29 Marzo 2021

Rapporti infragruppo domestici: la valutazione dei profili elusivi

di Marco Bargagli
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La scheda di FISCOPRATICO

Come noto, al fine di arginare fenomeni di evasione fiscale internazionale, i prezzi di trasferimento infragruppo devono essere valutati in base al famoso “principio di libera concorrenza” sancito dall’articolo 9 del modello Ocse di convenzione (c.d. arm’slength principle), in base al quale quando due o più imprese pongono in essere tra di loro transazioni commerciali, le relative condizioni economiche e finanziarie devono essere determinate dal mercato.

In buona sostanza, il valore praticato nelle cessioni di beni o servizi tra imprese appartenenti allo stesso Gruppo deve tendenzialmente corrispondere a quello mediamente applicato, in condizioni di libera concorrenza, in un determinato mercato di riferimento per beni o servizi similari, tra soggetti economici indipendenti, non legati da rapporti di controllo o collegamento.

A livello domestico, l’articolo 110, comma 7, Tuir contiene le disposizioni in materia di transfer price prevedendo che: “I componenti del reddito derivanti da operazioni con società non residenti nel territorio dello Stato, che direttamente o indirettamente controllano l’impresa, ne sono controllate o sono controllate dalla stessa società che controlla l’impresa, sono determinati con riferimento alle condizioni e ai prezzi che sarebbero stati pattuiti tra soggetti indipendenti operanti in condizioni di libera concorrenza e in circostanze comparabili se ne deriva un aumento del reddito. La medesima disposizione si applica anche se ne deriva una diminuzione del reddito, secondo le modalità e alle condizioni di cui all’articolo 31-quater del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600”.

Ciò posto occorre domandarci se la disciplina internazionale prevista in tema di prezzi di trasferimento, risulta anche applicabile anche ai rapporti infragruppo avvenuti tra imprese residenti in Italia.

Il legislatore, sulla base di un’interpretazione autentica, ha introdotto una specifica disposizione contenuta nel “decreto internazionalizzazione e crescita imprese” (articolo 5, comma 2, D.Lgs. 147/2015), negando la possibilità di applicare la normativa in rassegna ai rapporti economici e commerciali intercorsi tra soggetti nazionali.

In particolare, la disposizione contenuta nel richiamato articolo 110 Tuir deve essere interpretata nel senso che la disciplina ivi prevista non si applica per le operazioni tra imprese residenti o localizzate nel territorio dello Stato.

Tuttavia, l’ordinamento domestico contiene ulteriori disposizioni introdotte con il precipuo scopo di contrastare manovre di pianificazione fiscale, attuate anche da aziende italiane, poste in essere con la chiara finalità di ridurre o ottimizzare il carico complessivo fiscale a livello di Gruppo.

In tale contesto, nel corso di un’attività ispettiva, i verificatori potranno valutare gli eventuali profili di antieconomicità delle operazioni effettuate dalle quali, talvolta, possono anche scaturire percentuali di ricarica “non congrue” o, in casi estremi, anche “margini negativi” che, in linea di principio, possono giustificare l’applicazione di accertamenti fiscali di tipo “induttivo-presuntivo”.

Sul punto giova ricordare che ai fini delle imposte sui redditi, ai sensi dell’articolo 39, comma 1, lett. d) D.P.R. 600/1973, l’ufficio può procedere alla rettifica del reddito d’impresa delle persone fisiche se l’incompletezza, la falsità o l’inesattezza degli elementi indicati nella dichiarazione e nei relativi allegati risulta dall’ispezione delle scritture contabili o da altre verifiche ovvero dal controllo della completezza, esattezza e veridicità delle registrazioni contabili sulla scorta delle fatture e degli altri atti e documenti relativi all’impresa, nonché dei dati e delle notizie raccolti dall’ufficio.

La ricostruzione del reddito imponibile e la correlata capacità contributiva avviene quindi applicando il c.d. “accertamento analitico-induttivo” in base al quale l’Amministrazione finanziaria, sulla base di “presunzioni semplici”, connotate dai requisiti di gravità, precisione e concordanza, può rilevare l’esistenza di attività imponibili non dichiarate (ricavi non dichiarati), ossia l’inesistenza di passività dichiarate (costi non deducibili), ricostruendo induttivamente il reddito.

In tema di accertamento induttivo la Corte di cassazione, sezione 5^ civile, con l’ordinanza n. 8176 del 24.03.2021, nel respingere la tesi proposta da parte dell’Agenzia delle entrate, ha espresso importanti principi di diritto proprio relazione alla “disciplina domestica dei prezzi di trasferimento”.

Gli Ermellini hanno affermato che l’accertamento analitico-induttivo può fondarsi anche sull’entità del reddito dichiarato ove in contrasto evidente con il comune buon senso e con le regole basilari della ragionevolezza, specie nel caso in cui la difformità della percentuale di ricarico raggiunga livelli di “abnormità” e “irragionevolezza”.

Nel caso esaminato dai Supremi Giudici, già richiamato, più nel dettaglio, nel precedente contributo, le transazioni infragruppo avevano determinato un ricarico “negativo” con conseguente apparente “comportamento antieconomico” a fronte del quale il contribuente aveva dichiarato: “l’unica ragione dell’anomalia dei conti aziendali si rinviene in una strategia infragruppo”.

In particolare, il giudice di appello aveva rilevato che una società a responsabilità limitata aveva ceduto – per un breve periodo – merce ad altra impresa correlata (una società in accomandita semplice) ad un prezzo superiore a quello di mercato, con successiva cessione (da parte della società in accomandita semplice), degli stessi prodotti, ad un prezzo inferiore rispetto a quello di acquisto.

Di conseguenza, dalla transazione commerciale scaturiva un margine di utile negativo che avrebbe, a parere dell’Ufficio, giustificato l’accertamento induttivo.

In passato la suprema Corte di cassazione (cfr. ex multis sentenza n. 16948/2019) ha valorizzato in tema di trasfer price interno la valutazione sulla “antieconomicità” della condotta, in presenza della quale l’Amministrazione finanziaria può procedere ad accertamento analitico-induttivo in base al principio per cui chiunque svolga un’attività economica dovrebbe, secondo l’id quod plerumque accidit, indirizzare le proprie condotte verso una riduzione dei costi ed una massimizzazione dei profitti.

Tuttavia, lo scostamento dal “valore normale” assume rilievo quale parametro “meramente indiziario”.

In definitiva, l’operazione che si pone al di fuori dei prezzi di mercato costituisce una possibile anomalia tale da poter giustificare, in assenza di elementi contrari, l’accertamento tributario di un maggiore reddito, con conseguente onere in capo al contribuente di dimostrare che essa non sussiste.

Tuttavia, nel caso di specie, i giudici di piazza Cavour hanno accolto la tesi del contribuente confermata dalla pronuncia del giudice di merito che, con apprezzamento di fatto, ha escluso che una cessione di azienda avesse carattere antieconomico, in quanto l’operazione contestata si collocava “all’interno di una strategia economica diretta a raggiungere un risultato nell’interesse di tutte le società del gruppo”.