Ristretta base societaria e onere della prova contraria ai soci: osservazioni giurisprudenziali
di Luciano SorgatoSecondo i nuovi principi di Governo, sul riparto dell’onere della prova, come ora previsti dal comma 5-bis dell’articolo 7, D.Lgs. 546/1992, l’atto impositivo dev’essere annullato se la prova della sua fondatezza manca o è contraddittoria o se è, comunque, insufficiente a dimostrare in modo circostanziato e puntuale le ragioni oggettive su cui si fonda la pretesa impositiva. La prova deduttiva deve, quindi, fondarsi su un raccordo inferenziale tra il fatto noto e il fatto indotto, capace di rendere percepibile una verità processuale supportata da assoluta ragionevolezza, non ostruita da prospettive valutative divergenti, in quanto, diversamente, la presunzione non riesce compiutamente a esternarsi nella sua struttura ternaria di gravità, precisione e concordanza.
Volendo intentare, sulla base dei nuovi principi di Governo della prova, uno scrutinio di diritto, in ordine alla presunzione che la Corte di cassazione raccorda alla distribuzione extracontabile degli utili con riguardo alle c.d. società a c.d. ristretta base sociale, l’indagine non può non dipartire dall’evidenziare come le sentenze in cui la Corte di cassazione afferma l’ammissibilità della presunzione in esame seguano un ragionamento che fonda il percorso inferenziale fondamentalmente sul caposaldo: “il fatto noto non è costituito dalla sussistenza dei maggiori utili induttivamente accertati nei confronti della società, ma dal vincolo di solidarietà, di complicità e di reciproco controllo dei soci”.
Secondo la Corte di cassazione, la ristretta base proprietaria è sintomatica di complicità, che “normalmente avvince un gruppo così composto” ed evidenzia un “vincolo di solidarietà e di reciproco controllo dei soci che normalmente caratterizza la gestione sociale”.
La Corte di cassazione fonda il suo dogma presuntivo ricorrendo costantemente all’avverbio “normalmente” che, nel paradigma della prova presuntiva, è alla base della c.d. regola di esperienza comune, per cui ciò che avviene nelle società di capitali a ristretta base sociale è normalmente la distribuzione tra i soci dell’imponibile evaso. Ma, come rilevato in dottrina, partecipa anche del fatto notorio che ciò che normalmente avviene, non sempre realmente si verifica. La questione, dunque, attiene all’onere della prova. La dottrina è unanime nel ritenere che tale prova (di non aver percepito l’utile) non spetti al contribuente, ma in base alla normale dialettica processuale, come prima prevista nell’articolo 2697, cod. civ., e ora rinforzata dal nuovo articolo 7, comma 5-bis, D.Lgs. 546/1992, all’Amministrazione finanziaria, in quanto non trattasi di prova contraria, ma bensì di prova integrativa. In dottrina viene, infatti, sottolineato come nel moderno contesto dell’accertamento tributario è molto più semplice per il Fisco addurre degli elementi probatori a sostegno (a integrazione) della presunzione, piuttosto che richiedere al contribuente la prova (talora impossibile) di un fatto negativo. L’Amministrazione, infatti, sfruttando tutti gli strumenti telematici di cui è in possesso e l’enorme banca dati di cui dispone, si trova nella condizione agevole di verificare se i soci hanno acquisito disponibilità patrimoniali, o hanno effettuato maggiori spese in concomitanza con l’accertamento del maggior reddito societario, o se essi evidenzino movimenti finanziari incompatibili con i redditi da loro dichiarati, o, ancora, se il loro tenore di vita è incompatibile con il reddito da essi dichiarato. Per l’unanime dottrina accademica (A. Perrone), quindi, non spetta al contribuente dare la “prova negativa” della mancata percezione dell’utile, ma spetta all’Amministrazione finanziaria integrare gli elementi positivi di riscontro della presunzione della distribuzione. Nei canoni della “gravità” e della “precisione” si rende riscontrabile il criterio della “probabilità”. Quanto alla “gravità”, essa attiene al grado di continuità logica tra il fatto noto e quello ignorato, per cui è grave l’inferenza presuntiva più attendibile tra le diverse inferenze desumibili dallo stesso fatto. Il criterio della “probabilità” deriverebbe ancora più direttamente dal requisito della precisione, in quanto è “precisa” l’inferenza presuntiva “più probabile in connessione con il fatto da provare”. Una presunzione, quindi, per assecondare il paradigma legale della presunzione ex articolo 2729, cod. civ., deve venirsi a rappresentare “nell’inferenza più probabile tra quelle che possono teoricamente derivare dal fatto noto”. La più recente dottrina processual-civilistica ha escluso, e in modo tranciante, la coincidenza delle prerogative indiziarie della verosimiglianza e della probabilità.
