23 Ottobre 2013

Sono conti di terzi … o no?

di Massimiliano Tasini
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Nell’accertamento bancario, nella pratica sovente l’Amministrazione finanziaria non si limita ad indagare sui conti dello specifico contribuente sul quale intende porre in essere un accertamento fiscale, bensì allarga la cerchia alle persone prossime al contribuente, come ad esempio il coniuge, i parenti, i soci, i dipendenti, gli amministratori di società da esso possedute. Tutte persone vicine al contribuente e che in linea astratta potrebbero fungere da “prestanome”, vale a dire potrebbero prestarsi per occultare proventi sottratti a tassazione.

In merito alla utilizzabilità dei movimenti in entrata ed in uscita transitati su conti riconducibili a tali soggetti, ed in mancanza di una soluzione sul piano normativo, la Cassazione ha fornito soluzioni controverse.

In una prima fase, la Suprema Corte ha affermato che, nel caso di conti intestati a terzi, le presunzioni legali di imponibilità, previste dalle norme – nella fattispecie dall’art.32 del DPR n.600/1973 – non possono operare in modo automatico in mancanza di una specifica e concreta dimostrazione della natura fittizia dell’intestazione del rapporto bancario a terzi con il fine di far risultare come altrui operazioni in realtà compiute dal contribuente.

Questa tesi, risalente ai primi anni duemila, si riscontra dall’esame della sentenza 28 giugno 2001 n.8829 poi confermata nella successiva sentenza 14 novembre 2003 n.17243: in tali occasioni, la Corte ha ritenuto che le risultanze di conti correnti bancari, soprattutto quando si tratti di conti intestati a soggetti diversi da quelli sottoposti a verifica, possono essere invocate a sostegno di presunti acquisti e vendite in evasione di imposta qualora risultino concreti elementi che autorizzino a collegare quei movimenti con operazioni commerciali del soggetto nei cui confronti si intenda procedere ad accertamento.

Questo orientamento è stato però “stroncato” dalla sentenza della Cassazione 12 settembre 2003, n.13391, nella quale si legge che l’Amministrazione potrebbe utilizzare non solo i conti correnti intestati alla società medesima, bensì anche quelli intestati ai soci ed agli amministratori, allorché risulti provata dal Fisco, anche tramite presunzioni, la natura fittizia della intestazione, o, comunque, la sostanziale riferibilità all’ente dei costi medesimi o di alcuni loro singoli dati. Di questa sentenza, interessa particolarmente rilevare il passaggio in cui la Corte giudica corretta la valutazione del Giudice di merito secondo la quale la composizione della compagine sociale – a ristretta base familiare – farebbe legittimamente presumere un diretto collegamento tra i conti intestati ai due soci e quelli della società.

Accedendo a questa seconda impostazione, da una “specifica e concreta dimostrazione” si passa ad una dimostrazione su basi presuntive, fondata peraltro su un unico elemento, precisamente la ristrettezza della base familiare.

Questa tesi, assai drastica, è stata espressa anche nella sentenza 1 aprile 2003, n. 4987, nella quale viene rilevato come il rapporto intercorrente tra società da un lato e soci/amministratori dall’altro è talmente stretto da realizzare una sostanziale identità di soggetti, tali da giustificare automaticamente, salvo prova contraria, l’utilizzazione dei dati raccolti.

Infine, il terzo filone interpretativo, consacrato nella sentenza n.17387/2010, nella quale la Suprema Corte, “mediando” tra le due opposte tesi, afferma che l’estensione degli accertamenti bancari a terzi si giustifica solo in presenza di più indizi, e dunque il mero elemento costituito dalla ristrettezza della base familiare è “corroborato” dalla presenza di un ulteriore indizio, con esso convergente.

Quest’ultima lettura è stata confermata dall’ordinanza n.16575 del 2 luglio 2013, nella quale la Corte afferma che l’utilizzazione dei dati risultanti dalle copie dei conti correnti bancari acquisiti dagli istituti di credito non può ritenersi limitata, in caso di società di capitali, ai conti formalmente intestati all’ente, ma riguarda anche quelli formalmente intestati ai soci, amministratori o procuratori generali, allorché risulti provata dall’Amministrazione finanziaria, anche tramite presunzioni, la natura fittizia dell’intestazione, o, comunque, la sostanziale riferibilità all’ente dei conti medesimi o di alcuni loro singoli dati. Se occorre fornire questa prova è perché, evidentemente, la “comunanza” al contribuente di questi soggetti è importante ma non decisiva.

Viceversa, questa lettura è stata invece contrastata dalla precedente sentenza 14 dicembre 2012, n. 23079 secondo cui la riconducibilità al contribuente di conti di terzi si dà scontata negli ovvi casi di vicinanza tra contribuente ed intestatario dei conti correnti bancari.

Appare quindi indispensabile un intervento della Suprema Corte a Sezioni Unite per dirimere definitivamente la questione.