Collaborazione e diritto al silenzio: la Consulta ridisegna i confini delle preclusioni istruttorie
di Angelo GinexLa pronuncia n. 137/2025 del 28 luglio 2025 della Corte Costituzionale rappresenta una tappa significativa nel percorso evolutivo del diritto tributario. Il tema centrale è l’equilibrio tra il dovere di collaborazione del contribuente e il suo diritto al silenzio, nel quadro delle indagini amministrative e del processo tributario.
La Consulta, chiamata a pronunciarsi sulla legittimità dell’art. 32, D.P.R. n. 600/1973, ha confermato la costituzionalità del sistema delle preclusioni istruttorie, ma ha introdotto limiti sostanziali alla loro applicazione con l’intento di evitare che si traducano in un indebito sacrificio del diritto di difesa garantito dall’art. 24, Costituzione.
Nel caso esaminato, il contribuente non aveva risposto a una richiesta di documenti da parte dell’Agenzia delle Entrate in relazione alla plusvalenza derivante dalla cessione di un terreno edificabile. L’ufficio aveva, quindi, applicato la norma che preclude l’utilizzo in giudizio dei documenti non tempestivamente prodotti, salvo prova di un impedimento incolpevole.
La Corte Costituzionale, pur ritenendo legittima la ratio del meccanismo preclusivo, ha precisato che esso non può assumere una funzione “punitiva” o “afflittiva”, pena la violazione dei principi di proporzionalità e ragionevolezza. Le preclusioni, dunque, sono ammesse solo nella misura in cui garantiscano l’efficienza dell’azione amministrativa senza ledere i diritti fondamentali del contribuente.
Difatti, uno dei punti più rilevanti della sentenza riguarda il rapporto tra il dovere di collaborazione – che si traduce nell’obbligo di fornire informazioni e documenti utili all’accertamento – e il diritto del contribuente a non autoincriminarsi.
La Corte, dunque, ha riconosciuto espressamente che il diritto al silenzio rientra nel nucleo essenziale delle garanzie difensive anche in ambito tributario, in quanto espressione del principio di autodeterminazione e del giusto processo (art. 6, CEDU). Di conseguenza, l’Amministrazione non può imporre un obbligo assoluto di risposta quando le informazioni richieste possano tradursi in un’ammissione di responsabilità fiscale o penale. In tali casi, l’inerzia del contribuente non può comportare effetti preclusivi automatici, ma deve essere valutata alla luce delle circostanze concrete.
Ancora, la Corte ha qualificato le preclusioni previste dall’art. 32, D.P.R. n. 600/1973, come strumenti di razionalizzazione del procedimento, non come sanzioni in senso proprio. Esse non operano in modo generalizzato, ma devono essere circoscritte ai casi in cui l’omissione del contribuente risulti ingiustificata e tale da ostacolare l’accertamento.
Ne consegue che la mancata produzione di documenti favorevoli non può precluderne l’utilizzo in giudizio, a meno che l’omissione non sia frutto di dolo o colpa grave. Allo stesso modo, la Corte ha precisato che il diritto al silenzio non copre condotte elusive o reticenti che mirano a ostacolare il controllo fiscale.
La pronuncia, dunque, ha delineato una zona intermedia tra collaborazione e autodifesa: il contribuente deve cooperare in buona fede, ma conserva la facoltà di non rispondere a richieste che comportino la propria autoaccusa.
Inoltre, la Consulta ha richiamato la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, che ha esteso la tutela del diritto al silenzio anche ai procedimenti di natura amministrativa con finalità punitiva. Di contro, in ambito nazionale, la Corte ha richiamato la sentenza n. 84/2021, nella quale era stata censurata una preclusione analoga in assenza di adeguate tutele procedurali, nonché la decisione n. 137/2025 nella quale viene rappresentata un’evoluzione coerente, spostando quindi l’attenzione sul bilanciamento dinamico tra poteri dell’Amministrazione e diritti difensivi del contribuente.
Seppur apprezzabile nell’impianto, la pronuncia citata ha lasciato aperte alcune questioni operative. Non ha chiarito, ad esempio, come distinguere i documenti “integralmente favorevoli” da quelli “misti”, contenenti elementi anche potenzialmente autoincriminanti.
La valutazione è rimessa al giudice tributario, che dovrà svolgere un’analisi caso per caso, con il rischio di disomogeneità interpretative. Inoltre, la decisione non definisce criteri univoci per l’accertamento dell’impedimento incolpevole, limitandosi a richiedere una verifica di proporzionalità. Tali ambiguità potrebbero incidere sull’effettività del diritto di difesa e generare nuove incertezze applicative, richiedendo un successivo intervento del Legislatore o della giurisprudenza di legittimità per consolidare l’indirizzo interpretativo.
In conclusione, dunque, la sentenza n. 137/2025 ha segnato un punto di svolta nel diritto tributario, rimarcando che il contribuente non è più semplice destinatario passivo degli obblighi di collaborazione, ma soggetto titolare di diritti difensivi autonomi e pienamente riconosciuti.
La Corte Costituzionale, mediante il suo contributo, ha tracciato una linea di equilibrio che preserva l’efficacia dell’accertamento fiscale, senza sacrificare i principi di proporzionalità e tutela della persona.
Resta ora da verificare come la giurisprudenza di merito applicherà tali principi e se la dottrina saprà trasformare questa decisione in un’occasione per ripensare, in chiave garantista, il rapporto tra contribuente e Amministrazione finanziaria.


