7 Novembre 2025

La lunga ombra dell’Omnibus: il rischio di regressione nella semplificazione della sostenibilità europea

di Fabio Sartori
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La scheda di FISCOPRATICO

La decisione del Parlamento Europeo di non convalidare il pacchetto “Omnibus” segna un passaggio di particolare rilievo nel processo di costruzione del diritto della sostenibilità d’impresa. Il mancato via libera al mandato negoziale della Commissione giuridica (JURI), a metà ottobre 2025, ha interrotto, almeno temporaneamente, il percorso di revisione promosso dalla Commissione Europea, che mirava a semplificare il quadro regolatorio in materia di ESG e a ridurre gli oneri amministrativi per le imprese.

L’iniziativa “Omnibus”, presentata come un intervento tecnico di allineamento normativo, si inseriva nel più ampio disegno di revisione del sistema di rendicontazione e di due diligence introdotto con la Corporate Sustainability Reporting Directive (CSRD) e la Corporate Sustainability Due Diligence Directive (CSDDD). L’obiettivo dichiarato era quello di rendere la disciplina più proporzionata alle dimensioni aziendali, ma nella sostanza il progetto avrebbe escluso una larga parte delle PMI dagli obblighi di disclosure e di responsabilità nella catena del valore. Ciò avrebbe prodotto un effetto di polarizzazione del sistema, concentrando gli adempimenti di sostenibilità nelle imprese di maggiore scala e attenuando l’efficacia dell’impianto regolatorio come strumento di equità e trasparenza.

Il relatore Jörgen Warborn ha difeso la proposta in chiave economico-competitiva, sostenendo che gli obblighi ESG rischiano di tradursi in un freno alla crescita delle piccole imprese europee. Tuttavia, numerose voci critiche — sia in ambito parlamentare che nella società civile — hanno espresso preoccupazione per il carattere regressivo dell’intervento. Il WWF European Policy Office, in un comunicato del 13 ottobre 2025, ha denunciato che le modifiche introdotte nella versione finale del rapporto JURI avrebbero svuotato di efficacia la direttiva sulla due diligence, eliminando la responsabilità civile delle imprese per violazioni dei diritti umani e danni ambientali. Tale esclusione, osserva l’organizzazione, indebolirebbe drasticamente l’accesso alla giustizia per le vittime e ridurrebbe il principio di responsabilità a un mero esercizio formale di facciata (box-ticking compliance).

La critica solleva una questione di fondo: se la sostenibilità d’impresa debba restare un concetto volontaristico o divenire un obbligo giuridico dotato di effettività. La proposta “Omnibus”, riducendo l’ambito di applicazione della CSDDD alle imprese con oltre 5.000 dipendenti e fatturato globale superiore a 1,5 miliardi di euro, avrebbe ristretto in modo sensibile il raggio di tutela previsto originariamente, allontanando l’Unione dall’idea di un diritto comune della responsabilità d’impresa.

Sul piano politico, il voto in plenaria del Parlamento Europeo ha rappresentato un banco di prova cruciale. Solo 9 voti di scarto hanno separato l’approvazione del pacchetto dal suo rigetto, segnalando la profonda divisione tra le forze favorevoli a una riduzione dell’intervento pubblico nella sfera economica e quelle che difendono la coerenza del Green Deal, come asse portante dell’integrazione europea. Un margine tanto sottile, ma di grande valore simbolico, ha avuto l’effetto di riaprire un dibattito strutturale: quale debba essere la funzione del diritto europeo di fronte alle transizioni ecologica e sociale, e fino a che punto la semplificazione normativa possa conciliarsi con la salvaguardia degli obiettivi ambientali e dei diritti fondamentali.

