4 Febbraio 2016

Sovraindebitamento: la Cassazione fissa la nozione di consumatore

di Massimo Conigliaro
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Prima importante pronuncia della Corte di Cassazione in tema di sovraindebitamento.

I giudici di legittimità (sentenza n. 1869 del 1.2.2016, Pres. Ceccherini, Est. Ferro) hanno affermato un importante principio sulla dirimente questione del requisito tipologico in capo al soggetto titolato a proporre un piano di sovraindebitamento. In estrema sintesi, si è affermato che ciò che rileva non è tanto l’avere svolto – la persona fisica – attività d’impresa o professionale quanto piuttosto l’avere contratto obbligazioni “per far fronte ad esigenze personali o familiari o della più ampia sfera attinente agli impegni derivanti dall’estrinsecazione della propria personalità sociale, dunque anche a favore di terzi, ma senza riflessi in un’attività d’impresa o professionale propria”.

In pratica, anche l’imprenditore o il lavoratore autonomo può proporre un piano del consumatore, purché destinato a pagare debiti sorti per ragioni familiari in senso ampio.

La questione non è di poco momento e la sentenza della Cassazione prova a dirimere per la prima volta i molteplici dubbi in merito ai requisiti soggettivi ed oggettivi del debitore.

Ad oggi è apparso chiaro che il piano del consumatore è riservato ai soggetti che, privi di partita iva, hanno contratto debiti di natura privata e per ragioni legate alla vita quotidiana. In tal senso la giurisprudenza ha ritenuto applicabile la norma a consumatori che hanno contratto debiti per ristrutturare casa (Tribunale di Catania, decreto 17.6.2014) ovvero per aiutare familiari malati (Tribunale Verona, decreto 8.5.2015), fermo restando il requisito della meritevolezza e, quindi, la ragionevole previsione di poterli assolvere al momento della loro insorgenza.

Diverso è il caso del lavoratore autonomo o dell’imprenditore non fallibile (sotto soglia o agricolo, ad esempio) la cui posizione debitoria è un mix di obbligazioni familiari e professionali/imprenditoriali. L’opinione comune degli interpreti – in questo periodo di prima applicazione della norma – è stata quella di poter ricorrere al solo accordo di ristrutturazione (e dunque ad una procedura che prevede il consenso del 60% dei creditori) e non anche al piano del consumatore (la cui omologazione è rimessa al giudice, senza voto dei creditori).

La Corte di Cassazione con la sentenza n. 1896/16 – dopo un’approfondita esegesi della norma – offre una interessante lettura in virtù della quale è possibile distinguere la natura dei debiti, segregandoli in due differenti categorie, una privata ed una imprenditoriale o professionale. E tale circostanza non preclude la possibilità di definire il debitore “consumatore” e consentirgli l’accesso al piano.

I Giudici di legittimità danno atto di una lettura alternativa e più restrittiva della questione, ma precisano di non condividere l’opzione volta ad affermare un intento precettivo assoluto dell’art. 6, comma 2, lett. b) della L. 3/2012, che circoscriverebbe la figura del consumatore a chi intende ristrutturare debiti preesistenti che non sono sorti da attività d’impresa o professione, nemmeno in parte.

Si precisa infatti che la legge non fa parola di una matrice omogenea assoluta dell’insolvenza, altri essendo i requisiti scrutinabili a questo fine, come soprattutto all’art. 12 bis c. 3, se il giudice “esclude che il consumatore ha assunto obbligazioni senza la ragionevole prospettiva di poterle adempiere ovvero che ha colposamente determinato il sovra indebitamente, anche per mezzo di un ricorso al credito non proporzionato alle proprie capacità professionali”.

Il richiamo è dunque più alla qualità dei debiti da ristrutturare, in sé considerati nella loro composizione finale, piuttosto che nell’attività svolta dal soggetto proponente. Sostiene la Cassazione che “non vi sono margini per escludere dall’accesso a tale procedura (…) tutti quei soggetti che abbiano assunto obbligazioni composite e che vogliano in tal modo, cioè come consumatori, ristrutturarle”.

In tale contesto il piano del consumatore si offre come modello di composizione della crisi della persona fisica, che non consente però di dedurre debiti d’impresa o professionali; in questo caso il sovraindebitato rinuncia all’accordo con tutti i creditori e punta ad un accordo unilaterale alla stregua di una proposta di ristrutturazione dei debiti e di soddisfacimento dei crediti rivolta al tribunale, al quale compete poi di approvarla attraverso l’omologazione.   Si spiega così la necessità di una puntuale ricognizione della nozione di consumatore al fine di valutare quella meritevolezza che giustifica la deroga alla regola del voto dei creditori.

Risulta quindi necessaria la tracciabilità delle cause dell’insolvenza, che non devono avere origine in attività d’impresa o di lavoro autonomo, che consentano “un sicuro ancoramento tipologico alla figura del debitore compromesso in atti di rischio non speculativo o comunque proprio dell’intermediazione organizzativa”.

Conclude la Corte di Cassazione affermando il principio di diritto che la nozione di consumatore (e dunque di soggetto abilitato al piano) non deve avere riguardo in sé e per sé ad una persona priva dal lato attivo di relazioni d’impresa o professionali, attuali o pregresse, purchè le stesse non abbiano dato vita ad obbligazioni residue non ancora soddisfatte al momento della presentazione del piano. Diversamente, il debitore – non più consumatore – potrà fruire dell’accordo di ristrutturazione e dovrà ottenere il consenso dei creditori (60%).

Da notare infine un’importante inciso della sentenza che, laddove richiama “le esigenze personali o familiari o della più ampia sfera attinente agli impegni derivanti dall’estrinsecazione della propria personalità sociale, aggiunge la precisazione dunque anche a favore di terzi, ma senza riflessi in un’attività d’impresa o professionale propria”. Sembrerebbe aprirsi la porta alla possibilità di considerare nel piano anche i debiti derivanti da impegni presi a favore di terzi, quali garanzie o fideiussioni, purché gli stessi non abbiano riflessi in una propria attività d’impresa. Cosa si intende con tale affermazione? Potranno essere considerate le somme sborsate a fronte di garanzie rilasciate a società di parenti e amici, purchè non siano proprie società? Ad oggi tale possibilità sembrava esclusa dalla giurisprudenza: il Tribunale di Bergamo (Decreto 12.12.2014) e quello di Milano (Ord. 16.5.2015) avevano escluso tale possibilità. La Cassazione sembra invece di diverso avviso, con ciò accrescendo il potenziale interesse per la procedura di sovraindebitamento.