20 Settembre 2016

Sanzioni per il mancato assolvimento dell’Iva con il reverse charge

di Luca Caramaschi
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Dopo aver analizzato, in due precedenti contributi, le fattispecie sanzionatorie “speculari” disciplinate dai commi 9-bis1 e 9-bis2 dell’articolo 6 del D.Lgs. 471/1997 (errata emissione di fattura in Iva per operazioni soggette a reverse charge ed errata applicazione del reverse charge per operazioni soggette al regime Iva ordinario), andiamo ora ad esaminare l’ipotesi sanzionatoria descritta nel riformulato comma 9-bis del citato articolo 6.

Tale fattispecie presuppone che il cedente/prestatore emetta correttamente una fattura soggetta al regime dell’inversione contabile (detta anche ad “aliquota zero”) e che la consegni al cessionario/committente, il quale omette di integrare il documento ricevuto non provvedendo alla doppia registrazione (e, quindi, non assolvendo l’imposta), bensì registrandolo solo in prima nota o addirittura non eseguendo alcuna registrazione dello stesso.

È inoltre ipotizzabile una terza violazione, consistente nella doppia rilevazione del documento nei registri Iva acquisti e vendite ma in assenza della sua integrazione con la relativa aliquota; in tale caso vi è chi, in dottrina, propende per la qualificazione della violazione come formale e, quindi, esclusa dalle misure sanzionatorie che andremo di seguito a commentare.

Il primo periodo del comma 9-bis testualmente afferma che “È punito con la sanzione amministrativa compresa fra 500 euro e 20.000 euro il cessionario o il committente che, nell’esercizio di imprese, arti o professioni, omette di porre in essere gli adempimenti connessi all’inversione contabile di cui agli articoli 17, 34, comma 6, secondo periodo, e 74, settimo e ottavo comma, del decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 633, e agli articoli 46, comma 1, e 47, comma 1, del decreto-legge 30 agosto 1993, n. 331, convertito, con modificazioni, dalla legge 29 ottobre 1993, n. 427”.

In relazione ai comportamenti in precedenza esaminati (con l’eccezione riguardante la accennata violazione ritenuta di natura formale), dunque, risulta applicabile al cessionario/committente che omette di eseguire gli adempimenti previsti dalla disciplina del reverse charge, una sanzione fissa che va da 500 a 20.000 euro.

Le ragioni che stanno alla base della previsione di una sanzione in misura fissa (rispetto ad un sistema previgente che richiedeva l’applicazione di una sanzione proporzionale che andava dal 100 al 200 per cento dell’imposta con un minimo di 258 euro) partono dalla considerazione che, in assenza di limitazioni del diritto alla detrazione da parte del cessionario/committente, le violazioni contabili sopra delineate non comportano alcun danno per l’erario. Ciò, peraltro, è in linea con lo spirito della legge delega 23/2014, poi recepito nel D.Lgs. 158/2015 di revisione del sistema sanzionatorio amministrativo tributario, che intende riservare la sanzione fissa a quelle violazioni che non incidono sul tributo, sulla detrazione o sul versamento, riservando al contrario la sanzione in misura proporzionale ai casi in cui è dovuta l’imposta o non compete per intero la detrazione della medesima.

Sul tema della detrazione dell’Iva non assolta da parte del committente/cessionario il comma 9-bis, contrariamente a quanto precisato in modo esplicito nei successivi commi 9-bis1 e 9-bis2, non si pronuncia. Si ritiene tuttavia assodato  che tale diritto alla detrazione (pur se riferito a operazioni per le quali non è stato applicato il meccanismo dell’inversione contabile e in assenza di limitazioni) competa proprio in ragione della filosofia che ha ispirato il nuovo impianto normativo ma anche sulla scia del filone giurisprudenziale comunitario (sentenza cause C-95/07 e C-96/07 caso Ecotrade, sentenza causa C-590/13 caso Idexx e, da ultimo, sentenza causa C-272/13 caso Equoland) che afferma come l’inosservanza di taluni obblighi formali in presenza dei requisiti sostanziali, non può affatto compromettere il diritto alla detrazione del tributo. Va per dovere di completezza osservato come in taluni casi la giurisprudenza nazionale anche recente (si veda la Corte di Cassazione con la sentenza n. 14767/2015) faccia fatica ad allinearsi pienamente ai principi espressi a livello comunitario, sostenendo l’indetraibilità dell’imposta accertata nei casi di omesso reverse charge, allorquando l’accertamento intervenga decorsi i termini per l’esercizio del diritto alla detrazione (che l’articolo 19 del D.P.R. 633/1972 come è noto fissa nel termine di presentazione della dichiarazione relativa al secondo anno successivo a quello nel quale il diritto alla detrazione è sorto).

Un altro aspetto va rimarcato con riferimento al primo periodo del nuovo comma 9-bis. Rispetto al sistema previgente, infatti, la norma estende in modo esplicito l’ambito applicativo, oltre che al comparto dell’Iva in agricoltura (si veda il richiamo alla disciplina dell’articolo 34 comma 6 del D.P.R. 633/1972), anche alle ipotesi di reverse charge “esterno” e ciò in virtù del rimando operato agli articoli 46 comma 1 e 47 comma 1, del D.L. 331/1993, provvedimento che come è noto regola gli scambi intracomunitari. La modifica non è di poco conto se si considera che fino all’avvento di tale modifica le violazioni riguardanti la gestione degli acquisti intracomunitari venivano sanzionate con la misura proporzionale prevista dal comma 1 dell’articolo 6 del D.Lgs. 471/1997 (prima fissata nella misura compresa tra il 100 e il 200 per cento dell’imposta e poi scesa dal 90 al 180 per cento con effetto dal 1° gennaio 2016).

