17 Settembre 2013

Sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte

di Andrea Carinci
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L’art. 11 del D.lgs. n.74/2000 punisce chiunque al fine di sottrarsi al pagamento delle imposte sui redditi o dell’IVA ovvero di interessi o sanzioni amministrative di ammontare complessivo superiore ad € 50.000, aliena simulatamente o compie altri atti fraudolenti sui propri o su altrui beni idonei a rendere in tutto o in parte inefficace la procedura di riscossione coattiva.

La sanzione prevista è la reclusione da sei mesi a quattro anni, elevati ad un anno fino a sei anni nel caso in cui l’ammontare dell’imposta, sanzioni ed interessi sia superiore ad € 200.000.

Il reato di sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte (così la rubrica dell’articolo) presidia l’interesse alla regolare percezione dei tributi da parte dello Stato contro eventuali azioni fraudolente dirette ad intaccare la garanzia patrimoniale dei contribuenti verso il Fisco.

Al primo comma è disciplinata la condotta del contribuente che, mediante alienazione simulata o altri atti fraudolenti, al fine di compromettere la buona riuscita della procedura di riscossione, occulta o riduce la propria consistenza patrimoniale.

Si tratta – va subito rimarcato – di un reato di pericolo (caratteristica questa assolutamente peculiare a tale reato, dal momento che il D.Lgs. n.74/2000 prevede altrimenti solo reati di danno), rispetto al quale è sufficiente la mera idoneità della condotta del contribuente a impedire il soddisfacimento totale o parziale del Fisco. La lesione in concreto del credito spettante al Fisco non rappresenta infatti un elemento costitutivo del reato, nel senso che non occorre che si realizzi altresì l’evento danno, qui integrato dal pregiudizio per l’azione esecutiva. Sul punto l’orientamento della giurisprudenza appare assolutamente pacifico (da ultimo Cass. pen. n. 28796/13). Si afferma così che ai fini del perfezionamento non va richiesto neppure l’avvenuto avvio di una procedura di riscossione, dal momento che il riferimento alla procedura, quale emerge dal dato letterale della norma, “appartiene al momento intenzionale e non alla struttura del fatto e non vi è alcun riferimento alle condizioni previste precedentemente dall’art. 97, co. sesto, del d.p.r. 602 del 1973” (Cass. pen. n. 45730/12). Ciò, al punto di giungere ad ammettere che il reato possa configurarsi anche nel caso in cui sia comunque intervenuto il pagamento dell’imposta (Cass. pen. n. 46833/12).

Al contempo, però, onde evitare un’eccessiva dilatazione del campo di applicazione dell’illecito, si ritiene – soprattutto in dottrina – che al tempo di realizzazione della condotta la procedura di riscossione coattiva sia quanto meno prevedibile, come tipicamente accade nel caso di notifica (almeno) di un avviso di accertamento ovvero di avvio di un’ispezione o verifica.

La natura di reato di pericolo impone al giudice di svolgere un giudizio ex ante di prognosi postuma, collocato idealmente al momento di compimento degli atti fraudolenti, in merito all’efficacia potenzialmente depauperatoria della condotta perpetrata per sottrarsi al pagamento dell’imposta sui redditi o sul valore aggiunto. Si tratta di un giudizio di mera idoneità, che – come detto – prescinde dall’apprezzamento dell’effettivo verificarsi dell’evento dannoso (il mancato pagamento). Sul punto la casistica è eterogenea: accanto alle ipotesi, peraltro positivizzate, del compimento di atti simulati (ad esempio fittizi preliminari di vendita; cfr. Cass. pen. n. 45730/12), sono stati di volta in volta ascritti alla fattispecie la spoliazione degli elementi attivi di una società allo scopo di favorirne la liquidazione (Cass. pen. n. 37389/13); il compimento in sequenza di una serie successiva di compravendite, carente di una qualsiasi giustificazione, in grado di rendere complessa l’individuazione del destinatario finale dei beni ed il loro recupero alle ragioni erariali (Cass. pen. n. 19524/13); la richiesta alla banca di cambiare la somma depositata in assegni di piccolo taglio non soggetti all’obbligo di tracciabilità (Cass. pen. n. 28796/13). Addirittura, se finalizzata alla sottrazione dei beni alla riscossione, anche la costituzione di un fondo patrimoniale (Cass. pen. n. 40561/12).

Per quanto concerne invece l’elemento soggettivo, la norma richiede in capo al soggetto agente il dolo specifico di sottrarsi al pagamento del suo debito: non quindi qualunque atto astrattamente idoneo a compromettere la consistenza della garanzia patrimoniale, ma solo quelli preordinati a pregiudicare l’eventuale azione esecutiva dello Stato.

È un reato proprio (nonostante la formula impiegata “chiunque”), dal momento che può essere integrato solo da chi sia debitore di determinate imposte. Peraltro, di recente è stato affermato che la condotta di cui all’articolo 11 rileva solamente se finalizzata alla sottrazione del pagamento di imposte sui redditi o sul valore aggiunto (uniche imposte a beneficiare tradizionalmente di un enforcement penale), non trovando invece applicazione nel caso di pagamenti di ritenute sul reddito da lavoro dipendenti, su debiti previdenziali o su somme pertinenti a rateizzazioni (Cass. pen. n. 37389/13).

Infine, si ricorda che l’art. 11 è stato oggetto di una recente novella (ad opera della L. 122/2010), volta a rafforzare ulteriormente il presidio penalistico a garanzia dell’interesse erariale. È stata così eliminata la clausola di riserva (“salvo che costituisca più grave reato”) e reso pertanto ipotizzabile un concorso formale di reati con il reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale.