Il futuro assetto fiscale di un ente associativo culturale non ETS ai fini delle imposte dirette
di Luca CaramaschiCon il presente contributo si intendono analizzare gli aspetti fiscali di natura reddituale che caratterizzeranno – alla luce della disciplina in vigore dal prossimo 1° gennaio 2026 – le organizzazioni di tipo associativo nell’ipotesi in cui esse non optino per l’assunzione della qualifica di ente del Terzo settore (di seguito ETS) con conseguente iscrizione nel relativo Registro nazionale (di seguito RUNTS), ma decidano di mantenere la qualifica di mera associazione di tipo culturale non iscritta ad alcun Registro. E che in quanto tali non potranno applicare la disciplina fiscale prevista dal Titolo X (articoli che vanno da 79 a 89) del D.Lgs. n. 117/2017 (di seguito “Codice del Terzo settore” o semplicemente “Codice”).
Le previsioni contenute nel Codice
Con riferimento ai soggetti in premessa occorre evidenziare come all’interno del Codice vi siano disposizioni che hanno un diretto impatto non tanto per coloro che assumeranno la qualifica di ETS quanto per coloro che rimarranno fuori dal nuovo sistema.
In particolare, ci si riferisce alle disposizioni contenute negli artt. 89 e 102, Codice, e che di seguito si riportano:
− art. 89, comma 4, D.Lgs. n. 117/2017 che prevede quanto segue: «All’art. 148, comma 3, del Testo Unico delle imposte sui redditi, approvato con Decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917 le parole “Per le associazioni politiche, sindacali e di categoria, religiose, assistenziali, culturali, sportive dilettantistiche, di promozione sociale e di formazione extra-scolastica della persona non si considerano commerciali …” sono sostituite dalle seguenti: “Per le associazioni politiche, sindacali e di categoria, religiose, sportive dilettantistiche non si considerano commerciali …”»;
− art. 102, comma 2, lett. e), f), g), D.Lgs. n. 117/2017, che prevede altresì quanto segue: «Sono altresì abrogate le seguenti disposizioni a decorrere dal termine di cui all’art. 104, comma 2: …
e) l’ 9-bis del Decreto-Legge 30 dicembre 1991, n. 417, convertito, con modificazioni, dalla Legge 6 febbraio 1992, n. 66;
f) l’ 2, comma 31, della Legge 24 dicembre 2003, n. 350;
g) gli 20 e 21 della Legge n. 383 del 7 dicembre 2000; …».
Si tratta, quelle sopra descritte, di 2 modifiche che andranno a impattare in modo devastante sulla portata delle agevolazioni fino a ora concesse al comparto degli enti non commerciali, soprattutto quelli di tipo associativo.
Con la prima modifica, infatti, dal prossimo 1° gennaio 2026 verrà preclusa la possibilità di applicare l’agevolazione descritta dal comma 3 dell’art. 148, TUIR, e consistente nella previsione di decommercializzazione dei proventi commerciali per le prestazioni di servizi specifici resi nei confronti degli associati, con riferimento alle seguenti tipologie di associazioni: assistenziali, culturali, di formazione extra-scolastica della persona e di promozione sociale.
Per gli enti di tipo associativo qualificabili come “culturali”, quindi, i servizi specifici di natura commerciale che dette organizzazioni offriranno ai propri associati non potranno più beneficiare della citata decommercializzazione, dovendo quindi assoggettarsi alla ordinaria misura di tassazione IRES.
Con la seconda modifica, invece, vengono abrogate tutte le disposizioni normative successive alla Legge n. 398/1991, che nel tempo avevano esteso tale regime agevolato IVA e redditi (definito comunemente “regime forfettario 398”), in origine riservato ai proventi oggettivamente commerciali conseguenti dalle sole realtà sportive dilettantistiche, anche alle associazioni senza fine di lucro, associazioni pro loco, associazioni bandistiche e cori, associazioni amatoriali, filodrammatiche, di musica e danza popolare legalmente riconosciute senza fini di lucro.
