21 Gennaio 2015

Non detrae l’Iva chi non poteva non essere a conoscenza dell’evasione

di Luigi Ferrajoli
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Fatto impeditivo del diritto alla detrazione dell’Iva non è soltanto la consapevolezza che l’operazione si inserisca in una catena di prestazioni a monte della quale vi è un’evasione, ma anche il fatto che l’operatore, operando sulla base della comune diligenza, avrebbe dovuto essere a conoscenza anche della natura delle operazioni pregresse.

E’ quanto ribadito dalla Corte di Cassazione con la recente Sentenza n. 27196 del 22.12.2014.

Nella vicenda in esame, l’Agenzia delle entrate aveva emesso un avviso di accertamento a carico di una società operante nel commercio all’ingrosso di metalli preziosi, con cui aveva recuperato un importo a tassazione, sia ai fini Iva che ai fini delle imposte dirette, a seguito di un’indagine della Guardia di finanza avente ad oggetto una frode carosello nella quale vi erano alcune società cartiere utilizzate dalla contribuente per coprire, tramite l’emissione di fatture soggettivamente false, il reale acquisto di argento sul mercato comunitario ed extracomunitario e richiedere rimborsi asseritamente surrettizi.

La società aveva impugnato l’atto impositivo ed il ricorso era stato  accolto parzialmente in primo grado ed integralmente nel grado di appello; in particolare, i Giudici di seconde cure avevano ritenuto che non sussistesse la prova che la società, che si era limitata ad acquistare con regolari bolle di accompagnamento e fatture dall’ultima società della catena, avesse partecipato al meccanismo fraudolento o che, quantomeno, fosse a conoscenza delle precedenti omissioni di Iva; inoltre il Collegio aveva considerato le intercettazioni telefoniche, acquisite ai fini del procedimento penale che si era concluso con una sentenza di patteggiamento ex art. 444 c.p.p., non utilizzabili nel contenzioso tributario stante il divieto di cui all’art. 270 c.p.p.

L’Agenzia delle entrate ha proposto ricorso in Cassazione eccependo, tra l’altro, la violazione delle norme in materia di Iva nonché dei principi derivanti dalla giurisprudenza comunitaria, in quanto la Commissione tributaria regionale, limitandosi ad affermare che non vi era la prova della consapevolezza del meccanismo fraudolento da parte della società accertata, non aveva considerato il consolidato orientamento della  giurisprudenza comunitaria secondo cui il diritto alla detrazione dell’Iva non può essere riconosciuto non solo a chi era a conoscenza dell’illegittimità delle operazioni poste in essere, ma neppure a chi sarebbe dovuto essere comunque consapevole di partecipare, con il proprio acquisto, ad un’operazione che si inseriva in una frode.

La Suprema Corte ritiene fondata la censura sollevata dall’Amministrazione finanziaria richiamando proprio i principi espressi sul tema dal giudice comunitario (Corte giustizia 21.06.2012, cause riunite C-80/11 e 142/11) secondo cui è legittimo “esigere che un operatore adotti tutte le misure che gli si possono ragionevolmente richiedere al fine di assicurarsi che l’operazione effettuata non lo conduca a partecipare ad un’evasione fiscale”; inoltre la diligenza esigibile dall’operatore dipenderebbe dalla circostanza concreta.

Secondo l’orientamento richiamato dalla Cassazione nella sentenza in commento, al fine di evitare ogni coinvolgimento, l’operatore che si approccia ad un altro, ogni volta che emergano indizi che consentano di sospettare l’esistenza di irregolarità o di evasioni, dovrebbe necessariamente assumere informazioni in ordine all’affidabilità della controparte.

Al contribuente non è tuttavia richiesto un controllo generalizzato circa la qualità di soggetto passivo di chi emette la fattura, né tantomeno in ordine al regolare adempimento degli obblighi fiscali da parte di quest’ultimo, poiché “spetta infatti, in linea di principio, alle autorità fiscali effettuare i controlli necessari presso i soggetti passivi al fine di rilevare irregolarità ed evasioni in materia di Iva nonché infliggere sanzioni al soggetto passivo che ha commesso dette irregolarità ed evasioni”.

Secondo la Cassazione, da tali principi consegue che spetta all’Amministrazione finanziaria che contesti ad un operatore il diritto alla detrazione dell’Iva alla luce di un’ipotizzata inesistenza soggettiva delle operazioni oggetto dell’accertamento l’onere di provare, sulla base di elementi oggettivi, la circostanza che l’operatore sapeva o avrebbe dovuto essere a conoscenza della natura illecita dell’operazione per l’esistenza di indizi idonei ad avvalorarne il sospetto. (Cfr. Cass. sent. n. 23560/12).

Poiché i Giudici di secondo grado non si erano attenuti a tali principi e stante la riconosciuta piena utilizzabilità nel contenzioso tributario delle intercettazioni telefoniche legittimamente assunte in sede penale, il ricorso dell’Agenzia delle entrate è stato accolto.