16 Febbraio 2017

Prova rafforzata per le CFC passive income

di Marco Bargagli
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Come noto, con il decreto crescita e internazionalizzazione delle imprese (D.Lgs. 147/2015), in vigore dal 7 ottobre 2015, il legislatore ha reso facoltativa la presentazione dell’interpello che consente di disapplicare la disciplina CFC, mantenendo l’obbligo di indicare in dichiarazione i redditi conseguiti dalle imprese estere controllate, ai fini di un completo monitoraggio da parte del Fisco.

Infatti, nel corso di un’eventuale controllo fiscale, il contribuente sarà comunque tenuto a fornire agli uffici dell’Amministrazione finanziaria le esimenti tassativamente previste dalla normativa tributaria, al ricorrere delle quali non opera la tassazione per trasparenza dei redditi conseguiti all’estero da parte delle imprese estere controllate (c.d. CFC legislation).

Nello specifico, ai sensi dell’articolo 167, comma 5, lettere a) e b) del Tuir, il regime CFC non si applica se il soggetto residente in Italia dimostra, alternativamente, che la società non residente svolge un’effettiva attività industriale o commerciale, come sua principale attività, nel mercato dello Stato o territorio di insediamento, oppure che dalle partecipazioni non consegue l’effetto di localizzare i redditi in Stati o territori a fiscalità privilegiata.

In buona sostanza, la normativa anti – paradiso fiscale non opera qualora venga dimostrata la reale operatività e l’effettiva attività svolta dalla controllata estera, ossia la mancanza di intenti o effetti elusivi finalizzati alla distrazione di utili dall’Italia verso Paesi o territori a fiscalità privilegiata.

Con riferimento alla documentazione necessaria per dimostrare l’assenza di intenti elusivi riferiti alla partecipazione detenuta nella CFC [ex articolo 167, comma 5, lett. b) del Tuir] la circolare AdE 51/E/2010 ha chiarito che il contribuente è tenuto a presentare la documentazione contabile e fiscale idonea a dimostrare che i redditi conseguiti dalla società estera collegata o controllata sono prodotti in misura non inferiore al 75 per cento in Stati o territori diversi da quelli a fiscalità privilegiata ed ivi sottoposti integralmente a tassazione ordinaria.

In particolare, dovrà essere esibita la documentazione fiscale attestante l’effettivo ed integrale assoggettamento dei redditi medesimi a tassazione ordinaria nell’anno per il quale è richiesta la disapplicazione della normativa, unitamente alla sintetica illustrazione del sistema di tassazione vigente, ai fini delle imposte sui redditi, nel Paese o territorio di produzione dei redditi.

Inoltre, prosegue il citato documento di prassi, nel caso in cui si voglia invocare la seconda esimente prevista dall’ordinamento tributario, dimostrando la congruità del “carico fiscale complessivo di gruppo”, il contribuente dovrà produrre dati e documenti da cui risulti la composizione e le modalità di determinazione del reddito della società black list di livello più elevato, l’eventuale distribuzione di tale reddito alle società sovraordinate, sino alla controllante residente, e la misura della tassazione cui è stato complessivamente assoggettato il reddito prodotto dalla CFC.

Con specifico riferimento alle imprese estere denominate “passive income companies”, ossia le controllate che hanno conseguito in maggioranza proventi di tipo passivo (interessi, dividendi, royalties e servizi infragruppo), la normativa di riferimento (articolo 167, comma 5-bis, del Tuir) – ai fini della disapplicazione della normativa in rassegna – richiede una “prova rafforzata”.

Infatti, per espressa disposizione normativa, l’esimente relativa all’esercizio di un’effettiva attività industriale o commerciale, come principale attività nel mercato dello Stato o territorio di insediamento, non si applicherebbe qualora i proventi della società o altro ente non residente provengano per più del 50% dalla gestione, dalla detenzione o dall’investimento in titoli, partecipazioni, crediti o altre attività finanziarie, dalla cessione o dalla concessione in uso di diritti immateriali relativi alla proprietà industriale, letteraria o artistica, nonché dalla prestazione di servizi nei confronti di soggetti che direttamente o indirettamente controllano la società o l’ente non residente, ne sono controllati o sono controllati dalla stessa società che controlla la società o l’ente non residente, ivi compresi i servizi finanziari.

Quindi, in base ad una prima interpretazione letterale della disposizione, quando sia verificata la prevalenza di “passive income” iscritti nel conto economico della società estera, sembrerebbe esclusa la possibilità per il soggetto residente di avvalersi della prima esimente [articolo 167, comma 5, lettera a) del Tuir] e, dunque, di dimostrare l’esercizio di un’effettiva attività di impresa nel mercato dello Stato di insediamento.

Tuttavia, l’Agenzia delle Entrate, con la citata circolare AdE 51/E/2010, ha precisato che al realizzarsi dei presupposti di cui all’articolo 167, comma 5-bis, del Tuir, l’esame dell’Amministrazione finanziaria sarà diretto a verificare non solo la sussistenza degli elementi normalmente rilevanti ai fini della disapplicazione della disciplina CFC per il ricorrere della prima esimente [articolo 167, comma 5, lettera a) del Tuir], ovverosia l’effettività sostanziale della struttura estera e dell’attività dalla stessa svolta nel mercato dello Stato o territorio di insediamento, ma anche la mancanza di intenti o effetti elusivi finalizzati alla distrazione di utili dall’Italia verso Paesi o territori a fiscalità privilegiata [ex articolo 167, comma 5, lett. b) del Tuir].

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