28 Novembre 2025

Interventi del DDL bilancio sulla soglia di partecipazione alle società di capitali

di Luciano SorgatoPaolo Meneghetti - Comitato Scientifico Master Breve 365
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La commisurazione del 10% alle partecipazioni al capitale, anziché agli utili, rischia di generare evidenti incongruenze fiscali.

L’art. 18 della manovra di bilancio 2026, all’art. 59, comma 1, TUIR, introduce la tassazione piena degli utili relativi a partecipazioni inferiori al 10% del capitale sociale della partecipata (detenuto direttamente o indirettamente per il tramite di società controllate ai sensi dell’art. 2359, comma 1, n. 1), c.c., tenendo conto dell’eventuale demoltiplicazione prodotta dalla catena partecipativa di controllo). Con ogni probabilità, con l’iter di approvazione tale soglia verrà ridotta al 5%, ma i problemi che di seguito vengono esposti rimangono inalterati.

Fermo rimanendo la piena contrarietà dell’introdotta tassazione rispetto alla ratio dell’art. 59 che, come noto, al pari dell’art. 89, TUIR, risponde all’obiettivo della Riforma Tremonti di spostare il perno impositivo dai soci alla società, in tale sede si vuole esaminare la portata normativa dell’inciso «utili relativi a partecipazioni inferiori al 10% del capitale sociale di sottoscrizione». A tale fine, va considerato che dalla detenzione di una partecipazione derivano i c.d. diritti sociali nella doppia articolazione di diritti giuridici e diritti economici (che includono anche il diritto agli utili). Nella S.r.l. la regola di governo generale dell’entità dei diritti spettanti ad ogni socio è fissata dall’art. 2468, comma 2, c.c., a mente del quale, salvo la specifica deroga del comma 3 : «i diritti sociali spettano ai soci in misura proporzionale alla partecipazione da ciascuno posseduta. Se l’atto costitutivo non dispone diversamente, le partecipazioni dei soci sono determinate in misura proporzionale al conferimento».

Trattasi manifestatamente di una norma suppletiva che ammette l’ingerenza statutaria dei soci, tanto che per la dottrina assume significato pregnante la distinzione tra “quota” e “partecipazione ai diritti sociali”, dove la quota, da intendere come frazione del capitale sociale di sottoscrizione, attribuita a ciascun socio può, su base negoziale, non coincidere con la misura della relativa partecipazione ai diritti sociali. In altri termini, l’art. 2468, comma 2, detta la regola base della c.d. doppia proporzionalità:

  • i diritti spettano ai soci in misura proporzionale alla partecipazione da ognuno posseduta;
  • a sua volta la partecipazione è determinata in “misura proporzionale al conferimento”.

Tale regola generale può, però, essere derogata su impulso negoziale dei soci, per cui la partecipazione agli utili può venire dissociata dall’indicata regola della doppia proporzionalità e seguire regole diverse (con il solo obbligo di non contravvenire al c.d. Patto Leonino). Inoltre, il citato comma 2 dell’art 2468, c.c., salvaguarda la portata prescrittiva del comma 3, a mente del quale: «Resta salva la possibilità che l’atto costitutivo preveda l’attribuzione a singoli soci di particolari diritti riguardanti l’amministrazione della società e la distribuzione degli utili».

Da tale previsione viene fatta derivare la possibilità di una differenziazione in positivo di tali diritti sociali, legata alla persona dei soci e non alle quote di cui sono titolari. Con specifico riguardo ai particolari diritti inerenti “la distribuzione degli utili” è opinione comune in dottrina (la quale la fa derivare da un passo della Relazione al decreto di Riforma) che essa possa riguardare anche il quantum degli utili spettanti ai soci. Per autorevole dottrina in materia (G. Zanarone): «L’attribuzione deve avere ad oggetto “particolari diritti”, dove per particolari, in contrapposizione a generali, devono intendersi diritti diversi da quelli normalmente spettanti in base alla partecipazione: diversi quantitativamente (si pensi ad un socio cui venga attribuita una percentuale di utili più che proporzionale rispetto alla propria partecipazione) …».

Rappresentato, quindi, che la partecipazione ritrae, solo come regola generale, la misura dei diritti sociali dalla consistenza del conferimento e che, quindi, su base negoziale i soci, in virtù dell’ammessa ampia autonomia statutaria di governo del documento costitutivo, possono deviare da tale corrispondenza, convenendo differenti opzioni di commisurazione di tali diritti, nel caso alla persona del socio vengano attribuiti diritti inerenti alla distribuzione degli utili diversi da quelli correlabili alla portata del conferimento, come si deve fiscalmente assumere tale deviazione con riguardo all’espressione legislativa: «utili relativi a partecipazioni non superiori al 10% del capitale sociale della partecipata». Un esempio può agevolare la comprensione della questione. Se, ad esempio, a un socio che detiene una partecipazione di sottoscrizione del 10% viene accordato un diritto di partecipazione agli utili del 60% o, viceversa, se a un socio con una partecipazione di sottoscrizione del 70% viene attribuita una partecipazione agli utili del 10%, tali misure di diritto agli utili assumono rilevanza ai fini della nuova portata della norma?

