso, disponendo che «la restituzione dell’imposta è esclusa qualora il versamento sia avvenuto in un contesto di frode fiscale».

 

Rimborso dell’IVA non dovuta dopo la scadenza del termine biennale

Nella nuova disciplina del rimborso dell’IVA non dovuta trova specifica regolamentazione l’ipotesi in cui il cedente/prestatore non possa più chiedere all’Amministrazione finanziaria la restituzione dell’imposta versata per decorso del termine biennale di decadenza, ma si trovi esposto all’azione di ripetizione del cessionario/committente in considerazione del maggior termine prescrizionale a sua disposizione, pari a 10 anni dal pagamento dell’imposta in rivalsa.

La soluzione è individuata dal comma 2, art. 30-ter, D.P.R. n. 633/1972, secondo cui, «nel caso di applicazione di un’imposta non dovuta ad una cessione di beni o ad una prestazione di servizi, accertata in via definitiva dall’Amministrazione finanziaria, la domanda di restituzione può essere presentata dal cedente o prestatore entro il termine di due anni dall’avvenuta restituzione al cessionario o committente dell’importo pagato a titolo di rivalsa».

 

Superamento del termine biennale solo in caso di provvedimento coattivo di rimborso a favore del cliente

Sulla questione dell’applicazione in fattura di un’IVA o una maggiore IVA non dovuta, è noto che il fornitore ha, a pena di decadenza, 2 anni di tempo dal pagamento dell’imposta per attivare la richiesta di rimborso nei confronti dell’Amministrazione finanziaria (di cui all’art. 21, comma 2, D.Lgs. n. 546/1992, ora art. 30-ter, comma 1, D.P.R. n. 633/1972) a fronte del termine decennale di prescrizione a disposizione del cliente per l’azione di ripetizione nei confronti dell’operatore (artt. 2033 e 2946, c.c.).

La Corte di Giustizia, nella causa C-427/10 del 15 dicembre 2011, relativa al caso Banca Antoniana Popolare Veneta, ha ritenuto che il disallineamento dei termini di rimborso a disposizione, rispettivamente, del fornitore e del cliente non sia, di per sé, incompatibile con l’ordinamento comunitario. La tutela dei princìpi di effettività e di equivalenza esige, tuttavia, che sia garantita la restituzione dell’IVA al fornitore se esposto all’azione di ripetizione del cliente.

La convivenza delle 2 disposizioni configgenti persegue, quindi, l’obiettivo, già indicato dall’Avvocato generale, di non rendere impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio del diritto di rimborso dell’imposta non dovuta.

Giunto al vaglio della Corte di Cassazione il tema della coesistenza del doppio termine di rimborso, i giudici di legittimità hanno recepito in modo alquanto rigoroso le indicazioni della Corte europea, ritenendo che – per la restituzione dell’imposta al fornitore – non sia sufficiente la mera richiesta di rimborso avanzata dal cliente, essendo necessario un provvedimento coattivo che disponga l’obbligo di pagamento a suo favore[8].

Non è, tuttavia, lecito teorizzare che la Corte di Giustizia, nel rapporto “tributario” tra il fornitore e l’Amministrazione finanziaria, abbia inteso escludere il rimborso nel caso in cui l’imposta sia stata restituita al cliente “spontaneamente”, anziché a seguito di un provvedimento coattivo, siccome la particolare “cautela” imposta dai giudici nazionali, vale a dire il richiamo al “dovere” di rimborso, risulta esclusivamente finalizzata a garantire che gli effetti dell’indebito pagamento dell’IVA e, dunque, del recupero, non ricadano in danno dell’Erario.

In pratica, il cliente al quale venga disconosciuta la detrazione operata in ragione della natura indebita dell’imposta si rivolgerà al proprio fornitore per ottenerne la restituzione, per cui è logico ritenere che, se quest’ultimo ha provveduto al relativo rimborso, in modo spontaneo o coattivo, avrà diritto – anche oltre il termine biennale di decadenza previsto dall’art. 21, comma 2, D.Lgs. n. 546/1992 (ora art. 30-ter, comma 1, D.P.R. n. 633/1972) – a essere reintegrato dall’Amministrazione finanziaria; in caso contrario, l’Erario trarrebbe un indebito arricchimento a danno del fornitore, sul quale finirebbe per gravare il tributo con una evidente violazione del principio di neutralità.

