3 Aprile 2015

Proposte di lettura da parte di un bibliofilo cronico

di Andrea Valiotto
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Il Diavolo zoppo e il suo Compare –
Talleyrand e Fouché o la politica del tradimento
DIAVOLOAlessandra Necci
Marsilio editore
Pagine – 666
Prezzo – 19,00


Due celebri uomini politici, Charles-Maurice de Talleyrand-Périgord e Joseph Fouché, vissuti a cavallo fra il ‘700 e ‘800 in Francia. Cresciuti entrambi in seno alla Chiesa, che hanno poi rinnegato, Ministro degli Esteri del Direttorio, di Napoleone e della Restaurazione l’uno, Ministro della Polizia l’altro, nemici quindi complici a seconda delle convenienze, sono divenuti il paradigma stesso dell’opportunismo politico, tanto da essere soprannominati “banderuole”. In realtà, Talleyrand e Fouché sono molto più di questo. Protagonisti di un’epoca straordinaria, quella fra Ancien Régime e Restaurazione, nella quale si è costruita la Francia e anche l’Europa moderna, sono riusciti a sopravvivere al crollo della monarchia, alla Rivoluzione, al Terrore, al Direttorio, all’Impero, alla Restaurazione, rivestendo quasi sempre ruoli di primissimo grado. Dichiaratamente infedeli ai regimi e agli uomini, hanno cercato di essere, soprattutto nel caso di Talleyrand, fedeli alla Francia. Intorno a loro, dietro di loro, c’è tutto un mondo che si muove e cambia, in una fase tragica e travagliata, densa di genio e di grandezza ma anche di drammi e atrocità. Freddi e sofisticati tessitori di strategie e intrighi, sono stati determinanti per far cadere il loro signore, Napoleone Bonaparte, ma anche per restituire alla Francia un ruolo centrale nell’Europa della Restaurazione. Traditori? Certo; ma in questa storia, tutti tradiscono tutti, a volte con qualche giustificazione, altre senza: per il potere o il denaro, per sopravvivere, per salvarsi, per vendicarsi, per il gusto di farlo. Tanto da far pensare che l’umanità si divida in due categorie, i traditori e i traditi.
 
Momenti di trascurabile infelicità
Momenti_di_trascurabile_infelicitFrancesco Piccolo
Einaudi 
Pagine – 143
Prezzo – 13,00


Dopo il grande successo del 2010 con “Momenti di trascurabile felicità”, in
Momenti di trascurabile infelicità Piccolo ci racconta dei brevi istanti di cui è fatta la vita, ma questa volta partendo da eventi, per così dire, “negativi”, quasi fosse l’altro lato della medaglia, quello che stiamo guardando. Anche il contrattempo più fastidioso può contenere in sé una dose di divertimento, purché lo si sappia prendere per il verso giusto, in quanto appartiene di diritto alla gioia di vivere.
Un libro breve ed incalzante. L’autore narra di alcuni episodi “tragici” della sua vita, dell’adolescenza e di tutti quegli eventi traumatici che sono all’ordine del giorno. Quelli che abbiamo vissuto tutti, e che ci hanno maggiormente segnato, per questo è facile immedesimarsi in questi racconti. Come quando da piccoli ci sentivamo grandi e pensavamo di essere tali di fronte a persone che ci piacevano, per scoprire che invece non eravamo cresciuti ancora poi così tanto.
Un episodio tira l’altro e si è portati a leggere l’opera tutta d’un fiato.
Sono momenti di vita quotidiana fatti di imbarazzo e di espedienti per poterlo superare, che ripensandoci, col senno di poi, strappano non pochi sorrisi. 
Come per esempio quando piove e tu hai l’ombrello ed è anche aggiustato. Chi è con te invece lo ha scordato oppure il suo è rotto, e allora inizia la gara di solidarietà a chi tiene sotto meglio l’altro, col risultato che, passandosi l’ombrello di mano in mano, ci si bagna entrambi senza rimedio. Oppure quando il vicino di casa ci tiene aperto il portone, e noi, per non farlo aspettare, ci affrettiamo mentre prima stavamo uscendo con calma. Un eccesso di zelo che va quindi a ledere la libertà altrui.
O ancora, quando andiamo ospiti a casa di un amico o di un parente e, pur non avendone neanche bisogno, corriamo a farci la doccia, per rassicurarlo sul fatto che ci laviamo.
Francesco Piccolo ci ricorda che l’uomo sperimenta mille forme trascurabili, ma non irrilevanti, di infelicità, ma fa sorgere un dubbio. Che sia come con i bastoncini dello shangai: se si tirassero via le cose che meno piacciono delle persone che amiamo, se ne verrebbe via anche quella che ci piace di più.
In mezzo a questo lungo elenco, di cose che fanno piacere ed altre un po’ meno, Piccolo ci insegna a “resistere” e a trarre un lato positivo anche nelle avversità.
“Avrei voluto nascere Carlo d’Inghilterra. Avrei voluto essere l’erede al trono per tutta la vita, solo erede al trono. Avrei voluto avere qualche problemino sentimentale e poi non fare niente, per tutta la vita, aspettando qualcosa che con certezza non arriverà”.
Ne esce un quadro di una persona molto pigra- ma semplicemente perché ha avuto il coraggio di dire tutta la verità- che può trovare il modo di scherzare più o meno su tutto. Sui figli, che si amano in maniera diversa, perché ovviamente essi stessi sono diversi; sulle varie etnie incontrate, quasi da sembrare razzista, se non si partisse dall’ironia per metabolizzare il tutto. Davvero spassoso è per esempio il racconto sul “giapponese”, il cui sudore “
ha un colore che varia tra il marrone scuro e il nero, più volte nero”.
Certo, dopo avere vagliato le cose che ci rendono felici, passare ad analizzare le seccature può essere davvero scioccante. Ma Francesco Piccolo lo fa con un tono talmente leggero, da farci sorridere, nonostante l’argomento.
“Quando mi dicono: ti potevi vestire meglio. E io mi ero già vestito meglio”.
Fantastiche le sue frasi lapidarie. Quelle che, in poche parole, rivelano un mondo.
 