Nelle ipotesi in cui il cessionario/committente soffra di limitazioni del diritto alla detrazione (ad esempio perché svolge operazioni attive esenti che comportano l’applicazione del pro rata generale) è evidente come l’applicazione del meccanismo del reverse charge non sia più “neutrale” ma conduca ad una vera e propria violazione di tipo sostanziale, in quanto dalla doppia registrazione del documento emerge un importo da versare all’Erario che, in assenza di adempimenti, viene quindi evaso.

Il terzo periodo del citato comma 9-bis dell’articolo 6 affronta la questione affermando che “Resta ferma l’applicazione delle sanzioni previste dall’articolo 5, comma 4, e dal comma 6 con riferimento all’imposta che non avrebbe potuto essere detratta dal cessionario o dal committente”. Si tratta, nell’ordine, delle sanzioni per dichiarazione infedele (comprese tra il 90 e il 180 per cento dell’imposta che sarebbe risultata indetraibile) e di quelle per indebita detrazione (pari al 90 per cento dell’imposta che non si sarebbe potuto detrarre). Osservando attentamente le due previsioni richiamate dalla norma non si può non notare come quest’ultima sanzione faccia riferimento ad una ipotesi non perfettamente “calzante” al caso in esame. Nell’omesso reverse charge, infatti, più che di indebita detrazione si parla di mancata liquidazione del debito Iva quale conseguenza dell’omessa integrazione del documento (o auto fatturazione nei casi di cedente/prestatore extracomunitario). Ad ogni modo, il rinvio alla disposizione del comma 6 dell’articolo 6 dovrebbe certamente ritenersi valido per definire l’entità della sanzione. Sul punto, tuttavia, sarebbe auspicabile un chiarimento ufficiale da parte dell’Amministrazione finanziaria per capire in quale modo le due disposizioni vadano coordinate.

Un altro comportamento che provoca l’applicazione delle sanzioni in misura proporzionale è quello già descritto in precedenza, e che consiste nell’inerzia del cessionario/committente il quale non procede nemmeno alla rilevazione della fattura ricevuta ai fini della determinazione del reddito. In tale circostanza il secondo periodo del comma 9-bis dispone che “Se l’operazione non risulta dalla contabilità tenuta ai sensi degli articoli 13 e seguenti del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600, la sanzione amministrativa è elevata a una misura compresa tra il cinque e il dieci per cento dell’imponibile, con un minimo di 1.000 euro”. È chiaro che in assenza di registrazione in contabilità di fatture che richiamano operazioni per le quali non compete il diritto alla detrazione, in tutto o in parte, troveranno applicazione tanto le sanzioni previste dal secondo che dal terzo periodo del citato comma 9-bis.

La disposizione in commento chiude con quella che può essere definita una procedura di “regolarizzazione” che il cessionario/committente deve attivare qualora il cedente/prestatore non emetta la fattura entro un dato termine o l’abbia emessa in modo irregolare, al fine di evitare l’applicazione delle sanzioni previste dal richiamato comma 9-bis. L’ultimo periodo del citato comma testualmente recita che “Le disposizioni di cui ai periodi precedenti si applicano anche nel caso in cui, non avendo adempiuto il cedente o prestatore agli obblighi di fatturazione entro quattro mesi dalla data di effettuazione dell’operazione o avendo emesso una fattura irregolare, il cessionario o committente non informi l’Ufficio competente nei suoi confronti entro il trentesimo giorno successivo, provvedendo entro lo stesso periodo all’emissione di fattura ai sensi dell’articolo 21 del predetto decreto del Presidente della Repubblica n. 633 del 1972, o alla sua regolarizzazione, e all’assolvimento dell’imposta mediante inversione contabile”.

Non si possono non notare in tale previsione evidenti analogie con la procedura contemplata dal precedente comma 8 dell’articolo 6 del D.Lgs. 471/1997, che a questo punto risulterà applicabile per le operazioni non soggette a reverse charge, oltre ai dubbi di una possibile applicazione della procedura dettata dal comma 9-bis alle successive fattispecie sanzionatorie recate dai commi 9-bis1 e 9-bis2 che letteralmente non prevedono al loro interno alcuna procedura di regolarizzazione (che tuttavia, per ragioni equitative, non può ritenersi esclusa).

Oltre a definirne il corretto ambito di applicazione (e a questo, verosimilmente, ci dovrà pensare in via interpretativa l’amministrazione finanziaria), il comma 9-bis presenta poi problemi di coordinamento con almeno un’altra disciplina: il riferimento è alla metodologia di regolarizzazione prevista dall’articolo 46 comma 5 del D.L. 331/1993 per le violazioni riguardanti gli acquisti intracomunitari (ma anche riferita agli acquisti territorialmente rilevanti in Italia nei quali il cedente è soggetto stabilito nella UE). Essa prevede che il cessionario di un acquisto intracomunitario, nel caso di mancato ricevimento della fattura debba procedere ad emettere fattura entro il giorno 15 del terzo mese successivo all’effettuazione dell’operazione, mentre nel caso di fattura recante un corrispettivo inferiore a quello reale, debba emettere fattura integrativa entro il giorno 15 del mese successivo a quello di ricezione della fattura originaria.

Come detto in precedenza, la nuova versione del comma 9-bis interessa ora anche le situazioni di reverse charge “esterno”, quali appunto le operazioni appena citate, ed è quindi lecito chiedersi quale sia la disposizione prevalente. Chi scrive ritiene debba prevalere la procedura di cui al citato comma 5 dell’articolo 46, in quanto procedura “speciale” dettata appositamente per quella fattispecie, ma è evidente, sul punto, la necessità di una conferma da parte dell’Amministrazione finanziaria.

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