Si tratta, pertanto, di tutelare una duplice esigenza: da un lato, quella dell’Erario, che non deve subire la perdita di gettito che si concretizzerebbe qualora al fornitore fosse restituita un’imposta che il cliente ha detratto e che, eventualmente, l’Amministrazione non ha più potere di recuperare a tassazione in ragione dell’intervenuta decadenza dell’azione di accertamento e, dall’altra, quella del fornitore, che si trova esposto a un “doppio fuoco”, cioè alla richiesta di restituzione dell’IVA al proprio cliente senza essere più in grado di rivalersi nei confronti dell’Amministrazione finanziaria stante l’intervenuto decorso del termine biennale.

Ed è proprio questo l’elemento sul quale occorre focalizzare l’attenzione per raggiungere un risultato in linea con i princìpi sanciti a livello comunitario.

È vero che la Corte UE riconosce il diritto di rimborso una volta eliminato completamente il rischio di perdita di gettito[9].

Dagli arresti giurisprudenziali in rassegna si desume, in particolare, che l’obbligo di versare l’IVA indicata in fattura, previsto dall’art. 203, Direttiva 2006/112/CE e, nella normativa nazionale, dall’art. 21, comma 7, D.P.R. n. 633/1972, è volto a evitare che l’Erario, a fronte della detrazione operata dal cliente, non abbia la certezza di riscuotere l’imposta dovuta dal fornitore.

L’applicazione “a contrariis” di tale principio richiede, secondo l’interpretazione offerta dai giudici europei, che l’imposta versata e non dovuta sia rimborsata al fornitore se al cliente è stata definitivamente negata la detrazione, salvaguardando così la neutralità dell’imposta.

A maggior ragione laddove il cliente abbia accettato la rettifica e riversato il tributo contestato all’Erario, la prospettiva è completamente diversa: l’Amministrazione finanziaria è al riparo da situazioni di perdita di gettito e non vi è motivo di imporre un controllo giudiziale all’azione di rimborso da parte del fornitore che, a questo punto, può anche essere “spontaneo”, cioè a semplice domanda del proprio cliente.

Come conseguenza, il fornitore ha diritto di richiedere il rimborso dell’IVA all’Erario, senza ulteriori formalità, essendo a esso noto che la parte passiva, cioè il riversamento dell’imposta da parte del cliente, è già intervenuto.

 

Differimento del termine biennale in caso di restituzione dell’imposta al cliente

Con l’obiettivo di evitare che il rimborso dell’imposta non dovuta risulti, di fatto, impossibile o eccessivamente difficile quando il cedente/prestatore risulti esposto all’azione di ripetizione del cessionario/committente, il nuovo comma 2, art. 30-ter, D.P.R. n. 633/1972, non subordina la restituzione dell’imposta all’esistenza di un provvedimento coattivo, rivolto al cedente/prestatore, considerando ugualmente rilevante la situazione in cui quest’ultimo abbia rimborsato l’imposta alla propria controparte in modo spontaneo.

In tal modo si scongiura la possibilità che l’Erario tragga un indebito arricchimento a danno del cedente/prestatore, sul quale graverebbe in via definitiva l’imposta, in violazione del principio di neutralità.

Questa evenienza non è sfuggita alla Commissione europea, che nell’ambito della procedura EU Pilot 9164/17/TAXU, ha chiesto informazioni all’Italia sui riflessi dell’interpretazione della sentenza della Corte di Giustizia relativa al caso Banca Antoniana Popolare Veneta in merito alle condizioni di rimborso dell’IVA versata e non dovuta. La nuova norma stabilisce, come detto, che: «nel caso di applicazione di un’imposta non dovuta ad una cessione di beni o ad una prestazione di servizi, accertata in via definitiva dall’Amministrazione finanziaria, la domanda di restituzione può essere presentata dal cedente o prestatore entro il termine di due anni dall’avvenuta restituzione al cessionario o committente dell’importo pagato a titolo di rivalsa».

