19 Dicembre 2025

Indeducibilità dell’IVA indetraibile relativa a operazioni inesistenti

di Marco Peirolo
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Con l’ord. n. 26340/2025, la Corte di Cassazione ha affermato che l’IVA non ammessa in detrazione in quanto derivante da operazioni soggettivamente inesistenti non è deducibile ai fini del reddito d’impresa, «non essendo l’onere in parola strettamente rappresentativo di un fattore produttivo dell’attività del contribuente medesimo».

 

Descrizione del caso

In data 30 settembre 2013, la società contribuente ha inviato il Modello UNICO per l’anno 2012, a cui ha fatto seguito, in data 27 dicembre 2013, l’invio di una dichiarazione integrativa per il medesimo anno, mediante il quale è stato richiesto il rimborso a titolo sia di IRAP che di IRES.

Con tale dichiarazione integrativa, la società ha ridotto l’ammontare delle imposte indeducibili nel presupposto della piena deducibilità della maggiore IVA versata all’Erario, a seguito del perfezionamento della procedura di accertamento con adesione, in relazione agli avvisi di accertamento IVA notificati alla società (per gli anni 2007, 2008 e 2009) relativi a operazioni soggettivamente inesistenti. Gli avvisi di accertamento in questione riguardavano fatture per compensi erogati dalla società a cooperative di lavoro asseritamente impiegate nel rifornimento dei distributori automatici di alimenti gestiti dalla società stessa e nel prelievo dei relativi incassi, rivelatesi essere, in realtà, entità fittizie. Tali fatture erano state poi utilizzate dalla società con la consapevolezza del carattere fraudolento dell’operazione.

 

Riflessi IVA delle operazioni inesistenti

L’art. 203, Direttiva 2006/112/CE, confermando la previsione dell’art. 21, par. 1, lett. c), dell’abrogata Sesta Direttiva (CEE), dispone che «l’IVA è dovuta da chiunque indichi tale imposta in una fattura».

La norma, finalizzata all’eliminazione del rischio di perdita di gettito fiscale, che si verifica se il destinatario del documento esercita la detrazione dell’imposta addebitata in fattura, è stata recepita nella legislazione nazionale per mezzo dell’art. 21, comma 7, D.P.R. n. 633/1972.

Dal 1° gennaio 2016[1], per effetto della riformulazione dell’art. 21, comma 7, D.P.R. n. 633/1972, introdotta dall’art. 31, comma 1, D.Lgs. n. 158/2015, è stabilito che, «se il cedente o prestatore emette fattura per operazioni inesistenti, ovvero se indica nella fattura i corrispettivi delle operazioni o le imposte relative in misura superiore a quella reale, l’imposta è dovuta per l’intero ammontare indicato o corrispondente alle indicazioni della fattura».

La nuova disposizione limita gli effetti del principio di cartolarità dell’IVA alla sfera del cedente/prestatore, con ciò mettendo in luce – così come evidenziato dalla Relazione illustrativa al citato D.Lgs. n. 158/2015 – che la modifica è stata introdotta per «rendere chiaro che la relativa prescrizione non riguarda le ipotesi di operazioni soggette a reverse charge», caratterizzate dalla circostanza che il debitore dell’imposta è il cessionario/committente in luogo del cedente/prestatore.

Risulta, pertanto, esclusa la possibilità di pretendere nei confronti del destinatario della fattura il pagamento dell’IVA relativa a una operazione inesistente rientrante nel regime di inversione contabile[2].

 

Rettifica dell’IVA indebitamente fatturata

Come anticipato, l’art. 21, comma 7, D.P.R. n. 633/1972, corrispondente all’art. 203, Direttiva 2006/112/CE, è finalizzato all’eliminazione del rischio di perdita di gettito fiscale, che potrebbe subire l’Amministrazione finanziaria a seguito dell’esercizio del diritto di detrazione da parte del cliente.

