La revocatoria dell’operazione di scissione
di Valerio SangiovanniL’atto di scissione implica l’assegnazione del patrimonio (o di una parte di esso) di una prima società a beneficio di una seconda società. L’operazione può così, astrattamente, danneggiare i creditori della prima società. La legge prevede un rimedio specifico (l’opposizione dei creditori) nonché la responsabilità solidale di tutte le società coinvolte nella scissione. Sono sufficientemente tutelati i creditori? La Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha stabilito che nulla vieta ai creditori di esercitare l’azione revocatoria, in alternativa rispetto al meccanismo dell’opposizione. E anche la previsione della responsabilità solidale delle società non impedisce di avviare l’azione revocatoria.
Inquadramento normativo
La scissione è una delle operazioni straordinarie previste dal Codice civile. Secondo la definizione offertane dalla legge: «con la scissione una società assegna l’intero suo patrimonio a più società, preesistenti o di nuova costituzione, o parte del suo patrimonio, in tal caso anche ad una sola società, e le relative azioni o quota ai suoi soci» (art. 2506, comma 1, c.c.).
L’assegnazione di patrimonio a una società diversa potrebbe pregiudicare i creditori della scissa, che viene svuotata di beni.
La giurisprudenza più recente, dopo l’intervento della Corte di Giustizia dell’Unione Europea[1], conferma che i creditori pregiudicati dalla scissione possono esperire un’azione revocatoria. Si può trattare di quella ordinaria oppure di quella concorsuale. Se l’azione revocatoria ha successo, si recupera il patrimonio che – con la scissione – è stato trasferito ad altra società. I creditori della società in liquidazione giudiziale, grazie al patrimonio recuperato, potranno essere soddisfatti in misura maggiore di quanto altrimenti avverrebbe[2].
La disciplina legislativa in tema di scissione è scarna, consistendo di pochi articoli (da 2506 a 2506-quater, c.c.). Si tratta, peraltro, di norme che rinviano ampiamente alle disposizioni sulla fusione. Fra le disposizioni in tema di fusione espressamente richiamate da quelle sulla scissione, vi è l’art. 2504-quater, c.c., sulla invalidità della fusione: «eseguite le iscrizioni dell’atto di fusione […] l’invalidità dell’atto di fusione non può essere pronunciata. Resta salvo il diritto al risarcimento del danno eventualmente spettante ai soci o ai terzi danneggiati dalla fusione».
Essendo l’art. 2504-quater (sulla fusione) espressamente richiamato dall’art. 2506-ter, comma 5, (sulla scissione), se ne ricava che, eseguite le iscrizioni dell’atto di scissione, l’invalidità dell’atto di scissione non può essere pronunciata. A questa situazione ci si riferisce con l’espressione di “intangibilità” o “irregredibilità” della fusione e della scissione. In altre parole, eventi così radicali come la fusione e la scissione, che determinano il venir meno oppure il sorgere di società (impattando così, per l’effetto, sulla posizione dei soci) devono – nella prospettiva del Legislatore – essere accompagnati da un alto livello di certezza del diritto. L’esigenza di stabilità si concretizza mediante l’affermazione della intangibilità delle operazioni, fermo rimanendo il diritto a ottenere il risarcimento del danno per chi (socio o terzo) lamenti un pregiudizio derivato dall’operazione. Viene insomma privilegiata la tutela risarcitoria rispetto a quella reale, anche in considerazione del fatto che gli atti di fusione e scissione possono interessare un numero elevato di soci e dunque di posizioni soggettive.
Per quanto riguarda le disposizioni in tema di revocatoria, esse sono collocate in parte nel Codice civile e in parte nel Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza (prima della riforma nella Legge fallimentare). All’azione revocatoria generale (art. 2901, c.c.) si aggiungono le azioni revocatorie concorsuali (artt. 163 ss., CCII).
La finalità dell’istituto della revocatoria è quella di tutelare il creditore, il quale potrebbe subire un danno per effetto di atti dispositivi di vario genere posti in essere dal debitore. Se è vero che «il debitore risponde dell’adempimento delle obbligazioni con tutti i suoi beni presenti e futuri» (art. 2740, comma 1, c.c.), in assenza dell’istituto della revocatoria, sarebbe facile per il debitore privarsi di beni sottraendoli alla garanzia patrimoniale posta dalla legge a tutela dei creditori.
