27 Luglio 2015

Orgoglio e pregiudizio

di Michele D’Agnolo
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La pressione competitiva e la tecnologia stanno trasformando profondamente il lavoro all’interno degli studi professionali. La grande novità è la richiesta di tempestività ed efficienza in un lavoro dove il mantra è sempre stato mettici tutto il tempo che ti serve, perché l’unica cosa che conta è che tu lo faccia bene. L’importante è rispettare le scadenze cogenti, o le emergenze del cliente, ma per il resto organizzati tu come meglio credi.

La crisi, purtroppo, impone l’immediata trasformazione degli artisti della partita doppia e dei creativi del cedolino in operai da film di Charlie Chaplin.

Lo studio professionale deve recuperare efficienza ovunque, non potendo più scaricare i suoi costi sui clienti. Questo significa cambiare radicalmente le proprie modalità operative. Niente più caffè da venti minuti a metà mattina, perché quel tempo di lavoro in più coincide con l’utile aziendale. Niente più accanimenti terapeutici se non torna un centesimo di euro in una contabilità. La ricerca della perfezione non si può più fare su pratiche che devono uscire a getto continuo, come il pane dal fornaio. La nuova ragione di scambio tra qualità, costi e rischi è talmente inaccettabile per alcuni dei nostri dipendenti e colleghi di studio, che spesso sdegnati preferiscono essere disoccupati ma continuare a cercare la forfora del pelo dell’uovo, piuttosto che adattarsi. Ma non ci lamentiamo più di tanto, perché li abbiamo cresciuti noi così, con la nostra latitanza e la nostra acquiescenza, che oggi paghiamo con salatissimi interessi.

Le persone che lavorano in uno studio professionale sono per loro natura molto, molto, molto difficili da trattare. Per poter reggere ai carichi emotivi e lavorativi e rimanere concentrati per molte ore al giorno e per periodi prolungati devono disporre di un carattere forte e orgoglioso. Allo stesso tempo lo svolgere un’attività professionale li ha resi generalmente scettici e particolarmente rispetto a qualsiasi modalità alternativa al proprio modo di lavorare e di vedere le cose, che è nato dalla assidua frequenza al più feroce tra i corsi di sopravvivenza: la vita lavorativa di ogni giorno.  

Pertanto, cercare di convincere il collaboratore di uno studio professionale a cambiare le proprie modalità operative e i propri atteggiamenti è come cercare di educare un teenager. Mission impossible. Muro di gomma. E siccome i latini ci insegnano che ad impossibilia nemo tenetur, per la proprietà transitiva chi prova a sfidare l’impossibile si ritrova spesso dopo un paio d’anni annichilito nel corpo e nell’anima e bisognoso di conforto psicologico. Conosco molti managing partner e office manager, e so che uno degli aspetti che più induce in loro un senso di profonda solitudine e” la totale incomprensione degli addetti nei confronti della rivoluzione della tecnologia e dell’efficienza. Non sono pochi i manager di studio che devono ricorrere a supporto psicologico per la assoluta refrattarietà dell’ambiente con cui impattano.

Infatti, purtroppo, moltissimi dipendenti e collaboratori non hanno ancora capito che il mondo di prima non esiste più e che in quello nuovo l’anello debole sono proprio loro, che erano fino ad un minuto fa indispensabili. Non puoi più mandare a quel paese un cliente, perché potrebbe essere l’ultimo che hai. Non puoi mettere i fiorellini su una pratica se il cliente non è disposto a pagarteli. Anche se ti credi più bravo del dottor House, devi essere sempre cortese, gentile e conciliante. Anche se sei il dottor Divago, devi imparare ad essere conciso. E soprattutto devi gestire ogni minuto all’interno dello studio come se lo stessi passando con il tuo amante. Ottimizzandolo.

Altri invece, credono di essere scaltri perché fanno orecchie da mercante. Sono quelli che se li avverti che di fronte c’è uno studio di cinesi che fa i cedolini a due euro ti risponde poco male, tanto noi siamo più bravi.

Una esigua minoranza dei nostri co-workers, neppure ci arriva e non ci arriverà mai. Per questi soggetti, il locus of control è sempre esterno. Se le cose in studio non funzionano, è sempre colpa dei titolari. Tutte le problematiche gestionali dello studio sono dei soci, che sono palesemente dei pivelli e degli inetti. In fin dei conti, sono bastati sette anni di crisi mondiale e di quasi bancarotta del Paese per metterli in difficoltà. Con tanto di contorno alla bar sport, del tipo se comandassi io lo studio saprei ben come fare.