Il confronto ha evidenziato 2 linee di frattura principali. La prima riguarda la natura vincolante della responsabilità civile: la sua esclusione dal testo di compromesso, denunciata da ONG e accademici, rischia di privare il sistema di un meccanismo effettivo di enforcement. In assenza di sanzioni e rimedi giurisdizionali, la due diligence rischia di ridursi a dichiarazioni programmatiche prive di forza cogente. La seconda frattura concerne la dimensione della trasparenza climatica: la rimozione dei piani di transizione ambientale dalle previsioni obbligatorie, come segnalato dal WWF, rappresenta un arretramento nella costruzione di una responsabilità climatica d’impresa coerente con gli obiettivi dell’Accordo di Parigi.

In parallelo, il voto JURI ha evidenziato la complessità delle dinamiche politiche interne all’Europarlamento. Le ultime trattative si sono risolte in un delicato equilibrio fra esigenze di stabilità e spinte contrapposte: le forze progressiste, pur consapevoli dell’insoddisfazione verso il testo finale, hanno accettato un compromesso di “contenimento del danno” per evitare un accordo ancora più regressivo sostenuto dai gruppi conservatori. Questo gioco di equilibri ha prodotto un effetto paradossale: la ricerca di stabilità politica ha finito per indebolire la coerenza del progetto normativo, ponendo in secondo piano la dimensione etica e sociale della sostenibilità.

Le critiche delle organizzazioni ambientaliste si inseriscono in una riflessione più ampia sul metodo legislativo europeo. L’attenzione crescente per la competitività industriale non può giustificare una riduzione del perimetro dei diritti collettivi. La sostenibilità non è un elemento decorativo dell’economia di mercato, ma un principio ordinante del diritto dell’Unione Europea, inscritto all’art. 3 del Trattato UE e rafforzato dal principio di proporzionalità applicativa. Semplificare non significa ridurre l’ambizione, ma renderla accessibile e coerente.

Il blocco dell’Omnibus deve dunque essere letto non come una battuta d’arresto, ma come un segnale di resistenza istituzionale contro la tentazione di una sostenibilità di facciata. Esso rimette al centro la dialettica fra efficienza e responsabilità, ricordando che la competitività europea non può essere perseguita a scapito della giustizia ambientale e sociale. Il diritto dell’Unione, nella sua più recente evoluzione, ha progressivamente superato la logica del mercato autoregolato per riconoscere all’impresa un ruolo attivo nella tutela dei beni comuni. Le direttive CSRD e CSDDD sono la manifestazione di questo passaggio, poiché introducono obblighi di vigilanza, trasparenza e controllo sugli impatti ambientali e umani lungo l’intera catena del valore, trasformando ciò che era soft law in dovere giuridico.

Nel medio periodo, l’esito della vicenda avrà implicazioni decisive. Se prevarrà la linea della riduzione degli obblighi, il rischio sarà quello di un’Europa frammentata, in cui la sostenibilità diventa una scelta reputazionale e non un presupposto giuridico della legittimazione d’impresa. Se, invece, si riaffermerà una visione più esigente, capace di tenere insieme crescita, inclusione e responsabilità, l’Unione potrà consolidare un modello normativo avanzato, fondato su una concezione di impresa come civis oeconomicus e non come mero operatore di mercato.

La lezione politica che emerge dall’“effetto Omnibus” è chiara: il diritto europeo deve continuare a svolgere la funzione di architettura dell’interesse collettivo, capace di bilanciare la libertà economica con i limiti derivanti dalla tutela dell’ambiente e dei diritti umani. La sostenibilità non può essere tradotta in semplificazione aritmetica o in esercizio di conformità burocratica, ma va intesa come principio sistemico che integra efficienza, solidarietà e giustizia intergenerazionale.

Solo in questa prospettiva la rendicontazione e la due diligence potranno esprimere la loro piena valenza civilizzatrice: non un onere formale imposto alle imprese, ma un segno tangibile di maturità giuridica ed economica, in grado di rafforzare la legittimazione dell’impresa nel nuovo patto europeo tra economia, ambiente e società.