20 Novembre 2025

La ridefinizione dei confini dell’attività d’impresa online

di Laura Mazzola
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La scheda di FISCOPRATICO

Negli ultimi anni la fiscalità internazionale ha dovuto inseguire un’economia sempre più “smaterializzata”, nella quale le piattaforme digitali sono diventate il principale luogo di scambio di beni e servizi.

In questo contesto, la Direttiva (UE) n. 2021/514, meglio conosciuta come DAC7, ha introdotto un nuovo meccanismo di cooperazione amministrativa e di scambio automatico di informazioni tra le autorità fiscali europee.

L’obiettivo è quello di rendere visibile al Fisco ciò che prima era invisibile, ossia le transazioni effettuate attraverso marketplace e piattaforme digitali.

La DAC7, recepita in Italia con il D.Lgs. n. 32/2023, obbliga i gestori di piattaforme digitali a raccogliere e trasmettere alle Autorità fiscali informazioni sui venditori che utilizzano i loro servizi per effettuare transazioni economiche.

Rientrano nell’obbligo non solo i marketplace di grandi dimensioni, ma anche piattaforme minori che consentono la locazione di immobili, la prestazione di servizi personali, la vendita di beni e il noleggio di mezzi di trasporto.

Le piattaforme devono, in particolare, identificare i propri venditori, verificare il loro status fiscale (residenza, codice fiscale o TIN) e comunicare, in formato elettronico, il numero di transazioni, gli importi percepiti e i relativi conti di pagamento.

L’ambito soggettivo della DAC7 coinvolge sia gli operatori UE (con sede o stabile organizzazione in uno Stato membro) sia quelli non UE che offrono servizi a utenti europei.

Tuttavia, sono state introdotte alcune esenzioni: ad esempio, non devono essere comunicati i dati dei venditori che effettuano meno di 30 transazioni l’anno o che realizzano compensi complessivi inferiori a 2.000 euro.

Si evidenzia che l’attività può comunque essere qualificata come “imprenditoriale” anche al di sotto di tali valori, se ricorrono gli indici di abitualità e sistematicità.

Per l’Agenzia delle Entrate le informazioni trasmesse dalle piattaforme diventano un archivio strutturato e aggiornato di dati sulle attività online dei contribuenti; ciò consente un controllo incrociato tra le movimentazioni dichiarate, i dati bancari e i flussi provenienti dai marketplace, facilitando l’individuazione di soggetti che operano in modo continuativo senza partita IVA.

In questo contesto normativo, si inserisce la sent. n. 7552/2025 della Corte di cassazione, destinata a diventare un punto di riferimento per la qualificazione fiscale delle attività online.

Il caso riguardava un contribuente che, senza partita IVA, aveva effettuato circa 1.600 vendite di scarpe tramite una piattaforma digitale nell’arco di 2 anni (1.211 nell’anno 2008 e 418 nell’anno 2009). L’Agenzia delle Entrate aveva riclassificato tali operazioni come attività d’impresa, contestando l’omessa dichiarazione ai fini IRPEF e IVA.

La Corte ha accolto la tesi dell’Amministrazione, affermando che l’abitualità e la continuità delle vendite online sono elementi sufficienti a integrare l’esercizio d’impresa ai sensi dell’art. 55, TUIR, e dell’art. 4, D.P.R. n. 633/1972, anche in assenza di una struttura organizzata.

Ne discende che non serve un negozio virtuale strutturato o un magazzino dedicato; basta, infatti, la sistematicità delle operazioni per configurare un’attività imprenditoriale.

In tale contesto, la DAC7 e la sent. n. 7552/2025, sebbene nate in ambiti distinti, si integrano perfettamente: la Direttiva fornisce gli strumenti informativi e tecnologici per tracciare le operazioni digitali, mentre la Suprema Corte definisce i criteri sostanziali con cui quelle stesse operazioni possono essere considerate attività d’impresa.

Il risultato è un sistema in cui l’occultamento digitale diventa sempre più difficile:

  • le piattaforme segnalano i dati (ruolo attivo di compliance);
  • l’Agenzia delle Entrate incrocia i dati;
  • la giurisprudenza fornisce la base per riqualificare l’attività.

Ne deriva che il contribuente non deve solo dichiarare di “vendere da privato” perché il numero di operazioni, la continuità nel tempo e la presenza di un margine economico stabile possono portare alla riqualificazione del reddito ai fini IRPEF e all’assoggettamento a IVA.