È vero, infatti, che la detrazione si esercita in relazione alle operazioni imponibili, così come può desumersi dall’art. 168, Direttiva 2006/112/CE e che la detrazione non si estende all’IVA dovuta esclusivamente per il fatto di essere indicata in fattura[3]. Tuttavia, il rischio di perdita di gettito fiscale non risulta, in via di principio, eliminato completamente finché il destinatario della fattura che contenga l’addebito dell’imposta non dovuta possa utilizzare il suddetto documento ai fini della detrazione. Sotto questo profilo, infatti, l’art. 178, par. 1, lett. a), Direttiva 2006/112/CE, dispone che, per esercitare la detrazione, è necessario essere in possesso di una fattura formalmente regolare, cioè dotata dei requisiti che ne definiscono il contenuto cartolare.

Va da sé, secondo i giudici comunitari, che al fornitore deve essere riconosciuta la possibilità di ottenere la restituzione dell’imposta versata se il cliente non ha detratto l’imposta addebitata nella fattura originaria o, in caso contrario, abbia già provveduto alla relativa rettifica[4].

Nella situazione considerata, in cui risulta eliminato completamente il rischio di perdita di entrate fiscali, è stata ritenuta applicabile la procedura di variazione, in quanto «il principio della neutralità dell’IVA richiede che l’IVA indebitamente fatturata possa essere regolarizzata, senza che una tale regolarizzazione possa essere subordinata dagli Stati membri alla buona fede di chi ha emesso tale fattura»[5].

In definitiva, le operazioni inesistenti, anche ove caratterizzate dal dolo specifico di evasione, dovrebbero consentire al cedente/prestatore di recuperare l’imposta addebitata in fattura se il cessionario/committente non l’ha portata in detrazione o, in caso contrario, se abbia provveduto alla rettifica.

La questione è ripresa dalla Corte di Giustizia nella sentenza di cui alla causa C-712/17 dell’8 maggio 2019 (EN.SA.), ove si osserva, innanzi tutto, che si tratta di esaminare se il debito d’imposta debba, in ogni caso, poter essere rettificato ove non si sia di fatto verificato alcun rischio di perdita del gettito fiscale.

In questo contesto, osserva la Corte, per garantire la neutralità dell’IVA, spetta agli Stati membri contemplare, nel rispettivo ordinamento giuridico interno, la possibilità di rettificare ogni imposta indebitamente fatturata, purché chi ha emesso la fattura dimostri la propria buona fede.

Inoltre, quando colui che ha emesso la fattura ha, in tempo utile, eliminato completamente il rischio di perdita di gettito fiscale, il principio di neutralità dell’IVA impone che l’IVA indebitamente fatturata possa essere rettificata, senza che gli Stati membri possano subordinare una siffatta regolarizzazione alla buona fede del soggetto che ha emesso la fattura. Tale rettifica, inoltre, non può dipendere dal potere discrezionale dell’Amministrazione finanziaria.

Peraltro, i provvedimenti che gli Stati membri adottano per assicurare l’esatta riscossione dell’imposta ed evitare frodi non devono eccedere quanto necessario a tal fine. Essi non possono, pertanto, essere applicati in modo tale da mettere in discussione la neutralità dell’IVA, che costituisce un principio fondamentale del sistema comune dell’IVA. Ciò vale, in particolare, per una fattispecie di responsabilità oggettiva astratta.

Ne consegue che, qualora il rimborso dell’IVA divenga impossibile o eccessivamente difficile in base alle condizioni alle quali le domande di rimborso possono essere presentate, i suddetti principi possono imporre che gli Stati membri prevedano gli strumenti e le modalità procedurali necessari per consentire al soggetto passivo di recuperare l’imposta indebitamente fatturata.

Ad analoghe conclusioni è giunta la giurisprudenza italiana con un orientamento che può considerarsi consolidato.

Nella sent. n. 4020/2012, per esempio, i giudici di legittimità hanno richiamato la posizione espressa dalla Corte di Giustizia nella causa C-454/98, osservando che, sebbene il principio della neutralità dell’IVA richieda che l’imposta indebitamente fatturata possa essere regolarizzata – senza che tale regolarizzazione possa essere subordinata alla buona fede di colui che ha emesso la fattura, o dipendere dal potere discrezionale dell’Amministrazione finanziaria – detta regolarizzazione può avvenire, tuttavia, soltanto quando venga «eliminato completamente il rischio di perdite di entrate fiscali» per l’Erario. Tale rischio viene reso attuale – com’è del tutto evidente – dalla detrazione dell’imposta che il cessionario o committente può operare nella propria dichiarazione; quest’ultima, se effettuata, viene inevitabilmente a determinare, oggettivamente e indipendentemente dall’originario intento dei contraenti, una corrispondente minore entrata tributaria per l’Amministrazione finanziaria.

La pronuncia in esame conferma, quindi, che – in assenza di detrazione da parte del cliente e, quindi, del rischio di perdita di entrate fiscali per l’Erario – è legittimo il recupero dell’imposta da parte del fornitore, ancorché si tratti di operazioni inesistenti e indipendentemente dalla valutazione della buona fede dell’operatore.

Il principio in base al quale al fornitore deve essere riconosciuta la possibilità di ottenere la restituzione dell’imposta versata se il cliente non ha detratto l’imposta addebitata nella fattura originaria o, in caso contrario, abbia già provveduto alla relativa rettifica è stato considerato applicabile anche dalla sent. n. 25896/2020, nella parte la Suprema Corte ha affermato che, ove sia stato completamente eliminato, in tempo utile, il rischio di perdita di gettito fiscale, è indispensabile garantire la neutralità dell’imposta.

Nel caso di specie, in cui il cliente ha eliminato in tempo utile il rischio di una perdita di gettito riversando all’Erario l’imposta precedentemente detratta, i giudici di legittimità hanno ritenuto che l’Amministrazione finanziaria non possa invocare l’art. 21, comma 7, D.P.R. n. 633/1972, per esigere dal fornitore il versamento dell’imposta indicata in fattura.

In difetto, dopo l’avvenuto versamento, il fornitore avrebbe diritto a ottenere la restituzione dell’imposta attraverso la procedura di variazione in diminuzione di cui all’art. 26, comma 2, D.P.R. n. 633/1972, o, come nel caso in esame, in cui il termine per la variazione è scaduto, mediante istanza di rimborso rivolta all’Amministrazione finanziaria.

A questo riguardo, nella citata sent. n. 25896/2020, si afferma che l’esigenza di escludere che il fornitore resti inciso dall’imposta è raggiunta, di per sé, con l’avvenuto riversamento all’Erario, da parte del cliente, dell’IVA detratta, senza pertanto alcuna necessità di pretendere che il fornitore corrisponda l’imposta all’Erario per poi chiederla e ottenerla in restituzione.

 

Indetraibilità dell’IVA

La detrazione dell’IVA presuppone, allo stesso tempo, che il cedente e il cessionario siano soggetti passivi d’imposta e che i beni acquistati siano impiegati per effettuare operazioni imponibili o a esse assimilate.

L’art. 168, lett. a), Direttiva 2006/112/CE, si limita a richiedere che il fornitore sia un soggetto passivo, per tale intendendosi – ai sensi dell’art. 9, par. 1 e 2, Direttiva 2006/112/CE – chiunque eserciti in modo indipendente un’attività economica, a prescindere dallo scopo o dai risultati di tale attività.

Secondo la Corte europea, la detrazione è ammessa quando la soggettività passiva del cedente non è messa in discussione dagli elementi di fatto riscontrati dalle Autorità fiscali[6].

Il cessionario può, pertanto, esercitare la detrazione, a nulla rilevando la circostanza che il cedente non abbia versato l’imposta addebitata in fattura, siccome la detrazione si riferisce all’imposta “dovuta o pagata”, ex art. 168, lett. a), Direttiva 2006/112/CE.