In pratica, il cedente/prestatore può chiedere la restituzione dell’imposta all’Erario, dopo che sia scaduto il termine biennale di decadenza, anche se ha provveduto spontaneamente al rimborso a favore del cessionario/committente. A prescindere, infatti, dal carattere coattivo o spontaneo del rimborso, viene previsto che il termine per la domanda rivolta all’Amministrazione finanziaria dal cedente/prestatore sia differita dal giorno del versamento all’Erario a quello dell’avvenuta restituzione al cessionario/committente dell’imposta indebitamente addebitata in fattura.

L’accertamento definitivo cui la norma fa riferimento potrebbe essere effettuato tanto nei confronti del fornitore, quanto nei confronti dell’acquirente, come accade, per esempio, nell’ipotesi in cui le parti abbiano qualificato un insieme di cessioni come ordinarie cessione di beni, mentre l’Amministrazione finanziaria abbia ritenuto che le stesse configurino il trasferimento a titolo oneroso di un ramo d’azienda, non soggetto a IVA, ma a imposta proporzionale di registro.

In situazioni simili, laddove l’ufficio contesti la corretta applicazione dell’IVA nei confronti del cedente o del cessionario e l’accertamento sia divenuto definitivo, il riequilibrio tra le posizioni delle parti e tra queste e l’Amministrazione finanziaria può avere luogo secondo le seguenti modalità alternative:

− l’acquirente chiede il rimborso direttamente all’Amministrazione finanziaria, con la conseguenza che la posizione del fornitore resta immutata, in quanto il cliente non ha più titolo di rivalersi nei suoi confronti e il debito IVA sorto a seguito dell’erroneo addebito in fattura dell’imposta si consolida;

− l’acquirente chiede il rimborso al proprio fornitore, con la conseguenza che quest’ultimo provvede alla relativa restituzione, ma ha titolo per chiederne il rimborso all’Erario entro 2 anni dall’avvenuta restituzione al cliente.

 

Riqualificazione del contratto operata in un contesto di frode fiscale

Come sopra anticipato, l’Agenzia delle Entrate ha ripubblicato la risoluzione n. 50/E/2025, specificando che la mera riqualificazione del contratto non è idonea, di per sé, a configurare un’ipotesi di frode fiscale, la quale non può infatti discendere dalla sola invalidità del negozio giuridico utilizzato dalle parti per effettuare le operazioni.

La precisazione è riferita all’ipotesi, presa in considerazione dal documento di prassi, in cui il rapporto contrattuale instaurato tra le parti venga riqualificato da contratto d’appalto di servizi a contratto di somministrazione di lavoro e, di conseguenza, recuperata l’IVA.

È noto, infatti, che spesso i contratti di somministrazione di personale sono considerati in modo simulato come contratti d’appalto o simili, non soltanto per eludere la disciplina giuslavoristica, contributiva e assicurativa, ma anche per applicare l’IVA su una base imponibile più elevata, con esercizio della detrazione da parte del committente e omesso versamento da parte del prestatore.

Del resto, l’estensione del meccanismo del reverse charge stabilita dall’art. 1, comma 57, Legge n. 207/2024 (Legge di bilancio 2025) rappresenta proprio una misura antifrode, operata con la previsione dell’art. 17, comma 6, lett. a-quinquies), D.P.R. n. 633/1972, secondo cui sono soggette a inversione contabile le prestazioni di servizi rese nei settori dell’attività di trasporto e movimentazione merci e dei servizi di logistica[10].

Secondo l’Agenzia delle Entrate: «se, in un contesto di frode, a seguito dell’attività di controllo da parte degli uffici dell’Agenzia delle Entrate il rapporto contrattuale tra le parti venga riqualificato e conseguentemente escluso il diritto alla detrazione dell’IVA collegata alle prestazioni afferenti al contratto asseritamente ritenuto di appalto per invalidità del titolo giuridico dal quale scaturiscono, non essendo configurabile una prestazione dell’appaltatore imponibile ai fini IVA, non potrà darsi luogo ad alcuna restituzione dell’imposta».