Dato un certo patrimonio di una società in un dato momento (momento in cui avviene la scissione), un’operazione di scissione è idonea a ridurre detto patrimonio, nella misura in cui determinati attivi vengono trasferiti ad altra società. Secondo la stessa definizione di scissione (art. 2506, comma 1, c.c.), si ha l’assegnazione di tutto o parte del patrimonio ad altra società. La “assegnazione” di patrimonio è un trasferimento patrimoniale, in quanto gli attivi passano dalla prima alla seconda società. I creditori della società scissa non possono più rifarsi direttamente sul patrimonio della medesima, che è ormai uscito dalla prima società, salvo quanto prevede la disposizione speciale dell’art. 2506-quater, comma 3, c.c. (sulla responsabilità solidale di scissa e beneficiaria), che analizzeremo sotto.
L’intangibilità dell’atto di scissione
La questione principale è se il principio di irregredibilità della scissione impedisca anche di esperire l’azione revocatoria ordinaria e/o concorsuale. Vi parrebbe difatti essere un conflitto fra le disposizioni del diritto societario e quelle del diritto concorsuale: mentre il diritto societario impedisce contestazioni in merito alla scissione (ai sensi dell’art. 2504-quater, c.c., l’atto non può essere invalidato), il diritto concorsuale consente (al ricorrere, ovviamente, dei vari presupposti di legge fissati dagli artt. 163 ss., CCII) l’azione revocatoria.
Bisogna porsi domande in merito ai limiti che il diritto societario stabilisce alla possibilità di esperire l’azione revocatoria, la principale delle quali può essere così formulata: se l’atto di scissione non può essere dichiarato invalido (come stabilisce testualmente la legge), come può essere possibile revocare gli atti compiuti in base alla scissione?
Per rispondere a questa domanda, bisogna tornare all’analisi del testo della legge: l’art. 2504-quater, c.c., parla di «invalidità dell’atto di fusione» (leggi: “scissione” nel contesto in esame) mentre l’art. 163, CCII, stabilisce che: «sono privi di effetto […] gli atti a titolo gratuito». Devono essere evidenziate 2 differenze fra le disposizioni appena menzionate. Diverso è l’oggetto della contestazione: in caso di scissione si tratta di “atto di scissione” di per sé considerato, mentre nel caso di revocatoria si tratta di “atti a titolo gratuito” non meglio specificati; inoltre sono differenti i rimedi esperibili: mentre nell’ambito della scissione si parla di “invalidità”, nel contesto fallimentare si parla di “inefficacia”.
In caso di scissione, è intangibile “l’atto di scissione”. L’art. 2506-ter, comma 5, c.c., dichiara applicabile alla scissione l’art. 2504, c.c., in tema di fusione. Quest’ultima disposizione disciplina “l’atto di fusione” (per il nostro caso, leggi: “atto di scissione”). Orbene, la scissione deve risultare da atto pubblico (art. 2504, comma 1, c.c.). Ciò che non può essere invalidato è l’atto pubblico. In caso di revocatoria, invece, oggetto della medesima possono essere “atti” a titolo gratuito. Qui l’espressione è generica, non riferendosi ad alcuno specifico atto che debba rivestire una forma particolare. Ne deriva che l’atto revocabile può essere anche un atto diverso dall’atto di scissione, quale – ad esempio – una singola attribuzione patrimoniale verificatasi per effetto della scissione.