E così ogni metodologia che i titolari di studio o i responsabili del cambiamento provano a mettere in atto per perseguire il nuovo sembra avere più controindicazioni che vantaggi.

Se provi a convincere Mario, 30 anni di esperienza in studio, con le buone, penserà che sei debole. Glielo dici e glielo ripeti che desideri che faccia le cose in un altro modo, ma è come parlare al muro. Dentro da in orecchio e fuori dall’altro. E se vede che insisti magari lo farà, ma solo fino a quando non ti sarà passato dalla mente. La prossima emergenza, peraltro, sarà un ottima scusa per tornare alla modalità lavorativa di default.

Se alzi la voce, sarai contrastato e non accontentato perché sei grossolano e maleducato. E cominceranno a fischiarti le orecchie.

Se invece provi a proporre le innovazioni mediante la formazione, i nostri prodi collaboratori si offendono. Mi mandi a un corso di gestione del tempo, a me che so fare cose talmente ai confini della ragioneria che sembro cugino di Luca Pacioli. So già gestirmi il mio tempo, cosa credi. Sei tu casomai che non lo sai fare. Sono tre settimane che aspetto la risposta ad un quesito. È più facile vincere al totocalcio senza giocare che poterti parlare dieci minuti di fila.

E comunque, se anche li convinci ad andare al corso, dopo la allegra scampagnata ti diranno che non c’era niente che non sapessero e facessero già e che tutto il resto era palesemente irrealizzabile. E ti caricheranno di straordinarie per farti pagare il tempo che gli hai fatto “perdere” al convegno.

Se disegni delle procedure, anche coinvolgendoli, e le proponi come modalità operative, dette finiranno nell’angolo più dimenticato della scrivania, nel cimitero degli elefanti, dove stanno le pratiche puzzolenti che si spera si risolvano da sé o finiscano nel dimenticatoio, proprio dietro la foto dell’ultimo amore.

Se infine provi ad entrare nei microprocessi, l’onta diviene totale. E soprattutto nei più anziani è assicurato il rigurgito anarco-insurrezionalista. Come ti permetti di dirmi come devo preparare le cartelline. A me che ho 30 anni di esperienza e che quando sono arrivato qui, in fasce, mi hai detto arrangiati che non ho tempo per insegnarti il lavoro. Caro titolare, sei fuori tempo. Trent’ anni fa avevo bisogno delle tue fottute procedure, non oggi. E nel frattempo me le sono dovute inventare a suon di calci in faccia dai clienti, dai colleghi e dai pubblici uffici. Allora sai che c’è: mi tengo quelle e se non ti va bene vai a quel paese.

Provate per esempio a imporre un ordine di priorità lavoro a chi prepara i dichiarativi. Vi lasceranno all’ultimo i dichiarativi più complessi a bella posta. Sotto scadenza, vi creeranno una montagna di problemi per farvi dispetto. Sciopero bianco, problemi ingigantiti, false incomprensioni sono tutte modalità più o meno sottili per vendicarsi del professionista che ha osato entrare nel giardino segreto del metodo di lavoro del collaboratore. Lasciate ogni speranza o voi che entrate. Il lavoro è mio e me lo organizzo io.

Da queste tristi note sembrerebbe che l’unico modo per cambiare le persone sia quello di cambiare le persone. Ad esempio, la rivoluzione digitale del processo civile telematico sta già mietendo vittime tra il personale di segreteria degli studi legali, proprio come accadde a noi quando iniziò la trasmissione elettronica dei dichiarativi e dovemmo rinunciare al fattorino impermeabile all’informatica. Come possiamo tenere con noi persone che non riescono ad adeguarsi ai cambiamenti tecnologici e delle richieste della clientela?

Se vogliamo cambiare le cose, forse l’unica cosa da fare è quella di mettere i problemi sul tavolo. Non solo quelli reali ma anche quelli di relazione che abbiamo appena descritto e che impediscono di risolvere i primi. Potrebbe quindi giovare di aprirci con i nostri collaboratori e spiegare quanto sopra senza peli sulla lingua. L’altro compito che dobbiamo darci è quello di studiare a fondo il potentissimo meccanismo mentale che presiede la formazione e il radicamento delle abitudini. Ma di questo parliamo in un’altra puntata.