22 Dicembre 2014

Prestazioni di servizi e vies: obbligo sostanziale? – parte 1

di Maurizio Coser
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Come già esaminato in un precedente intervento di ECnews, è ormai noto che l’art. 22 del decreto semplificazioni ha modificato l’art. 35 D.P.R. n. 633/1972, prevedendo che la volontà di effettuare le “operazioni intracomunitarie di cui al Titolo II, Capo II del D.L. 331/1993”, espressa all’atto della richiesta di attribuzione della partita Iva ovvero successivamente, mediante apposita istanza, “determina l’immediata inclusione nella banca dati dei soggetti passivi che effettuano operazioni intracomunitarie, di cui all’articolo 17 del regolamento (CE) n. 904/2010”, comunemente noto come “archivio VIES”.

La novella, da salutare senz’altro positivamente (visto che il testo previgente prevedeva che l’iscrizione non fosse eseguita prima del decorso di 30 gg. dalla data della richiesta), offre lo spunto per chiarire i termini e le condizioni alla ricorrenza delle quali un soggetto passivo italiano sia obbligato ad iscriversi al VIES e, soprattutto, per verificare se la mancata iscrizione a detto archivio possa avere conseguenze sostanziali sul regime di tassazione delle operazioni da questo poste in essere.

L’analisi verrà tuttavia limitata alle prestazioni di servizi scambiate tra soggetti passivi UE, essendo tale ambito quello in cui sussistono i principali dubbi.

Anticipiamo la conclusione cui si intende pervenire: ad avviso di chi scrive, l’iscrizione al VIES non rappresenta un presupposto per l’applicazione dell’art. 7-ter del D.P.R. n. 633/1972, ovvero della norma che disciplina la territorialità delle prestazioni di servizi, onde non sembra potersi far discendere alcuna conseguenza sostanziale dalla mancata iscrizione del soggetto passivo italiano nell’elenco de quo (ovvero da una eventuale e successiva cancellazione dal medesimo).

Iniziamo dall’analisi delle norme nazionali in materia.

L’art. 35, c. 2, lettera e-bis) D.P.R. n. 633/1972, che ha introdotto l’obbligo di comunicare all’Agenzia delle entrate l’intenzione di porre in essere operazioni intracomunitarie, fa riferimento ai “soggetti che intendano effettuare operazioni intracomunitarie di cui al Titolo II, Capo II del D.L. n. 331/1993”.

A tal proposito è agevole verificare che dette operazioni intracomunitarie sono unicamente quelle riguardanti le “cessioni di beni”: è infatti noto che, dal 01/01/2010, con la riforma del presupposto territoriale delle prestazioni di servizi, non esistono più le “prestazioni di servizi intracomunitarie” (tant’è che sono stati abrogati i commi 4-bis, 5, 6, 7 e 8 dell’art. 40 del D.L. n. 331/1993).

Invero, l’Agenzia delle Entrate, in via interpretativa (C.M. n. 39/E/2011), ha ritenuto di estendere la definizione di “operazioni intracomunitarie” – richiamate dalla citata lettera e-bis) dell’art. 35 – anche alle prestazioni di servizi, sostenendo che “le disposizioni comunitarie in materia non distinguono tra soggetti che effettuano forniture intracomunitarie di beni o prestazioni intracomunitarie di servizi, in quanto prevedono che gli Stati membri adottino le misure necessarie per garantire che i dati forniti da soggetti per la loro identificazione ai fini dell’IVA, in conformità all’art. 214 della direttiva 2006/112/CE, siano, a loro giudizio, completi ed esatti; l’inclusione nell’Archivio VIES è necessaria, pertanto, anche per quei soggetti che effettuano prestazioni di servizi intracomunitarie soggette ad IVA nel paese di destinazione ai sensi dell’articolo 7-ter”.