La “Verosimiglianza”, infatti, è un concetto connesso alla “normalità” di un accadimento, ma ciò non vuol dire che la manifestazione dell’accadimento sia altresì “probabile”. Per la dottrina sopra citata (A. Perrone) testualmente: “Il difetto (epistemico) della verosimiglianza è che essa si riferisce alla genericità degli eventi, ma non si riferisce al caso concreto. La verosimiglianza riguarda la tipologia “astratta” (il genere) degli eventi, ma non rivela nulla circa l’effettivo verificarsi dell’evento concreto da accertare. Ciò è tipico delle cd “massime di esperienza”. Le regole di esperienza sono state diffusamente studiate in dottrina e la più convincente definizione di “massime di esperienza” risale a Friedrich Stein, il quale, nella sua analisi della concezione sillogistica del giudizio di fatto, ha definito le regole di esperienza come: “le deduzioni o giudizi ipotetici di contenuto generale, indipendenti dal caso concreto, autonome rispetto ai casi dalla cui osservazione sono tratte” (F. Stein, 1893. Per la formulazione italiana del concetto di Stein si veda Canelutti “La prova civile. Parte generale. Il concetto giuridico”, Milano, 1992)
Da tale, condivisa (in dottrina) definizione si evince come le c.d. massime d’esperienza siano solo giudizi rispondenti ad un modello di logicità ipotetica che, pur disponendo di una valenza generale, non si riferiscono con nesso diretto alla concreta fattispecie in controversa. Esse derivano solo dall’esperienza di casi pregressi che non attengono al caso concreto.
La citata dottrina sottolinea come il problema non sia la loro possibilità d’impiego nel processo, ma la loro valenza probatoria e cioè se esse, da sole, siano sufficienti a integrare gli estremi della prova probabile.
Sempre in dottrina si sottolinea come “Il vero è che la massima è il frutto di una generalizzazione ottenuta attraverso l’individuazione di caratteri comuni, presupposti come presenti in eventi passati, con l’esclusione (o la svalutazione) di quei casi passati che potrebbero smentire siffatta generalizzazione” (G. Ubertis “Prova”). In altri termini, nel formulare la massima d’esperienza si considera la conseguenza dei casi simili suggerita dall’esperienza passata e su tale convergenza si effettua la generalizzazione. Questo, però, significa che si omette di considerare il caso diverso che confuta quell’esperienza ed è proprio per tale motivo che la regola d’esperienza si riferisce alla sola tipologia “astratta” di eventi, il cui paradigma giuridico non scarta la prospettiva dell’evento contrario. La massima, quindi, si fonda sul solo grado di certezza già contenuto nella sua premessa, senza aggiungere alcuna ulteriore certezza nella specifica individuazione del caso concreto (Perrone).
Conclusivamente, quindi, il problema, da sempre trascurato negli stereotipi giudicanti della Corte di Cassazione, è che, dovendo una presunzione rivelarsi grave e precisa e quindi probabile, il solo riferimento alla generalizzazione dei casi precedenti asseriti simili, non può essere considerato compatibile con il paradigma legale della presunzione e, quindi, della prova di autentico supporto alla distribuzione extracontabile degli utili, come ora perentoriamente preteso dal comma 5-bis dell’articolo 7, D.Lgs. 546/1992.
13 Marzo 2025 a 9:04
PER AIUTARE IL SILLOGISMO CHE CONDIVIDO, OCCORREREBBE RITORNARE AL FATTO CHE LA PRESUNZIONE DEVE ESSERE SEMPRE SUPPORTATA DA PROVE PLURIME … MAI E POI MAI, DA UNA SOLA …. COSA CHE TRA L’ALTRO LA LETTERA DELLA NORMA DICE E SOLO LE DIFFORMI INTERPRETAZIONI HANNO, A VOLTE ANCHE COMPRENSIBILMENTE, MODIFICATO …