Esterovestizione: la giurisprudenza di legittimità valuta in concreto l’attività svolta dalla controllata estera
di Marco BargagliL’“esterovestizione” societaria si riferisce a una vera e propria dissociazione tra la residenza reale della società o ente (che sovente viene riqualificata in Italia) e la residenza fittizia (formalmente localizzata all’estero), fenomeno attuato con la chiara finalità di ottenere un indebito risparmio d’imposta o, comunque, di usufruire di un regime fiscale agevolato nello Stato estero di insediamento.
Quindi trattasi di un pernicioso fenomeno di evasione fiscale internazionale, che sottrae ingenti risorse al Fisco, distorcendo la concorrenza nei mercati e modificando, ingiustamente, la pressione fiscale tra i contribuenti che operano in un determinato contesto ad ampio respiro internazionale.
Tale fenomeno, in linea di principio, può anche riguardare le persone fisiche che, formalmente iscritte all’AIRE, simulano di trasferirsi all’estero mentre, in realtà, continuano a dimorare stabilmente sul territorio dello Stato italiano ove mantengono il proprio domicilio, i propri affetti e relazioni personali ossia la residenza ai fini fiscali, intesa quale dimora abituale.
Con riferimento alle società ed enti, la normativa di riferimento in tema di esterovestizione è stata recentemente modificata dal D.Lgs. n. 209/2023, l’art. 73, TUIR, a norma del quale, con effetto dal 2024, «Ai fini delle imposte sui redditi si considerano residenti le società e gli enti che per la maggior parte del periodo di imposta hanno nel territorio dello Stato la sede legale o la sede di direzione effettiva o la gestione ordinaria in via principale. Per sede di direzione effettiva si intende la continua e coordinata assunzione delle decisioni strategiche riguardanti la società o l’ente nel suo complesso».
In merito:
- la sede di direzione effettiva coincide con la continua e coordinata assunzione delle decisioni strategiche riguardanti la società o l’ente nel suo complesso (con contestuale recepimento del criterio di localizzazione della residenza fiscale adottato nella generalità delle convenzioni internazionali contro le doppie imposizioni);
- la gestione ordinaria è, invece, riferita al continuo e coordinato compimento degli atti della gestione corrente riguardanti la società o l’ente nel suo complesso (imponendo, quindi, una valutazione dell’effettivo radicamento della società, dell’ente o dell’associazione in un determinato territorio).
Come evidenziato nella Relazione illustrativa al provvedimento normativo (D.Lgs. n. 209/2023) i nuovi criteri riferiti alla “sede di direzione effettiva” e alla “gestione ordinaria in via principale”, sono elementi di natura sostanziale e riguardano rispettivamente il luogo in cui sono assunte le decisioni strategiche e dove si svolgono concretamente le attività di gestione della società o ente.
Obiettivo della Riforma, come si rileva sempre dalla Relazione illustrativa al provvedimento legislativo, è quello di evitare che, nella ricerca della sede della direzione effettiva, si dia troppo rilievo al ruolo dei soci che si limitino ad attività di supervisione e monitoraggio dell’attività della controllata.
Questo può valere tanto per i soci persone fisiche quanto per le società controllanti che svolgano un’attività di direzione e coordinamento che non sconfini nell’eterodirezione (solo in quest’ultimo caso si giustificherebbe l’attribuzione della residenza alla controllata).
Peraltro, come anche chiarito nella Relazione illustrativa, la scelta di riferirsi alla sede di direzione effettiva rimanda in modo diretto al «place of effective management» presente in quasi tutte le Convenzioni contro le doppie imposizioni stipulate dall’Italia come criterio dirimente in caso di doppia residenza, il che costituisce certamente un miglioramento della norma interna in termini di coordinamento con la disciplina convenzionale.
In estrema sintesi, assume esclusiva rilevanza il ruolo degli amministratori (purché, ovviamente, siano dotati di un effettivo potere decisionale) e non si enfatizzino, invece, le attività dei soci, quando si limitino a fisiologica “attività di supervisione” e di “monitoraggio della gestione”.
Giova evidenziare che, nel rispetto del principio comunitario della libertà di stabilimento, la giurisprudenza di legittimità ha nel tempo confermato l’ipotesi di esterovestizione societaria (in ambito UE) solo e soltanto nei confronti di quei soggetti, privi di sostanza economica, che si qualificano come strutture di puro artificio, ossia quelle imprese che sono costituite al solo scopo di evadere le imposte, senza svolgere alcuna reale attività economica oltre frontiera.
