13 Luglio 2019

Scambi commerciali tra imprese residenti: valutazione dell’antieconomicità

di Marco Bargagli
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L’articolo 110, comma 7, Tuir prevede che: “I componenti del reddito derivanti da operazioni con società non residenti nel territorio dello Stato, che direttamente o indirettamente controllano l’impresa, ne sono controllate o sono controllate dalla stessa società che controlla l’impresa, sono determinati con riferimento alle condizioni e ai prezzi che sarebbero stati pattuiti tra soggetti indipendenti operanti in condizioni di libera concorrenza e in circostanze comparabili, se ne deriva un aumento del reddito. La medesima disposizione si applica anche se ne deriva una diminuzione del reddito, secondo le modalità e alle condizioni di cui all’articolo 31-quater del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600. Con decreto del Ministro dell’economia e delle finanze, possono essere determinate, sulla base delle migliori pratiche internazionali, le linee guida per l’applicazione del presente comma”.

In merito, anche nel corso di un’eventuale verifica fiscale, le condizioni contrattuali stabilite formalmente tra le parti nelle transazioni economiche e commerciali, pur costituendo il punto di partenza per qualsiasi analisi dei prezzi di trasferimento, devono essere attentamente esaminate per verificare se e in quale misura riflettano la realtà dei fatti, apportando i necessari correttivi, qualora tale ultima circostanza non risulti rispettata (cfr. Manuale in materia di contrasto all’evasione e alle frodi fiscali, circolare n. 1/2018 del Comando Generale della Guardia di Finanza volume III – parte V – capitolo 11 “Il contrasto all’evasione e alle frodi fiscali di rilievo internazionale”, pag. 368 ).

Tuttavia, giova ricordare che le disposizioni antielusive previste in tema di transfer price rilevano solo tra imprese italiane e imprese non residenti, tutte appartenenti allo stesso Gruppo.

Sul punto, il legislatore ha finalmente posto chiarezza su un tema molto controverso che, in passato, aveva generato aspri contenziosi tra il Fisco e il contribuente.

Attualmente, per espressa disposizione normativa (ex articolo 5, comma 2, D.Lgs. 147/2015), la disposizione di cui all’articolo 110, comma 7, Tuir, deve essere interpretata nel senso che la disciplina ivi prevista non si applica per le operazioni tra imprese residenti o localizzate nel territorio dello Stato.

Di conseguenza, la normativa sul c.d. “transfer pricing domestico” è del tutto estranea al nostro ordinamento giuridico, come peraltro confermato da parte della giurisprudenza di legittimità.

La Corte di cassazione (sentenza n. 23551 del 20.12.2012), aveva già escluso l’utilizzabilità del criterio del valore normale ex articolo 9 Tuir per determinare i ricavi derivanti da cessioni di beni avvenute tra società del medesimo gruppo tutte aventi sede in Italia, sul duplice assunto che detto criterio è dettato dalla Legge «solo per le cessioni tra una società nazionale ed una estera» e, facendo riferimento ai listini del cedente ed agli “sconti d’uso”, «presuppone che la cessione sia avvenuta in regime di libera concorrenza, verso soggetti estranei al gruppo di appartenenza del cedente».

Tale importante aspetto è stato confermato di recente anche dalla suprema Corte di cassazione, con la sentenza n. 16948/2019 del 25.06.2019, che ha richiamato i vari precedenti giurisprudenziali che si sono espressi nel corso del tempo.

Tuttavia, anche a livello domestico permane la valutazione di un’eventuale “condotta antieconomica” tenuta dei vari operatori economici – tutti residenti in Italia – appartenenti ad uno stesso Gruppo di imprese.

Sulla base di tale approccio ermeneutico, infatti, a fronte di una valutazione di antieconomicità delle operazioni poste in essere, l’Amministrazione finanziaria è legittimata a procedere all’accertamento della maggiore base imponibile a fronte di redditi sottratti a tassazione (ex articolo 39, comma 1, lett. d, D.P.R. 600/1973).

Infatti sulla base di un principio immanente all’ordinamento tributario italiano, chiunque svolga un’attività economica dovrebbe, secondo l’id quod plerumque accidit, indirizzare le proprie condotte verso una riduzione dei costi ed una massimizzazione dei profitti.

Sotto tale profilo la valutazione del comportamento antieconomico si articola sulla base delle seguenti direttrici:

  • se i costi sostenuti dall’impresa sono eccessivi e sproporzionati, l’Amministrazione finanziaria può contestare (in materia di imposte dirette e, in termini più limitati e rigorosi, di Iva), l’antieconomicità delle spese che assumono rilievo, sul piano probatorio, come indice sintomatico della carenza di inerenza. Di conseguenza, spetta al contribuente dimostrare la regolarità delle operazioni in relazione allo svolgimento dell’attività d’impresa e alle scelte imprenditoriali (Corte di cassazione sentenza n. 18904 del 17.07.2018);
  • qualora i profitti siano eccessivamente bassi, l’incongruità costituisce indice di un possibile occultamento (parziale) del prezzo, che legittima, anche in tale circostanza, la ricostruzione induttiva del reddito.

In buona sostanza, anche se la normativa in tema di prezzi di trasferimento non è in linea di principio applicabile alle transazioni avvenute tra imprese residenti in Italia, lo scostamento dal c.d. “valore normale” appare suscettibile, a parere degli ermellini, di assumere rilievo quale parametro meramente indiziario: l’operazione che si pone fuori dai prezzi di mercato costituisce una possibile anomalia, “sì da poter giustificare in assenza di elementi contrari l’accertamento, con conseguente onere in capo al contribuente di dimostrare che essa non sussiste.

In conclusione, a parere dei giudici di piazza Cavour, vanno affermati i seguenti principi di diritto:

  • le transazioni infragruppo interne non sono soggette alla valutazione del valore normale ex articolo 9 Tuir, né una eventuale alterazione rispetto al prezzo di mercato può, di per sé, fondare una valutazione di elusività dell’operazione“;
  • “lo scostamento dal valore normale del prezzo di transazione può assumere rilievo, anche per operazioni infragruppo interne, quale elemento indiziario ai fini della valutazione di antieconomicità delle operazioni“.
La gestione delle liti con il fisco