Ebbene, il richiamato art. 214 della citata Direttiva prevede che gli Stati membri debbano identificare (tramite un numero individuale) ogni soggetto passivo che:

  1. “effettua nel loro rispettivo territorio cessioni di beni o prestazioni di servizi che gli diano diritto a detrazione, diverse dalle cessioni di beni o prestazioni di servizi per le quali l’IVA è dovuta unicamente dal destinatario” (quindi diverse dalle operazioni in cui l’imposizione viene assolta in reverse charge dal cessionario/committente);
  2. “effettua acquisti intracomunitari di beni soggetti all’IVA” nel territorio dello Stato.

E’ chiaro l’obiettivo: poiché tali soggetti potrebbero essere gli acquirenti di beni ceduti da fornitori comunitari, per i quali beni l’Iva è dovuta nel Paese dell’acquirente, è necessario che essi siano dotati di un proprio numero identificativo affinché i fornitori possano verificare la sussistenza di tutti i requisiti richiesti dalla normativa (comunitaria e nazionale) per configurare una “cessione intracomunitaria” (ed, in particolare, possano verificare che l’acquirente sia un soggetto che esegua l’acquisto “nell’esercizio di imprese, arti e professioni”, come stabilito dal 1^ comma dell’art. 38 del D.L. n. 331/1993, dato che il possesso di un numero identificativo è prova che il suo titolare è un “soggetto passivo IVA”).

La prima conclusione è, dunque, che lo scopo del numero identificativo è principalmente quello di consentire ai fornitori di verificare lo status di soggetto passivo del proprio cliente, cui eseguono delle cessioni di beni.

Ancora dal punto di vista della normativa domestica: l’art. 7-ter del D.P.R. n. 633/1972 stabilisce che, per le prestazioni di servizi, il principio di tassazione del “luogo del committente” si applica laddove il committente medesimo sia un “soggetto passivo”, definendo come tale il soggetto “esercente attività di impresa, arti o professioni”. Il fatto che il prestatore debba essere un soggetto passivo Iva è ovvio: se così non fosse la prestazione sarebbe fuori campo IVA per mancanza di presupposto soggettivo.

Seconda conclusione: la normativa italiana in alcun punto prevede un obbligo di iscrizione in elenchi di alcun tipo né, men che meno, la necessità di acquisire una eventuale autorizzazione al fine dell’esecuzione di prestazioni di servizi a favore di committenti non residenti (ovvero, in maniera speculare, al fine della ricezione di prestazioni di servizi da prestatori non residenti)

 

L’unico passaggio normativo contenuto nel D.P.R. n. 633/1972 in cui è dato modo di rinvenire un riferimento ad una “autorizzazione”, è quello del comma 7-bis dell’art. 35 più volte citato, in forza del quale “l’Ufficio può emettere provvedimento di diniego dell’autorizzazione a effettuare le operazioni di cui al Titolo II, Capo II del D.L. 331/1993”.

Ma, ancora una volta, si osserva che le “operazioni di cui al Titolo II, Capo II del D.L. 331/1993” sono esclusivamente le cessioni di beni e non anche le prestazioni di servizi (come sopra puntualizzato).

In definitiva, quello che è possibile concludere da quanto sin qui esposto è che nelle ipotesi di “prestazioni di servizi”, i principi della tassazione nel luogo del committente e di neutralità dell’imposta debbono prevalere sulla (presunta) autorizzazione allo svolgimento di dette prestazioni, onde una eventuale mancata iscrizione all’archivio VIES non può avere conseguenze sostanziali sul regime di applicazione dell’imposta.

Sul punto non vogliamo, tuttavia, offrire una mera interpretazione letterale della richiamata norma, bensì risalirne alla ratio, ancora una volta residente nella normativa comunitaria, svolgere alcune considerazioni di ordine pratico ed esaminare l’evoluzione della Giurisprudenza in materia, aspetti che saranno esaminati nel corso di un prossimo intervento.