L’affare Vivaldi
Laffare_VivaldiFederico Maria Sardelli
Sellerio
Pagine – 304
Prezzo -14,00


In un romanzo storico l’appassionante ricostruzione di un grande enigma culturale. La storia della discesa nell’oblio della musica di Antonio Vivaldi, e della sua travolgente riscoperta, tra il Settecento e l’Italia fascista.
«La storia della riscoperta dei manoscritti di Vivaldi è davvero andata così. Diversamente dalla frase che i romanzieri pongono di solito alla fine del loro lavoro, io devo invece assicurare che i fatti narrati sono realmente accaduti, e solo in pochi casi ho dovuto inventare. La concatenazione degli eventi, per quanto bizzarra possa sembrare, è dovuta alla storia». Se conosciamo Vivaldi quanto lo conosciamo oggi, oltre le
Quattro stagioni, ciò è dovuto alle peripezie dimenticate – assurde, incredibili, comiche, cariche a volte di suspense, intricate come uno spettacolo drammatico e farsesco – che questo romanzo storico rivela.

Il Prete Rosso, passato di moda dopo una vita di successi, morì in miseria e indebitato fino al collo. I manoscritti con la sua musica inedita, raccolta in centinaia di partiture autografe, passarono di mano in mano fra bibliofili e lasciti ereditari, scomparendo per quasi due secoli. Riemersero, seguendo vie accidentate e occulte, grazie al congiungersi dell’avidità di un vescovo salesiano e l’intelligente intuito di due studiosi appassionati, Gentili e Torri, musicologo dell’Università di Torino il primo, e direttore della Biblioteca Nazionale della città il secondo. Ma da questo momento in poi gli autografi del musicista veneziano dovettero passare nuove disavventure. Causa stavolta l’indifferenza dello Stato, l’odiosa idiozia antisemita del regime fascista, l’opportunismo e l’ingratitudine dei nuovi padroni dell’Italia.
Federico Maria Sardelli è uno dei massimi esperti di Vivaldi, nonché scrittore satirico. Egli ricostruisce il destino delle carte del grande compositore seguendo due percorsi. Da un lato gli eventi successivi che le seppellirono nell’oblio dal 1741 alla riscoperta; dall’altro la caccia all’indietro che i due miti eroi intrapresero per recuperarle. E poi le vicende pazzesche legate al tentativo di renderle aperte alla fruizione pubblica. Con il triste epilogo.
È un apologo, umoristico e tragico, della ben nota insensibilità dello Stato italiano verso i suoi patrimoni più nobili, e della sua ingratitudine. Ma vuole anche ristabilire una verità storica ed essere un tributo.
«Luigi Torri ed Alberto Gentili sono i veri eroi di questa vicenda. Se oggi conosciamo Vivaldi lo dobbiamo al loro fiuto, alla loro intelligenza, al loro infaticabile sforzo».
Federico Maria Sardelli (Livorno, 1963) è membro del comitato scientifico dell’Istituto italiano Antonio Vivaldi e responsabile del Catalogo Vivaldiano. Direttore d’orchestra e flautista, con prime incisioni ed esecuzioni mondiali tra cui riscoperte e attribuzioni di opere vivaldiane, è un protagonista della rinascita del teatro musicale del Prete Rosso. Ha scritto
La musica per flauto di Antonio Vivaldi (2002), e dirige la collana di musiche «Vivaldiana». Fumettista e autore satirico (
Paperi in fiamme e
Saggi di metafisica neorazionalista con un metodo sicuro per indovinare i gratta e vinci, tra le sue opere), collabora con «Il Vernacoliere» dall’età di 12 anni.
 