Quelle stesse tipologie di associazioni (come ad esempio, le “culturali”) che, quindi, non potranno più applicare la decommercializzazione dei proventi commerciali per le prestazioni rese nei confronti dei propri associati secondo quanto previsto dal comma 3 dell’art. 148, TUIR, si troveranno anche nella impossibilità di applicare ai propri proventi oggettivamente commerciali il regime forfettario agevolato IVA e redditi previsto dalla Legge n. 398/1991, dovendo quindi applicare gli ordinari regimi contabili previsti dall’ordinamento (salvo quanto detto oltre circa la fruibilità degli altri regimi forfettari previsti nello stesso TUIR).
Di fatto, tali soggetti, oltre alla “naturale” irrilevanza degli introiti tipici non aventi rilevanza fiscale (quali le quote associative, i contributi a fondo perduto, le erogazioni liberali, ecc.) non avranno più dal prossimo 1° gennaio 2026 quelle sostanziali agevolazioni che in relazione a determinati proventi in origine commerciali hanno potuto godere per quasi e oltre un trentennio sotto il profilo fiscale.
Le norme fiscali ancora applicabili
Al di là delle descritte modifiche, sotto il profilo reddituale i soggetti che resteranno esclusi dalla Riforma del Terzo settore, potranno continuare a fare affidamento sull’impianto normativo al tempo introdotto con il datato D.Lgs. n. 460/1997, ed essenzialmente contenuto sotto il profilo reddituale, negli articoli che – per quanto oggi ancora applicabili – vanno da 143 a 149, TUIR (l’art. 150, TUIR, riferito alle ONLUS è stato esplicitamente abrogato dal comma 2, lett. c) dell’art. 102, D.Lgs. n. 117/2017).
I proventi da raccolte pubbliche occasionali di fondi
Una prima previsione agevolativa applicabile alle associazioni non ETS è quella contenuta nella lett. a) del comma 3 dell’art. 143, TUIR, e relativa alle raccolte pubbliche occasionali di fondi. Essa consente di raccogliere pubblicamente fondi allo scopo di reperire ulteriori risorse finanziarie per meglio sostenere l’attività svolta. Il beneficio della non tassabilità dovrebbe competere, peraltro, indipendentemente dal fatto che tali fondi vengano poi utilizzati per finanziare l’attività istituzionale vera e propria ovvero un’attività commerciale esercitata a margine di quella principale e a supporto di questa. L’attività di raccolta di fondi è condizionata al rispetto di regole ben precise:
– deve essere pubblica, con ciò intendendosi che si deve rivolgere a una massa indistinta di soggetti;
– deve essere occasionale;
– può avvenire anche mediante l’offerta ai sovventori di beni, purché di modico valore, o servizi;
– deve avvenire in concomitanza di celebrazioni, ricorrenze o campagne di sensibilizzazione.
La previsione contenuta nell’art. 143, TUIR, si è resa necessaria allo scopo di non far concorrere alla determinazione del reddito complessivo dell’ente le entrate da questo conseguite mediante la raccolta pubblica di fondi, in sostanza elargizioni liberali alle quali non è necessariamente correlata una prestazione sinallagmatica. In particolare, tale attività non viene considerata come commerciale, anche se esiste un rapporto di scambio (sovvenzione contro cessione o prestazione), rapporto tuttavia imperfetto in quanto il bene ceduto a fronte della sovvenzione deve essere di valore limitato e tale da non generare l’ipotesi di un rapporto equilibrato tra valore della prestazione eseguita dall’ente e valore della sovvenzione da questo ricevuta.
L’attività, per non generare reddito imponibile, deve comunque avere il requisito della occasionalità; viene quindi disposta la sottrazione di un ulteriore elemento, quello dell’abitualità, caratteristico delle attività imprenditoriali. Ulteriore requisito: la raccolta di fondi deve avvenire esclusivamente in occasione di manifestazioni in cui l’ente porta a conoscenza del pubblico la propria attività (celebrazioni, ricorrenze o campagne di sensibilizzazione). Questo elemento rafforza il requisito di pubblicità – intesa come attività rivolta a un pubblico indistinto – della raccolta. Il comma 2 dell’art. 2, D.Lgs. n. 460/1997, ancora, amplia l’esenzione dell’attività di raccolta pubblica di fondi anche ai fini dell’IVA oltre che ai fini di ogni altro tributo.
