14 Marzo 2017

Ritenute sugli interessi esteri al netto dei costi?

di Fabio Landuzzi
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La sentenza della Corte di Giustizia UE del 13 luglio 2016, Causa C-18/15, può obiettivamente aprire scenari nuovi e complessi per quanto concerne l’imposizione dei redditi maturati da soggetti esteri in altri Stati della UE e assoggettati, al momento del loro pagamento, all’applicazione da parte dello Stato della fonte di ritenute in uscita secondo l’ordinamento locale o, ove applicabile, la minore misura prevista dal Trattato contro le doppie imposizioni. Naturalmente, in tutti i casi in cui trova applicazione l’esenzione prevista dalla direttiva interessi–royalties, la questione perde di rilevanza, anche se in via del tutto sussidiaria potrebbe nuovamente assumere importanza in queste circostanze ove l’esenzione fosse negata in sede accertativa da parte dell’Amministrazione finanziaria per via del mancato riconoscimento dei requisiti per poter accedere al beneficio dell’esenzione da ritenuta.

Il caso trattato dalla sentenza della Corte UE si riferiva specificamente al pagamento di interessi, ma il principio affermato e la sostanziale equivalenza delle fattispecie rendono obiettivamente estensibile le affermazioni ivi contenute anche al caso del pagamento delle royalties; ne resterebbero esclusi solo i pagamenti di dividendi perché ovviamente riferiti ad un rapporto associativo e non sinallagmatico.

In pratica, il principio di diritto affermato dalla sentenza in commento è che non è compatibile con il principio della libera prestazione di servizi in ambito europeo una norma nazionale che assoggetti ad imposta i redditi percepiti da un non residente all’interno di uno Stato membro, “senza riconoscere la possibilità di dedurre le spese professionali direttamente connesse all’attività in parola” quando invece tale possibilità è consentita ai soggetti d’imposta residenti.

In altri termini, le ritenute applicate in uscita dal sostituto d’imposta dovrebbero gravare non sul provento lordo percepito dal non residente, bensì sull’importo al netto dei costi professionali sostenuti per la produzione di quel reddito. Come detto, la controversia riguardava il caso di un istituto di credito e quindi attiene agli interessi, ma non vi è apparente ragione per escludere che lo stesso principio debba valere anche per i pagamenti di canoni e royalties soggette a ritenuta in uscita nello Stato della fonte.

La Corte UE ha poi disposto che spetta al giudice nazionale valutare, sulla base appunto del diritto nazionale, quali siano le spese professionali che possono essere considerate come direttamente connesse all’attività che ha generato il profitto imponibile nello Stato della fonte.

E proprio su questo punto si aprono interrogativi tutt’altro che agevoli da risolvere: quali potranno essere le spese professionali riconoscibili come “direttamente connesse”? E come potrà il soggetto estero produrre allo Stato della fonte la relativa prova del sostenimento e della correlazione delle spese stesse? Ed ancora, potrà il sostituto d’imposta essere autorizzato ad applicare la ritenuta alla fonte su un importo del provento al netto di costi “attestati” dal soggetto estero, oppure il recupero della maggiore imposizione subita dal soggetto estero dovrà necessariamente passare attraverso un’istanza di rimborso per consentire un’istruttoria sulla validazione dei costi e del rapporto di connessione con i proventi?

Vi sono quindi questioni pratiche molto serie e complesse, che tuttavia non fanno venire meno l’interesse verso questo arresto giurisprudenziale che, come detto, apre scenari di rilievo sia per il comportamento futuro delle imprese e sia con riguardo alle situazioni del passato, laddove vi fosse l’opportunità di avviare azioni di recupero di imposte assolte all’estero – o assolte in Italia da soggetti esteri – le quali non fossero state poi recuperate in forma di credito per imposte estere secondo l’ordinamento nazionale.

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