La lettera normativa, nel raccordare l’obbligo impositivo pieno alle partecipazioni non superiori al 10% del capitale sociale detenuto direttamente e indirettamente, appare connettersi alla quota di partecipazione identificata nelle sue ordinarie prerogative di unitarietà e indivisibilità, sulla base, quindi, di un nesso di raccordo oggettivo, del tutto dissociato dai diritti che nella commisurazione a regime promanano dalla quota e dal relativo conferimento. Sul piano testuale, deviazioni letterali non appaiono possibili, dal momento che la detenzione della partecipazione al capitale slega i diritti definiti statutariamente e connessi alla persona del socio, a remunerazione, ad esempio, delle sue qualità personali, di cui si avvantaggia tutto il sodalizio associativo o per altri motivi, che andrebbero reputati come insindacabili dei soci. In tale caso, si deve ammettere l’incongruenza degli effetti fiscali, dal momento che, tornando agli esempi proposti, il socio con una partecipazione di sottoscrizione del 10%, a fronte di un diritto agli utili del 60%, subisce il nuovo aggravio fiscale pieno, mentre nell’indicato caso inverso del socio che a fronte di una partecipazione del 70% gode di un diritto agli utili del 10% non subisce alcun aggravio impositivo aggiuntivo. La soluzione, quindi, che appare essere più congrua, è quella che connette il parametro di riferimento agli utili di partecipazione e non alla quota di partecipazione, in quanto mentre il primo (la commisurazione degli utili) è un parametro che include anche il regolamento intersoggettivo dei soci, configurandosi, quindi, come definitivo, il secondo, invece, si raccorda a uno stadio legale a regime, non inclusivo dell’accordo statutario dei soci.

Ovviamente, in conclusione, si sottolinea la manifesta contrarietà della novella alla ratio dell’art. 59, TUIR, e del c.d. regime PEX. La norma, fermo rimanendo che, per chi scrive, con l’obbligo impositivo non si possono perseguire scopi che non consentano di osservare le prerogative della capacità contributiva (art. 53, Costituzione), introduce un regime fiscale più gravoso per gli investimenti partecipativi meno redditizi (sotto la soglia del 10%) e premia fiscalmente gli investimenti più consistenti, che non sempre, peraltro, consentono di intravedervi un possesso partecipativo di natura imprenditoriale, con ingerenza strategica nelle decisioni di mercato. Il possesso, ad esempio, di una partecipazione del 15% non immette (soprattutto nelle società chiuse) il socio nelle strategie decisorie della società, per cui la soglia legislativamente individuata non è nella condizione di rassicurare la distinzione tra l’investimento di natura finanziaria e l’investimento di natura produttivo-imprenditoriale. La domanda non eludibile è, quindi, sotto il profilo costituzionale della capacità contributiva, per quale ragione l’investimento più dimesso (che potrebbe anche costituire l’unica forma di sostentamento economico del contribuente) può subire legittimamente una tassazione maggiore?

La Corte Costituzionale ha già nel passato consolidato l’insegnamento che quando una norma viene eterogeneamente incapsulata in un corredo normativo coordinato da una ratio rispondente a definite logiche impositive, la mancata intersezione conciliativa della norma con il complessivo elaborato normativo di riferimento, difetta di ragionevolezza e urta con l’art. 3, Costituzione, rimanendone destrutturata sul piano degli effetti. Ciò è avvenuto per la norma che intentò di coniugare l’IRPEF (imposta pensata per la tassazione del monte reddituale di una sola persona fisica) con il cumulo dei redditi del nucleo della famiglia (Corte Costituzionale, sent. n. 179/1976) e con l’ILOR (imposta finalizzata a perseguire la c.d. funzione di discriminazione qualitativa dei redditi) applicata ai professionisti (Corte Costituzionale, sent. n. 42/1980). Nel caso in esame, il Legislatore immette nel regime PEX una norma che nello sterilizzare gli effetti del regime stesso in ordine alle partecipazioni sotto il 10% (peraltro in modo parcellizzato e discriminante tra dividendi e plusvalenze) si erge ad esempio didattico di irragionevolezza fiscale.

L’auspicio principale, quindi, per tutte le ragioni espresse, non è quello di individuare l’indicato più appropriato parametro di commisurazione del 10%, ma è quello che una tale norma venga archiviata.