Tuttavia, nonostante i principi comunitari sopra illustrati, la suprema Corte di cassazione, con la sent. n. 20002/2024, ha confermato l’assoluta rilevanza del criterio di collegamento con il territorio dello Stato riconducibile alla sede di direzione effettiva.
La pronuncia assume assoluta rilevanza sotto il profilo del diritto comunitario in quanto riguarda, in particolare, l’esterovestizione di una società di diritto rumeno situata in territorio comunitario, con la conseguenza che il concetto di direzione effettiva deve essere idoneamente coordinato con l’importante principio comunitario della libertà di stabilimento.
Dopo aver brevemente tratteggiato i profili giuridici della residenza fiscale delle società e degli enti, previsti dall’art. 73, TUIR, si citano gli Interessanti principi di diritto recentemente diramati con la sent. n. 23842/2025 del 25 agosto 2025 emanata dalla suprema Corte di Cassazione, nella quale gli ermellini hanno nuovamente valorizzato il concetto di “sede effettiva”, che deve essere accertato sulla base di una valutazione concreta dell’attività gestionale e produttiva esercitata dalla controllata estera.
La suprema Corte ha già avuto modo di chiarire (Cass. n. 33234/2018; Cass. n. 2869/2013; Cass. n. 16697/2019; Cass. n. 2021/2021 e n. 6476/2021; Cass. n. 15424 del 2021; Cass. n. 1544/2023) che per esterovestizione «s’intende la fittizia localizzazione della residenza fiscale di una società all’estero, in particolare in un Paese con un trattamento fiscale più vantaggioso di quello nazionale, allo scopo, ovviamente, di sottrarsi al più gravoso regime nazionale».
A livello comunitario, secondo la Corte di Giustizia 12 settembre 2006, Cadbury Schweppes e Cadbury Schweppes Overseas, causa C-196/04, la circostanza che una società sia stata creata in uno Stato membro per fruire di una legislazione più vantaggiosa non costituisce per se stessa un abuso di tale libertà (punto 37) ma che, per contro, una misura nazionale che restringe la libertà di stabilimento è ammessa «se concerne specificamente le costruzioni di puro artificio finalizzate ad eludere la normativa dello Stato membro interessato» (punto 51).
La Corte di giustizia ha, altresì, precisato che, poiché l’obiettivo della libertà di stabilimento è quello di permettere a un cittadino di uno Stato membro di creare uno stabilimento secondario in un altro Stato membro per esercitarvi le sue attività e di partecipare così, in maniera stabile e continuativa, alla vita economica di uno Stato membro diverso dal proprio Stato di origine e di trarne vantaggio (punti 52 e 53), la nozione di stabilimento implica l’esercizio effettivo di un’attività economica per una durata di tempo indeterminata, «mercé l’insediamento in pianta stabile in un altro Stato membro, sicché essa presuppone «un insediamento effettivo della società interessata nello Stato membro ospite e l’esercizio quivi di un’attività economica reale» (punto 54; v. anche Corte giustizia, 25 luglio 1991, causa C-221/89, Factortame e a., punto 20; Corte giust., 4 ottobre 1991, causa C-246/89, Commissione/Regno Unito, punto 21)».
Di conseguenza, una restrizione alla libertà di stabilimento deve avere «lo scopo specifico di ostacolare comportamenti consistenti nel creare costruzioni puramente artificiose, prive di effettività economica e finalizzate a eludere la normale imposta sugli utili generati da attività svolte sul territorio nazionale» (punto 55).
In buona sostanza, sulla base dell’insegnamento della suprema Corte di Cassazione, quello che deve essere accertato, ai fini della corretta applicazione della previsione normativa in esame, è l’apparente localizzazione all’estero di un soggetto.
Quindi, ciò che rileva «non è accertare la sussistenza o meno di ragioni economiche diverse da quelle relative alla convenienza fiscale, ma occorre accertare se il trasferimento in realtà vi è stato o meno, se, cioè, l’operazione sia meramente artificiosa (wholly artificial arrangement), consistendo nella creazione di una forma giuridica che non riproduce una corrispondente e genuina realtà economica» (cfr. Cass. sent. n. 2869/2013).
In definitiva, a parere dei giudici di piazza Cavour per contestare la esterovestizione societaria è importante accertare che si tratti di costruzioni puramente artificiose, prive di effettività economica, il cui scopo essenziale è limitato all’ottenimento di un vantaggio fiscale, attraverso «la fittizia localizzazione della residenza fiscale di una società all’estero, in particolare in un Paese con un trattamento fiscale più vantaggioso di quello nazionale, allo scopo, ovviamente, di sottrarsi al più gravoso regime nazionale» (ex multis, cfr. Cass., sent. n. 33234/2018).