Elogio dell’invecchiamento
Elogio_dellinvecchiamentoAndrea Scanzi
Mondadori
Pagine – 312
Prezzo – 15,50


«La cosa che amo del vino è quello che mi fa capire. La verità è che amo pensare alla sua vita. Il vino è un essere vivente. Amo immaginare l’anno in cui sono cresciute le sue uve: se c’era un bel sole, se pioveva. E amo immaginare le persone che hanno vendemmiato e curato quelle uve. E se un vino è di annata, penso a quante di loro sono morte.»
Nelle parole che l’attrice Virginia Madsen pronuncia in un divertente film di qualche anno fa, Sideways, c’è forse la chiave per capire che cosa fa del vino qualcosa di veramente unico. «Mi piace che continui a evolversi, che se apro una bottiglia oggi avrà un gusto diverso da quello che avrebbe se la aprissi un altro giorno. Perché una bottiglia di vino è un qualcosa che ha vita: è in costante evoluzione, acquista complessità. Finché non raggiunge l’apice. E poi comincia il suo lento, inesorabile declino.» Il vino è come noi, per questo lo amiamo. E quando per il vino parliamo di invecchiamento, descriviamo un processo di trasformazione che è molto simile alla nostra esperienza, un cambiamento che con il passare degli anni impariamo ad riconoscere e apprezzare. Andrea Scanzi, appena ritirato il suo diploma da sommelier e il suo attestato da degustatore ufficiale, decide di partire alla scoperta dei luoghi e delle persone dalla cui storia e dalla cui passione nascono i più grandi vini italiani, con la convinzione che analizzare il mondo del vino è un modo per capire cosa proviamo per il nostro passato e cosa stiamo preparando per il futuro. E così si trova ad attraversare in lungo e in largo il nostro paese, dalle Langhe all’Alto Adige, dalla tenuta di Bolgheri a quelle di Barile (in provincia di Potenza), dalla Valpolicella a Pongelli (nelle Marche), dalla Franciacorta a Montalcino, dalle terre del Lambrusco a quelle del Picolit, per raccontare dove e per mano di chi nascono i nostri vini migliori.
Scanzi ci insegna a riconoscere e a distinguere, insieme a chi li produce, il Barolo, il Pinot nero, il Sassicaia, l’Aglianico e altri capolavori di una lunga storia fatta di lavoro, pazienza e dedizione. Non senza ironia ci svela, tra una tappa e l’altra del suo viaggio, i piccoli e grandi segreti che ogni sommelier e ogni buon intenditore hanno messo a punto nel tempo e che consentono loro di muoversi con disinvoltura in questo mondo così ricco e variegato. E soprattutto, ci insegna a riconoscere la vita segreta dei vini e ad apprezzare quella sottile arte che ne fa spesso dei capolavori: l’arte di invecchiare.
 
L’arte di coltivare l’orto e sé stessi
Larte_di_coltivare_lorto_e_s_stessiAdriana Bonavia Giorgetti
Ponte alle grazie
Pagine 128
Prezzo – 10,00


L’orto sembra essere un luogo in cui lavorare per produrre ortaggi, niente di più. Eppure non pochi artisti, ricercatori, mistici, scrittori, hanno cercato il modo di coltivarne uno, a imitazione forse del Creatore, che è per Dante “l’ortolano eterno” che si prende cura di noi, sue fronde. L’orto, un microcosmo fecondo e perciò necessario, ha sempre parlato all’uomo che se ne è occupato. L’uomo moderno, che non produce più quello di cui si nutre, sembra aver perduto la capacità di comprenderlo. L’autrice di questo libro ricostruisce le sue esperienze di orticultore inesperto e cerca di tradurre per noi la ricchezza che il rapporto diretto con la Terra e la Natura produce in chi le coltiva e se ne prende cura. La scoperta è che considerando l’orto come una terra di significati e non come una terra di fatti, si può godere non solo dei suoi frutti materiali ma anche di quelli, altrettanto ricchi, spirituali: la cura, la generosità, la fatica, l’attesa, l’ascolto, la protezione. L’orto cura chi si prende cura di lui.