L’unico limite ribadito, a tal fine, dalla Corte di Giustizia è quello relativo alla buona fede dell’operatore, non potendosi riconoscere il diritto alla detrazione se il cessionario sapeva o avrebbe dovuto sapere che il proprio acquisto partecipava a un’operazione in evasione da imposta posta in essere dalla controparte o, in caso di vendita “a catena”, a un’evasione commessa in uno stadio anteriore o successivo.

In pratica, se ricorrono – come nella fattispecie – le condizioni sostanziali per l’esercizio della detrazione, è l’Amministrazione finanziaria che deve dimostrare, alla luce di elementi oggettivi, diversi – evidentemente – da quelli in precedenza indicati, la malafede del cessionario.

In effetti, secondo il consolidato orientamento della Corte di Giustizia UE, in presenza di operazioni soggettivamente inesistenti, il cliente può esercitare la detrazione a meno che sapesse o dovesse sapere, secondo i canoni dell’ordinaria diligenza, che l’operazione intercorsa aveva natura fraudolenta. La buona fede è presunta e può essere disconosciuta da parte dell’Amministrazione finanziaria sulla base di elementi che, oltre a dimostrare la fittizietà, sul piano soggettivo, dell’operazione, mettano quanto meno in discussione la diligenza dell’operatore.

Nella prospettiva della giurisprudenza comunitaria, non si distinguono le operazioni inesistenti dalle frodi, le quali infatti sono considerate in modo univoco non solo agli effetti del diritto di detrazione, ma anche sul piano del riparto dell’onere probatorio.

La giurisprudenza nazionale, invece, considera in via di principio indetraibile l’imposta versata a fronte di operazioni soggettivamente inesistenti, con la conseguenza che è il cliente a dover dimostrare la propria buona fede; nel caso delle frodi, invece, è l’Amministrazione finanziaria che deve provare la malafede dell’operatore, per cui, in prima battuta, la detrazione si considera ammessa.

La bipartizione attuata dalla giurisprudenza di legittimità è dovuta alla natura non sanzionatoria del principio di cartolarità dell’IVA di cui all’art. 21, comma 7, D.P.R. n. 633/1972. È per questa ragione, cioè, che – come detto – nelle operazioni inesistenti grava sul contribuente l’onere di provare la propria buona fede, mentre nelle frodi è, al contrario, l’Amministrazione finanziaria che deve dimostrare la sua malafede.

Per la Corte di Giustizia, inoltre, i mezzi di prova sono enumerati in negativo, nel senso che la detrazione non può essere disconosciuta a fronte delle irregolarità commesse dal fornitore, a meno che sia dimostrata la malafede del destinatario della fattura, il quale in ogni caso non deve assumere i compiti di controllo che spettano all’ufficio, quali accertarsi che la controparte sia effettivamente un soggetto passivo d’imposta, che egli disponga dei beni oggetto di vendita e che sia in grado di fornirli e che abbia adempiuto agli obblighi d’imposta previsti della normativa; si tratta, infatti, di elementi che possono essere accertati dall’Amministrazione finanziaria per provate l’inesistenza delle operazioni e che non legittimano il recupero a tassazione dell’IVA detratta.

In definitiva, secondo i giudici comunitari, la detrazione può essere negata soltanto quando l’Amministrazione finanziaria abbia accertato, alla luce di elementi obiettivi, che il destinatario della fattura sapeva o avrebbe dovuto sapere che l’operazione invocata a fondamento del diritto di detrazione si inscriveva in una frode commessa dal fornitore o da un altro operatore intervenuto a monte o valle della catena delle cessioni o delle prestazioni.

All’opposto, in base all’approccio adottato dalla Suprema Corte, i mezzi di prova sono enumerati in positivo, dal momento che gli indizi relativi all’inesistenza del soggetto che ha emesso la fattura devono fare riferimento alla “dotazione personale” di quest’ultimo (nella specie, l’inesistenza di un’autonoma struttura operativa, il mancato pagamento dell’IVA come modalità preordinata al conseguimento fraudolento di un utile e il divario dei prezzi praticati rispetto a quelli di mercato) e che gli stessi, in caso di frodi, se confermati da ulteriori elementi, sono idonei a presumere la malafede del destinatario della fattura.