Da ultimo, va evidenziato che, dal punto di vista contabile, l’art. 20, D.P.R. n. 600/1973 (così come modificato a suo tempo dall’art. 8, comma 1, D.Lgs. n. 460/1997) impone all’ente che ha svolto attività di raccolta pubblica di fondi – e che intende fruire della decommercializzazione dei proventi conseguiti in occasione di tali eventi – l’obbligo di redigere entro 4 mesi dalla chiusura dell’esercizio un apposito rendiconto di tale specifica attività, indipendente dal rendiconto economico e finanziario annuale.
Ai contributi pubblici sono dedicate le previsioni contenute nelle lett. a) e b) del comma 3 dell’art. 143, TUIR.
I contributi pubblici per attività in convenzione
La lett. b) del comma 3 dell’art. 143, TUIR, si occupa dei contributi erogati agli enti non commerciali da Amministrazioni pubbliche per lo svolgimento di attività convenzionate. L’esenzione, che a differenza di quanto accade per la raccolta pubblica di fondi vale solamente ai fini delle imposte sui redditi, è subordinata alle seguenti condizioni:
– l’attività deve avere finalità sociali;
– l’attività deve essere conforme alle finalità istituzionali dell’ente.
Il fine sociale delle attività svolte (generalmente, si tratta di prestazioni di servizi sociali) giustifica ulteriormente il trattamento agevolativo concesso dalla norma. La finalità sociale dovrebbe essere già implicita nel fatto che si tratta di attività di interesse pubblico. In effetti, la norma tende anche ad agevolare l’esercizio dei servizi sociali (assistenza, formazione, istruzione, sanità, ecc.) da parte dei privati. Servizi che, in prima istanza, essendo di interesse collettivo, dovrebbero essere svolti dall’ente pubblico, quale esercizio di propria attività istituzionale. Le attività convenzionate devono essere “conformi” agli scopi istituzionali di carattere sociale. Deve, cioè, trattarsi dell’attività “principale” (non, quindi, di attività strumentali o accessorie) che costituisce la stessa ragione di esistenza dell’ente. Lo stretto legame tra mezzi e fini è ulteriore garanzia che i finanziamenti pubblici concessi raggiungano le finalità statutarie previste, e giustifichino, quindi, un trattamento fiscale privilegiato. Questi contributi possono assumere sia la veste di corrispettivo specifico, ovvero corrisposto a fronte di precise prestazioni, ovvero possono assumere la veste di contributo a fondo perduto. L’Amministrazione finanziaria ha chiarito in più di una occasione che nessuno dei 2 tipi di erogazione (contributi a fondo perduto e contributi aventi natura di corrispettivo) costituisce reddito e, pertanto, non devono essere assoggettati a imposizione.
La non facile applicazione della ipotesi di non commercialità prevista dal comma 1 dell’art. 143, TUIR
Secondo quanto previsto dal secondo periodo del comma 1 dell’art. 143, TUIR (prima disposizione di carattere generale che il TUIR dedica al comparto degli enti non commerciali) per gli enti non commerciali: «… si considerano attività commerciali le prestazioni di servizi non rientranti nell’art. 2195 del Codice civile rese in conformità alle finalità istituzionali dell’ente senza specifica organizzazione e verso pagamento di corrispettivi che non eccedono i costi di diretta imputazione».