Provando a esprimere il concetto con altre parole, una volta che la scissione è stata celebrata con atto pubblico (e sono avvenute le iscrizioni nel Registro Imprese), la scissione è stata definitivamente realizzata e l’atto pubblico non può più essere invalidato. Ciò non significa peraltro che le attribuzioni patrimoniali effettuate nel contesto della scissione non possano essere sindacate. Definitività della scissione significa che, oltre alla società Alfa originariamente esistente, ora esiste anche la società Beta (cui è stato attribuito patrimonio di Alfa), e l’esistenza di Beta – con il corredo dei suoi soci – non può essere contestata. Tuttavia, possono essere oggetto di revocatoria i trasferimenti patrimoniali che la scissione ha determinato. Per comprendere meglio la distinzione, si immagini il seguente caso. Potrebbe capitare che in una scissione solo la metà oppure una piccola parte del patrimonio venga trasferito ad altra società; l’art. 2506, comma 1, c.c., sulle forme di scissione distingue espressamente fra i seguenti casi: l’assegnazione dell’intero patrimonio della società oppure l’assegnazione di solo una parte del patrimonio della società. Si supponga che il patrimonio della società scissa ammonti a 1.000.000 di euro, con debiti per 750.000 euro. Si immagini altresì che, per effetto della scissione, il patrimonio della scissa passi da 1.000.000 a 500.000 euro. In questo caso il patrimonio della scissa post-scissione non sarebbe più sufficiente per pagare i suoi debiti, ma – ciò nonostante – il Legislatore ritiene non invalidabile l’atto di scissione. Il creditore della scissa può allora esercitare azioni revocatorie finalizzate a recuperare dalla beneficiaria patrimonio sufficiente per il suo soddisfacimento.
Con riferimento ai diversi rimedi previsti dalle 2 disposizioni in esame (quella sulla scissione e quella sulla revocatoria), nel caso dell’atto di scissione, la legge prevede che non ne possa essere dichiarata la “invalidità”, mentre nel caso di revocatoria può essere dichiarata la “inefficacia” dell’atto. È possibile, nel contesto della scissione, che convivano il divieto di dichiarare l’invalidità con la possibilità di dichiarare l’inefficacia? Al quesito deve darsi risposta positiva, perché ciò che si contesta nell’ambito della revocatoria non è l’atto in sé (che rimane valido), ma sono gli effetti dell’atto (che vengono travolti dall’azione revocatoria). A seguito dell’azione revocatoria, l’atto di scissione rimane fermo, ma uno o più trasferimenti patrimoniali derivanti dalla scissione vengono dichiarati privi di effetti. Volendo esprimere il concetto con parole diverse, la revocatoria non tocca gli aspetti societari dell’operazione (che rimangono fermi), bensì tocca i trasferimenti che sono stati posti in essere in attuazione della scissione.
I rimedi alternativi alla revocatoria e l’intervento della Corte di Giustizia
Vanno poi menzionati i rimedi previsti dall’ordinamento specificamente per il caso di scissione (e fusione):
- l’opposizione dei creditori (art. 2503, c.c.);
- la possibilità di chiedere post-scissione il risarcimento del danno (art. 2504-quater, comma 2, c.c.);
- la responsabilità sopravvenuta di tutte le società partecipanti alla scissione (art. 2506-quater, comma 3, c.c.).
Il primo rimedio è quello della “opposizione dei creditori”, che è disciplinata dall’art. 2503, c.c., per la fusione (ed è richiamata espressamente dall’art. 2506-ter, comma 5, c.c., sulla scissione): «la fusione può essere attuata solo dopo sessanta giorni dall’ultima delle iscrizioni […] salvo che consti il consenso dei creditori delle società che vi partecipano anteriori all’iscrizione». Si potrebbe sostenere la tesi che la revocatoria non è consentita nell’ambito della scissione, in quanto i creditori sono già garantiti dal meccanismo della opposizione: se essi non si oppongono alla scissione, perdono il diritto a esercitare azioni diverse. Rispetto a questa considerazione si può peraltro osservare che, mentre l’opposizione riguarda solo crediti anteriori alla scissione, l’azione revocatoria può riguardare anche crediti sorti successivamente. Non si vede dunque, sotto questo profilo, per quale ragione l’esistenza del rimedio dell’opposizione debba impedire l’esercizio di un’azione revocatoria.