 

Indeducibilità dell’IVA indetraibile relativa alle operazioni inesistenti

In primo luogo, la Corte di Cassazione, con l’ord. n. 26340/2025, ha escluso l’applicazione dell’art. 60, comma 7, D.P.R. n. 633/1972, a norma del quale: «il contribuente ha diritto di rivalersi dell’imposta o della maggiore imposta relativa ad avvisi di accertamento o rettifica nei confronti dei cessionari dei beni o dei committenti dei servizi soltanto a seguito del pagamento dell’imposta o della maggiore imposta, delle sanzioni e degli interessi. In tal caso, il cessionario o il committente può esercitare il diritto alla detrazione, al più tardi, con la dichiarazione relativa al secondo anno successivo a quello in cui ha corrisposto l’imposta o la maggiore imposta addebitata in via di rivalsa ed alle condizioni esistenti al momento di effettuazione della originaria operazione».

Tale norma prevede, infatti, l’esercizio della detrazione da parte del cessionario/committente a seguito della rivalsa operata in fattura dal cedente/prestatore che abbia effettivamente pagato all’Erario l’imposta accertata, le sanzioni e gli interessi, al fine di scongiurare l’ingiusto arricchimento che il cessionario/committente conseguirebbe se detraesse l’imposta senza provvedere al suo effettivo pagamento.

Nel caso di specie, invece, l’IVA versata al fornitore, riguardante operazioni soggettivamente inesistenti, è stata considerata definitivamente indetraibile e il relativo debito è stato assolto mediante compensazione con l’IVA a credito corrispondente. E questo assetto è scaturito dalla sottoscrizione degli atti di accertamento con adesione.

Proprio perché l’imposta versata al fornitore è definitivamente indetraibile in virtù dei predetti atti, in quanto afferente a operazioni soggettivamente inesistenti del carattere fraudolento delle quali la società è risultata consapevole, la Suprema Corte ha escluso che essa possa configurare un costo.

In tal senso si è espressa la giurisprudenza affermando che: «a fronte di fatture emesse per operazioni soggettivamente inesistenti, l’IVA indetraibile – in quanto corrisposta al soggetto interposto anziché all’effettivo cedente di beni o prestatore di servizi- non è deducibile tra i costi d’impresa ai fini della determinazione delle imposte dirette (IRES e IRAP), in quanto configura un esborso non inerente allo svolgimento della specifica attività economico-produttiva essendo, piuttosto, espressione di distrazione verso finalità ulteriori e diverse, tali da interrompere il cd. nesso di inerenza»[7].

In effetti, sono inerenti i costi riferiti all’attività da cui derivano i ricavi e i proventi che concorrono a formare l’imponibile aziendale, purché appartenga all’attività produttiva l’evento generatore del decremento che viene in considerazione dal punto di vista fiscale[8]. In quest’ottica, la giurisprudenza ha escluso l’inerenza dei costi rappresentati dal pagamento di sanzioni pecuniarie irrogate per comportamenti illeciti del contribuente[9], degli esborsi effettuati per “chiudere” indagini fiscali[10], del riscatto pagato per la liberazione di un dirigente dell’azienda[11], di sanzioni pagate dall’imprenditore a titolo di condono edilizio, di sanzioni irrogate dagli organismi della concorrenza e del mercato per aver posto in essere pratiche concordate per falsare in maniera consistente la concorrenza sul mercato e di sanzioni civili per il ritardato pagamento di oneri previdenziali[12], non ravvisandosi in tali fattispecie un legame funzionale tra il costo e il fattore produttivo dell’impresa. Si tratta, difatti, di esborsi che non concorrono, direttamente o indirettamente, alla formazione del reddito, perché non sono fattori produttivi, e comunque non sono atti della gestione d’impresa, ponendosi su un piano autonomo ed esterno rispetto a questa.