La specificazione dell’Agenzia delle Entrate in merito alla circostanza che, per escludere il rimborso dell’IVA in capo al fornitore, la riqualificazione del contratto per effetto dell’invalidità del titolo giuridico cui discendono le prestazioni deve essere stato operato dall’ufficio dopo avere accertato l’esistenza di una frode fiscale appare senz’altro necessaria per evitare il possibile fraintendimento che la restituzione dell’imposta sarebbe preclusa a seguito della mera invalidità del titolo giuridico e, quindi, anche al di fuori di una frode.

Tuttavia, è dato osservare che il divieto di rimborso previsto dall’art. 30-ter, comma 3, D.P.R. n. 633/1972, quando il versamento dell’imposta sia avvenuto in un contesto di frode fiscale non dovrebbe operare in assenza di danno per l’Erario.

Tale principio discende dalla posizione espressa dalla Corte di Giustizia nella sentenza EN.SA., di cui alla causa C-712/17 8 maggio 2019, fatto proprio anche fatto proprio anche dalla Corte di Cassazione, secondo cui – in presenza di una frode – al cedente/prestatore deve essere garantita la restituzione dell’IVA se è stato eliminato completamente il rischio di danno erariale, che ricorre, tra l’altro, quando la detrazione sia stata accertata a titolo definitivo dall’Amministrazione finanziaria e, di conseguenza, la relativa imposta riversata all’Erario[11].

In sostanza, salvo ulteriori evasioni d’imposta nella catena di operazioni, “a monte” o “a valle” di quella in questione, se al cessionario/committente è stata recuperata a tassazione l’imposta indebitamente detratta, la restituzione dell’imposta al cedente/prestatore non può essere preclusa nonostante il precedente versamento all’Erario sia avvenuto in un contesto di frode.

La stessa conclusione vale nel caso in cui il cedente/prestatore non avesse versato l’imposta indebitamente applicata in fattura, se la detrazione operata dal cessionario/committente è stata recuperata a imposizione dall’ufficio. In questa ipotesi, come stabilito dalla giurisprudenza comunitaria[12], in assenza di danno per l’Erario, al cedente/prestatore non può essere chiesto il versamento dell’IVA nonostante il principio contenuto nell’art. 203, Direttiva 2006/112/CE e nel corrispondente art. 21, comma 7, D.P.R. n. 633/1972, sicché – ovviamente – il cedente/prestatore non avrà titolo per chiedere alcun rimborso.

 

[1] Cfr., da ultimo, Corte di Giustizia, 21 febbraio 2018, causa C-628/16, Kreuzmayr e Cass. n. 15178/2014.

[2] Cfr. circolare dell’Agenzia delle Entrate n. 8/E/2009 (risposta 6.9).

[3] Cfr. risoluzione n. 334298/1982.

[4] Di regola, l’azione di rimborso è attivata dopo che è scaduto il suddetto termine annuale per l’emissione della nota di credito, ma sulla possibilità di chiedere il rimborso anche prima del decorso dell’anno si è espressa la Corte di Cassazione con la sent. n. 7330/2012.

[5] Cfr. Cass. n. 4020/2012, n. 14933/2011, n. 24794/2005, n. 6632/2003, n. 6419/2003.

[6] Cfr. sent. n. 12666/2012. Tale principio è stato ribadito nelle successive pronunce in materia (Cass. n. 1426/2016, n. 3627/2015, n. 25988/2014, n. 6605/2013).

[7] In questa sede, non si esamineranno le modifiche normative riguardanti il cliente.

[8] Cfr. sent. n. 12666/2012. Tale principio è stato ribadito nelle successive pronunce in materia (Cass. n. 1426/2016, n. 3627/2015, n. 25988/2014, n. 6605/2013).

[9] Cfr. sent. 11 aprile 2013, causa C-138/12, cit. e sent. 23 aprile 2015, causa C-111/14, cit..

[10] Si veda la circolare Assonime n. 17/2025.

[11] Cfr. sent. n. 7080/2020.

[12] Cfr. Corte di giustizia UE, 1° agosto 2025, causa C-794/23, P e Corte di giustizia UE, 8 dicembre 2022, causa C-378/21, P.

 

Si segnala che l’articolo è tratto da “La circolare tributaria”.