Tale disposizione ripropone le medesime difficoltà contenute nell’art. 55, comma 2, lett. a), TUIR, in ordine alla individuazione delle attività estranee alla previsione dell’art. 2195, c.c., e che esclude, al verificarsi di determinate condizioni, tali prestazioni di servizi dall’insieme delle attività commerciali. Come affermato nella risoluzione n. 112/E/2002 la previsione normativa prevede la non commercialità in presenza di tutte le condizioni menzionate. Pertanto, l’attività deve necessariamente possedere, congiuntamente, i seguenti requisiti:
– l’attività non deve rientrare tra quelle elencate nell’art. 2195, c.c.; diversamente, infatti, essa verrebbe a configurare esercizio di attività commerciale, in conformità a quanto previsto dall’art. 55, TUIR;
– la prestazione di servizio deve essere conforme alle finalità istituzionali, intendendosi con tale locuzione, che essa deve perseguire comunque le finalità indicate nel provvedimento istitutivo dell’ente non commerciale;
– l’attività deve essere svolta senza un’organizzazione predisposta appositamente per la sua gestione, vale a dire senza impiego di fattori produttivi organizzati in funzione dell’attività svolta;
– i corrispettivi non devono eccedere i costi di diretta imputazione, nel senso che i compensi corrisposti per la prestazione resa possono remunerare solo le spese sostenute e non devono rappresentare un utile per l’ente.
L’agevolazione fiscale, quindi, consiste nel rivedere le attività di prestazione di servizi, diverse da quelle considerate civilisticamente come commerciali e non organizzate in forma imprenditoriale, inidonee a generare ricavi imponibili, a condizione però che i corrispettivi percepiti a fronte della loro erogazione servano solamente alla copertura dei costi sostenuti per l’esecuzione della prestazione e direttamente imputabili alla stessa. Tali attività devono essere conformi agli scopi istituzionali che l’ente si prefigge di conseguire.
In ordine alla effettiva portata di tale disposizione, da molti ritenuta una norma “in bianco”, si riscontra nella pratica una sua difficile applicazione poiché la sussistenza congiunta delle 3 condizioni richiamate non trova, specie nelle organizzazioni più complesse, frequente riscontro. In particolare, secondo autorevole dottrina, la previsione che i corrispettivi non debbano eccedere i costi di diretta imputazione rende praticamente inapplicabile la norma. A conferma di tale ultima considerazione si richiama il contenuto della circolare n. 124/E/1998, che, al par. 5.2.2, aggancia il concetto di “costo di diretta imputazione” al concetto di “costo specifico”, come definito nell’ambito della circolare n. 40/1981 relativa alla contabilità di magazzino (e ciò diversamente da quanto stabilito nell’ambito delle disposizioni contenute nel Codice del Terzo settore all’interno del quale, in particolare all’art. 79, CTS, si fa riferimento al più ampio e favorevole concetto di “costo specifico”).
Senza peraltro dilungarsi su ulteriori considerazioni di carattere tecnico, chi scrive pertanto nutre parecchie perplessità sulla concreta applicabilità della descritta agevolazione di carattere generale ai servizi specifici resi da buona parte degli enti di tipo associativo. Per contro, le rare pronunce giurisprudenziali circa l’effettivo ambito di applicazione di tale disposizione non depongono a favore di una differente posizione sul punto.
Il regime forfettario
L’impossibilità di applicare le più favorevoli disposizioni contemplate dal regime forfettario 398 per quanti resteranno esclusi dalla Riforma del Terzo settore (a eccezione, come detto, delle realtà sportive dilettantistiche), farà riacquisire nuova linfa al regime forfettario previsto dall’art. 145, TUIR, a oggi poco utilizzato dagli enti non commerciali proprio per la sua evidente “inferiorità”, in termini di semplificazioni e agevolazioni, rispetto al citato regime 398.
Detto regime, esplicitamente escluso per gli ETS in virtù della disposizione contenuta nel comma 3 dell’art. 89, D.Lgs. n. 117/2017 (a eccezione degli enti religiosi civilmente riconosciuti per le attività diverse da quelle di interesse generale), resta quindi l’unica alternativa possibile ai regimi ordinari di contabilità (ordinaria e semplificata) per la gestione dei proventi commerciali conseguiti dagli enti associativi che non entreranno a far parte della nuova famiglia degli ETS.