Il secondo rimedio previsto dal Legislatore nell’ambito della scissione consiste nella possibilità di ottenere il risarcimento del danno ai sensi dell’art. 2504-quater, comma 2, c.c., secondo cui «resta salvo il diritto al risarcimento del danno eventualmente spettante ai soci o ai terzi danneggiati dalla fusione» (la disposizione, come detto, si applica alla scissione in forza del richiamo espresso contenuto nell’art. 2506-ter, comma 5, c.c.). Si potrebbe sostenere la tesi che i creditori non possono esperire l’azione revocatoria, avendo già a disposizione la possibilità di chiedere il risarcimento del danno conseguente alla scissione. Il danno consiste nel fatto che è avvenuto un trasferimento patrimoniale dalla società scissa (depauperata) alla società beneficiaria (arricchita in modo corrispondente), che impedisce il soddisfacimento dei creditori della prima. L’argomento però è debole, perché – se si tratta di garantire i creditori – non si comprende perché non si debba permettere loro di esercitare anche (o in alternativa) l’azione revocatoria, oltre a quella di cui all’art. 2504-quater, comma 2, c.c. Per tacere del fatto che, se si giunge a una condanna al risarcimento del danno (sia esso della società scissa sia esso della società beneficiaria), vi è anche in questo caso una sorta di trasferimento dai patrimoni delle società a quello dei creditori. Dal punto di vista economico, il risultato dell’esperimento positivo di una revocatoria o di una condanna al risarcimento del danno è simile, e non si vede dunque ragione per reputare vietata la revocatoria.
Il terzo rimedio di cui dispongono i creditori risulta dalla previsione secondo cui: «ciascuna società è solidalmente responsabile, nei limiti del valore effettivo del patrimonio netto ad essa assegnato o rimasto, dei debiti della società scissa non soddisfatti dalla società cui fanno carico» (art. 2506-quater, comma 3, c.c.).
Si potrebbe allora sostenere la tesi che la revocatoria è inutile nell’ambito della scissione, potendo i creditori della scissa rifarsi sul patrimonio della beneficiaria. La disposizione consente ai creditori della società scissa di agire in giudizio non solo nei confronti della società scissa (debitore originario), ma anche nei confronti della società beneficiaria (debitore sopravvenuto). Dal momento che il patrimonio prima della scissione è identico al patrimonio post-scissione (patrimonio che è stato solo “distribuito” fra più società in esecuzione della scissione), l’art. 2506-quater, comma 3, c.c., è idoneo a impedire un depauperamento dei creditori pre-scissione. Si tratta, in effetti, dell’argomento di sostanza più convincente per poter affermare l’inammissibilità della revocatoria nell’ambito della scissione. Se la finalità della revocatoria è quella di tutelare il creditore impedendo al debitore di spogliarsi del proprio patrimonio, questa esigenza non sussiste se il destinatario del patrimonio (la società beneficiaria) risponde con la società scissa. Tuttavia, anche quest’ultimo argomento non pare decisivo in quanto è ben possibile che il creditore possa essere tutelato da una pluralità di rimedi, senza che l’esistenza dell’uno debba necessariamente rendere inammissibile l’altro. Il fatto che il patrimonio della società scissa venga ripartito fra più soggetti all’esito della scissione, i quali sono corresponsabili dei debiti pregressi, non rappresenta di per sé un ostacolo all’esperibilità del rimedio generale della revocatoria. Si tenga altresì presente che la presenza di 2 (o più) società responsabili post-scissione complica l’attività di recupero del credito da parte del creditore della società scissa. E si potrebbe dunque sostenere la tesi che, essendo il creditore libero di scegliere il rimedio che gli pare più semplice o più conveniente, egli possa decidere anche di esperire solo l’azione revocatoria nei confronti della società scissa.
La questione della revocabilità degli atti di scissione, dopo contrasti giurisprudenziali, è stata risolta dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea nella sopra menzionata sentenza del gennaio 2020. La competenza della Corte di Giustizia deriva dal fatto che la normativa in materia di scissioni è comunitaria[3]. Nella sentenza del gennaio 2020, si statuisce che la Direttiva comunitaria sulle scissioni non osta a che, dopo la realizzazione di una scissione, i creditori della società scissa, i cui diritti siano anteriori a tale scissione e che non abbiano fatto uso degli strumenti di tutela dei creditori previsti dalla normativa nazionale, possano intentare un’azione pauliana al fine di far dichiarare la scissione inefficace nei loro confronti e di proporre azioni esecutive o conservative sui beni trasferiti alla società di nuova costituzione. Come si può notare, la Corte di Giustizia ritiene gli strumenti classici di tutela dei creditori contro la scissione (opposizione dei creditori, richiesta di risarcimento del danno e comunque responsabilità di tutte le società coinvolte) solo un’alternativa rispetto all’azione revocatoria. Se non sono stati usati questi strumenti, il creditore può esercitare un’azione revocatoria. Nella medesima sentenza, la Corte di Giustizia ha statuito che la Direttiva comunitaria che prevede il regime della nullità della scissione non osta all’introduzione, dopo la realizzazione di una scissione, da parte di creditori della società scissa, di un’azione pauliana che non intacchi la validità della scissione, ma soltanto consenta di rendere quest’ultima inopponibile a tali creditori. La Corte ritiene insomma che si tratti di 2 profili diversi: l’atto di scissione rimane valido, ma ciò non impedisce che i creditori possano esperire un’azione revocatoria.