A maggior ragione le considerazioni esposte valgono per l’IVA, governata dal principio di neutralità, attuato dal sistema delle detrazioni, che è appunto inteso a sollevare interamente l’imprenditore dall’onere dell’IVA dovuta o pagata nell’ambito di tutte le sue attività economiche[13]. L’IVA, dunque, nella sua fisionomia ordinaria è priva “in nuce” dell’attitudine a incidere nelle fasi di commercializzazione, numerose o meno che siano, che precedono la fase del consumo del bene. Sotto tale profilo, l’IVA non è suscettibile di essere qualificata alla stregua di costo generale di esercizio; essa non è, in altri termini, ontologicamente un costo “incorporato” nel bene acquistato e non rappresenta intrinsecamente per l’impresa un “costo” collegato a operazioni che producono un ricavo.

Una diversa conclusione vale per l’IVA indetraibile, conclamata nel caso di specie dall’accordo raggiunto con l’Agenzia delle Entrate.

L’imposta divenuta indetraibile perché afferente a operazioni soggettivamente inesistenti non è suscettibile di dare luogo a un componente reddituale fiscalmente rilevante, non essendo l’onere in parola strettamente rappresentativo di un fattore produttivo dell’attività del contribuente medesimo.

Pertanto, non è corretto assumere che nel caso in esame l’eccezione al principio di neutralità dell’IVA comporterebbe la trasformazione dell’IVA indetraibile in costo di esercizio, in quanto la deroga al principio di neutralità è stata determinata dalla condotta della società che ha consapevolmente utilizzato fatture inerenti a operazioni soggettivamente inesistenti.

 

[1] Cfr. art. 1, comma 133, Legge n. 208/2015 (Legge di stabilità 2016).

[2] In tal senso si è espressa anche l’Agenzia delle Entrate in sede di commento delle modifiche introdotte dal citato D.Lgs. n. 158/2015 (circolare n. 16/E/2017, par. 5.b).

È stato, in particolare, rilevato che «si è reso necessario intervenire anche nella disposizione contenuta nell’art. 21, comma 7, del D.P.R. n. 633 del 1972. Tale disposizione, prima della sua modifica, prevedeva che, nel caso di emissione di fattura “per operazioni inesistenti”, ovvero di indicazione in fattura di corrispettivi o di imposta in misura superiore a quella reale, l’imposta fosse dovuta dal “debitore” per “l’intero ammontare indicato o corrispondente alle indicazioni della fattura”; la regola si applicava a “chiunque”, senza distinguere tra operazioni contabilizzate secondo le regole ordinarie e quelle per cui l’imposta era dovuta mediante il meccanismo dell’inversione contabile».

Con il D.Lgs. n. 158/2015, «il Legislatore ha modificato il citato art. 21, comma 7, circoscrivendone la portata al solo regime ordinario (mediante la sostituzione del riferimento soggettivo, che ora non è più a “chiunque” ma al “cedente o prestatore”)».

[3] Cfr. Corte di Giustizia UE, 26 maggio 2005, causa C-536/03, António Jorge.

[4] Cfr. Corte di Giustizia UE, 19 settembre 2000, causa C-454/98, Schmeink & Cofreth e Strobel.

[5] Nello stesso senso, si vedano anche: Corte di Giustizia UE, 8 maggio 2019, causa C-712/17, EN.SA; Corte di Giustizia UE, 31 gennaio 2013, causa C-642/11, Stroy trans; Corte di Giustizia UE, 13 marzo 2004, causa C-107/13, FIRIN.

[6] Cfr. sent. 22 ottobre 2015, causa C-277/14, PPUH Stehcemp.

[7] Cfr. Cass. n. 1682/2024.

[8] Cfr. Cass. n. 31930/2021.

[9] Cfr. Cass. n. 7317/2003 e n. 7071/2000, sulle infrazioni stradali.

[10] Cfr. Cass. n. 5796/2001.

[11] Cfr. Cass. n. 8818/1995.

[12] Cfr. Cass. n. 5050/2010.

[13] Cfr. Corte di giustizia UE, 28 luglio 2016, causa C-332/15, Astone.

 

Si segnala che l’articolo è tratto da “Accertamento e contenzioso”.