L’art. 145, TUIR, prevede un regime forfettario per la determinazione del reddito d’impresa applicabile a tutti gli enti non commerciali ammessi alla tenuta della contabilità semplificata di cui all’art. 18, D.P.R. n. 600/1973.
Va, tuttavia, rilevato come ai fini IVA non sia previsto un parallelo regime di imposizione semplificata e quindi per la determinazione di tale imposta rimangono applicabili i criteri generali previsti dal D.P.R. n. 633/1972, in relazione alle specifiche attività esercitate.
Il meccanismo di tale regime forfettario prevede l’applicazione di coefficienti di redditività all’ammontare dei ricavi (art. 85, TUIR) conseguiti nell’esercizio di attività commerciali (includendovi, quindi, tutte le attività commerciali eventualmente esercitate ed escludendo eventuali proventi derivanti dall’attività istituzionale).
Tali coefficienti di redditività sono determinati in misura differente in funzione sia del tipo di attività che degli scaglioni di ricavi. Al reddito forfettariamente determinato applicando i coefficienti di redditività, va aggiunto l’ammontare dei seguenti componenti positivi del reddito d’impresa disciplinati dal TUIR:
– art. 86 (plusvalenze);
– art. 88 (sopravvenienze attive);
– art. 89 (dividendi e interessi);
– art. 90 (proventi immobiliari).
Riflessione generale
Dall’esame delle disposizioni generali che, a riforma definitivamente in vigore, risulteranno ancora applicabili ai soggetti che non potranno o non vorranno annoverarsi tra gli enti del Terzo settore, e quindi dal prossimo 1° gennaio 2026, emerge una situazione decisamente poco confortante. L’impossibilità di applicare il regime forfettario di cui alla Legge n. 398/1991, in relazione ai proventi oggettivamente commerciali (a eccezione delle sole realtà sportive dilettantistiche), unitamente all’impossibilità di applicare la decommercializzazione dei proventi commerciali per le attività rese in conformità alle attività istituzionali, porterà i soggetti esclusi dalla riforma a dover effettuare serie valutazioni sul loro futuro inquadramento.
Se per i soggetti normativamente esclusi dalla grande famiglia degli ETS si porrà quindi il tema di “organizzare” al meglio le proprie attività in conseguenza del mutato scenario normativo, per quanti sono nella possibilità di decidere per l’inclusione o meno nel RUNTS, si pone il delicato tema del confronto delle 2 discipline potenzialmente applicabili: quella descritta in precedenza, in alternativa alla disciplina prevista per coloro che potranno fregiarsi della qualifica di enti del Terzo settore. In detta ultima valutazione, gioca certamente un ruolo rilevante, la corretta applicazione delle agevolazioni previste ai fini IVA, aspetto che il Codice del Terzo settore non affronta in modo sufficiente e per il quale verrà dedicato uno specifico approfondimento nei prossimi numeri della Rivista.
Le disposizioni di natura accertativa: gli indicatori di commercialità
Con riferimento agli enti culturali di tipo associativo che opteranno di non assumere la qualifica di ETS, la mancata applicazione della disposizione di decommercializzazione di cui al comma 3 dell’art. 148, TUIR (meglio descritta nel precedente paragrafo dedicato a tale tematica), e quindi la dichiarata commercialità dei corrispettivi specifici versati all’associazione da parte degli associati per servizi resi a quest’ultimi, potrebbe inoltre rappresentare un ulteriore elemento critico in relazione a una disposizione che resterà per tali enti pienamente in vigore: si tratta dell’art. 149, TUIR, rubricato «Perdita della qualifica di ente non commerciale».
Si tratta di una norma con la quale verificare, in termini di effettività, la natura dell’ente dichiarata nell’atto costitutivo o nello statuto, e che contiene una presunzione legale di perdita della qualifica di ente non commerciale, qualora, indipendentemente dalle previsioni statutarie, l’ente eserciti attività commerciale in base all’art. 55, TUIR. Pertanto, la qualifica di ente non commerciale, impressa dalla legge, dall’atto costitutivo o dallo statuto, che consente all’ente di fruire della disciplina degli enti non commerciali su base dichiarativa, va verificata prendendo in esame l’attività effettivamente svolta.