La giurisprudenza italiana successiva alla sentenza europea
Si deve dunque ritenere, oggi, che contro l’atto di scissione sia consentito esperire l’azione revocatoria. A seguito della sentenza della Corte di Giustizia, ci sono state alcune pronunce della giurisprudenza italiana che hanno – ovviamente – confermato i principi statuiti a livello europeo. Si hanno sia sentenze di legittimità che di merito.
A livello di giurisprudenza di legittimità, il principio della revocabilità degli atti di scissione è stato confermato, molto recentemente, dalla Corte di Cassazione[4]. Sulla base di un atto di scissione vengono realizzati alcuni trasferimenti (un immobile, alcuni autoveicoli e alcune partecipazioni azionarie) da Alfa a Beta. Subentrato il fallimento della società Alfa, il curatore di Alfa esercita l’azione revocatoria contro Beta al fine di ottenere la restituzione dei beni trasferiti a Beta. L’azione revocatoria viene accolta. La Suprema Corte ricorda che la scissione parziale configura un’operazione straordinaria consistente nel trasferimento di parte del patrimonio societario a una o più società, contro l’assegnazione delle azioni o delle quote di queste ultime ai soci della società scissa. La scissione è una fattispecie traslativa, che comporta l’acquisizione in capo alla beneficiaria di valori patrimoniali prima non presenti nel suo patrimonio. La revocatoria ordinaria dell’atto di scissione, continua la Cassazione, è ammissibile, poiché mira a ottenere l’inefficacia relativa di tale atto, così da renderlo inopponibile al solo creditore pregiudicato (al contrario di ciò che si verifica nell’opposizione dei creditori sociali prevista dall’art. 2503, c.c., che è finalizzata a farne valere l’invalidità). La tutela dei creditori, a fronte di atti societari, si estende sino a ricomprendervi qualsiasi attribuzione patrimoniale ivi contenuta. L’azione del curatore ex art. 66, l.f., può essere promossa anche in concorso con l’opposizione preventiva dei creditori sociali ex art. 2503, c.c., perché la prima mira alla inefficacia/inopponibilità dell’atto, la seconda alla sua invalidità.
Nella giurisprudenza di merito si può segnalare un recentissimo intervento del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere[5]. Alfa S.r.l. delibera la scissione parziale a favore di Beta S.r.l., società di nuova costituzione. Determinati beni vengono trasferiti da Alfa a Beta. Un creditore vanta un credito di 409.468 euro nei confronti di Alfa ed esercita un’azione revocatoria della scissione, citando in giudizio sia Alfa che Beta. L’obiettivo dell’azione è quello di aggredire i beni che sono stati trasferiti da Alfa a Beta in esecuzione della scissione. Il giudice sammaritano dichiara esperibile l’azione revocatoria ai sensi dell’art. 2901, c.c., nei confronti degli atti di disposizione patrimoniale contenuti in una scissione societaria nonostante i creditori dispongano del rimedio dell’opposizione alla scissione. E ciò in ragione della diversità dei 2 rimedi: l’opposizione alla scissione impedisce l’esistenza dell’atto pregiudizievole, mentre la revocatoria lo rende inefficace ex post. Nel merito, l’azione revocatoria viene però rigettata. Secondo il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere mancano i requisiti previsti dall’art. 2901, c.c.. Emerge che, al momento della scissione, il credito ammontava a soli 5.563 euro; inoltre, dal bilancio prodotto in giudizio, risulta una consistenza patrimoniale idonea a coprire questo debito. Non sussisteva insomma, al momento della scissione, uno squilibrio patrimoniale tale da non consentire di far fronte all’esiguo debito allora esistente.
Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione sulla competenza delle Sezioni specializzate
Molto di recente, sulla questione della revocabilità delle operazioni di scissione, sono intervenute le Sezioni Unite della Corte di Cassazione[6]. Se viene esercitata un’azione revocatoria contro un atto di scissione, si pone la questione di individuare il giudice competente: quello per la revocatoria oppure quello per le controversie societarie?
Le Sezioni Unite statuiscono che l’azione revocatoria ordinaria ex art. 2901, c.c., dell’atto di scissione societaria, diretta alla declaratoria di inopponibilità del negozio al creditore, è devoluta alla competenza della Sezione specializzata in materia di impresa, poiché, pur non introducendo una controversia relativa a un rapporto tra la società, i soci e gli organi sociali, e pur non diretta a incidere (come l’opposizione) sulla scissione, privandola di efficacia erga omnes, investe un tipico atto dell’organizzazione societaria, che, in quanto produttivo di un pregiudizio per la garanzia patrimoniale del creditore e in quanto posto in essere in presenza delle condizioni soggettive previste dal medesimo articolo, entra a far parte della causa petendi dell’azione proposta, qualificando il corrispondente giudizio come relativo a un rapporto societario.
La vicenda giunta all’attenzione delle Sezioni Unite origina da una complessa causa nella quale era stata chiesta in via principale la declaratoria di nullità di alcuni atti di scissione societaria e in via subordinata la revocatoria dei medesimi atti di scissione. Il Tribunale di Parma aveva rigettato le domande dirette alla declaratoria di nullità di alcuni atti di scissione societaria. Con la stessa pronuncia il giudice parmense aveva disposto la separazione delle cause relative alle domande subordinate aventi a oggetto la revocatoria degli atti di scissione e dichiarato la propria incompetenza, statuendo che dovevano essere trattate e decise davanti alla Sezione specializzata per l’impresa del Tribunale di Bologna. Il Tribunale di Bologna però, a sua volta, si era dichiarato incompetente a decidere sulle domande di revocatoria e aveva formulato istanza di regolamento di competenza. La questione giunge dunque davanti alla Corte di Cassazione, la quale – come appena visto – ritiene che la tematica attenga al diritto societario, e la competenza spetti pertanto alla Sezione specializzata per l’impresa.
Vi è, tuttavia, nel caso di specie una particolarità: le società oggetto di scissione erano successivamente state dichiarate fallite. Di conseguenza, la competenza della Sezione specializzata per le imprese entra in contrasto con la competenza del Tribunale concorsuale. La Corte di Cassazione stabilisce che l’azione revocatoria ex art. 66, l.f., dell’atto di scissione societaria è devoluta alla competenza del Tribunale fallimentare, la quale prevale su quella del Tribunale delle imprese.
[1] Corte di Giustizia UE, 30 gennaio 2020.
[2] Sulla revocatoria della scissione cfr. B. Dalla Verità, “La scissione societaria: funzioni, possibili profili patologici e assoggettabilità all’azione revocatoria”, in Diritto fallimentare e delle società commerciali, n. 3-4/2023, I, pag. 566 ss.; M. Natale, “La revocatoria dell’assegnazione patrimoniale nella scissione”, in Banca borsa e titoli di credito, n. 6/2023, I, pag. 849 ss.; G.A.M. Trimarchi, “Contributo all’analisi dell’assoggettabilità della scissione, anzi delle scissioni, ad azione revocatoria (anzi, ad azioni revocatorie)”, in Rivista di diritto dell’impresa, n. 1/2025, pag. 89 ss.
[3] Direttiva 82/891/CEE del Consiglio, 17 dicembre 1982, relativa alle scissioni delle società per azioni. Questa Direttiva è stata nel frattempo abrogata, ma la vicenda trattata dalla Corte di Giustizia è anteriore alla sua abrogazione, e si applica dunque la Direttiva del 1982.
[4] Cass. n. 12357/2025.
[5] “Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, 9 febbraio 2025”, in dirittopratico.it.
[6] Cass. n. 5089/2025.
Si segnala che l’articolo è tratto da “La rivista delle operazioni straordinarie”.