Il comma 2 del citato art. 149, TUIR, indica alcuni parametri che costituiscono «fatti indice di commercialità», i quali, è bene precisarlo, non comportano automaticamente la perdita di qualifica di ente non commerciale, ma sono particolarmente significativi e inducono a un giudizio complessivo sull’attività effettivamente esercitata. Tali concetti infatti sono stati ribaditi dall’Amministrazione finanziaria che con la circolare n. 124/E/1998 ha precisato che i richiamati fatti indice di commercialità: «non comportano automaticamente la perdita di qualifica di ente non commerciale, ma sono particolarmente significativi e inducono ad un giudizio complessivo sull’attività effettivamente esercitata».
Il comma in commento, nella sostanza, non contiene presunzioni assolute di commercialità, ma traccia un percorso logico, anche se non vincolante quanto alle conclusioni, per la qualificazione dell’ente non commerciale, individuando parametri dei quali deve tenersi anche conto (e non solo quindi) unitamente ad altri elementi di giudizio. Non è, pertanto, sufficiente il verificarsi di una o più delle condizioni stabilite dal comma 2 dell’art. 149, TUIR, per poter ritenere avvenuto il mutamento di qualifica, ma sarà necessario, in ogni caso, un giudizio complesso, che tenga conto anche di ulteriori elementi, finalizzato a verificare che l’ente abbia effettivamente svolto per l’intero periodo d’imposta (da intendersi per la maggior parte) prevalentemente attività commerciale.
Tra questi indicatori vi è anche, alla lett. b), la prevalenza dei ricavi derivanti da attività commerciali rispetto al valore normale delle cessioni o prestazioni afferenti le attività istituzionali, con la conseguenza che la mancata fruizione dell’agevolazione consistente nella decommercializzazione dei corrispettivi specifici potrebbe rappresentare un ulteriore e pericolo elemento indiziario nei casi di accertamento che riguardano la natura dell’ente.
Va, infine, ricordato che il comma 9 dell’art. 4, D.P.R. n. 633/1972, non abrogato dalle recenti disposizioni di riforma in ambito IVA, a proposito delle conseguenze che si manifestano nel caso di superamento di determinati indici di commercialità, prevede che: «le disposizioni sulla perdita della qualifica di ente non commerciale di cui all’art. 111-bis [oggi art. 149] del Testo Unico delle imposte sui redditi, approvato con D.P.R. 917/1986, si applicano anche ai fini dell’imposta sul valore aggiunto».
Conclusioni
Alla luce, quindi, delle considerazioni in precedenza esposte, e pur non potendo esprimere una valutazione completa con riguardo alla specifica impostazione adottata dal singolo ente di natura associativa, chi scrive ritiene che in generale la scelta di mantenere la natura di mera associazione culturale al di fuori del contesto normativo introdotto dalla Riforma del Terzo settore, comporti a partire dal prossimo 1° gennaio 2026 per le organizzazioni associative che prevedono l’esercizio sociale coincidente con l’anno solare un deciso e sostanziale peggioramento della propria posizione “fiscale” certamente sotto il profilo reddituale.
Ciò in quanto le disposizioni di carattere agevolativo applicabili fino al prossimo 31 dicembre 2025 non saranno “sostituite”, nel futuro contesto normativo applicabile dal 1° gennaio 2026, da previsioni di analogo tenore. Ancor più, per effetto di una sostanziale migrazione verso l’alveo della commercialità per le operazioni che rappresentano per buona parte degli enti associativi il completamento dei propri fini istituzionali, il rischio tutt’altro che remoto è quello di una possibile riqualificazione della natura dell’ente da non commerciale a commerciale con tutto quanto ne consegue in termini di adempimenti e tassazione.
Si segnala che l’articolo è tratto da “Associazioni e sport”.


