3 Ottobre 2013

Morosità dell’inquilino e “disequilibrio” normativo

di Luigi Scappini
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In un contesto di crisi economica quale quello attuale, non è infrequente che un investimento da sempre considerato sicuro quale il mattone si rilevi un vero e proprio boomerang per il contribuente che si trova a dover fronteggiare un inquilino moroso.

In tal caso, oltre a dover adire le vie processuali con la (in)certezza degli italici tempi e pagare i vari “balzelli” imposti dallo Stato, dovrà anche proseguire a corrispondere le imposte su di un canone in realtà non percepito. E se per gli immobili abitativi il Legislatore ha previsto apposita deroga a tale previsione, altrettanto non è stato disposto per quanto attiene quelli commerciali che, a ragion veduta, forse rappresentano le tipologie maggiormente a rischio insolvenza.

Norma di riferimento è l’articolo 26 del Tuir, nel quale sono disciplinate le modalità di imputazione dei redditi fondiari sia da un punto di vista soggettivo che temporale.

Regola generale è che essi concorrono alla formazione del reddito complessivo dei soggetti possessori indipendentemente dalla percezione ed in funzione al periodo d’imposta in cui si è verificato il possesso. In altri termini, i redditi fondiari sono imputati in capo al possessore in quanto tale, a prescindere dalla loro reale percezione, seguendo un rigido criterio di competenza o, per meglio dire, di maturazione.

Questa impostazione, se può avere una certa valenza per quanto concerne il reddito dominicale ed agrario (redditi che per loro stessa definizione normativa sono insiti nel “bene terra” stesso, ovvero il terreno cui si riferiscono) non trova applicazione per quanto riguarda gli immobili, con specifico riferimento a quelli concessi in affitto.

Infatti, ai sensi dell’articolo 37, comma 4-bis del Tuir qualora il canone risultante dal contratto di locazione, ridotto forfettariamente del 5 per cento, sia superiore al reddito medio ordinario …il reddito è determinato in misura pari a quella del canone di locazione al netto di tale riduzione”, con la conseguenza che, a prescindere dalla reale percezione di detto canone, lo stesso dovrà essere dichiarato ai fini reddituali.

In parziale deroga al principio generale di cui all’articolo 26, comma 1, il secondo periodo del medesimo comma prevede che “…I redditi derivanti da contratti di locazione di immobili ad uso abitativo, se non percepiti, non concorrono a formare il reddito dal momento della conclusione del procedimento giurisdizionale di convalida di sfratto per morosità del conduttore. Per le imposte versate sui canoni venuti a scadenza e non percepiti come da accertamento avvenuto nell’ambito del procedimento giurisdizionale di convalida di sfratto per morosità è riconosciuto un credito di imposta di pari ammontare”.

In altri termini, la norma deroga al principio generale di imputazione dei redditi fondiari a prescindere dall’effettiva percezione in riferimento agli immobili ad uso abitativo concessi in locazione.

Il testo della norma cita espressamente gli “immobili abitativi” lasciando poco spazio ad interpretazioni differenti: in tal senso, si è espressa anche l’Agenzia delle Entrate con C.M. n. 101/2000 dove, al punto 5.2. testualmente afferma che “Resta fermo, pertanto, che per gli immobili locati per uso diverso da quello abitativo, il canone di locazione va comunque dichiarato, così come risulta dal contratto di locazione ancorché non percepito, rilevando in tal caso il momento formativo del reddito e non quello percettivo”.

Quindi, per gli immobili abitativi, in presenza di un procedimento giurisdizionale di convalida di sfratto per morosità del conduttore concluso, di cui agli artt. 657 e seguenti, C.p.c.:

– a decorrere dal periodo di imposta di conclusione del procedimento, i canoni di locazione non concorrono più alla formazione del reddito;

– in caso di conferma della morosità anche per periodi di imposta precedenti l’atto giurisdizionale, viene riconosciuto al contribuente un credito d’imposta di ammontare pari alle imposte versate sui canoni venuti a scadenza e non percepiti.

In tale contesto, come confermato dall’Agenzia delle Entrate con C.M. n. 150/1999 resta fermo l’obbligo di assoggettare a tassazione le unità immobiliari sulla base della rendita, poiché la non imponibilità sancita dal giudice è riferita esclusivamente ai “canoni di locazione non percepiti” e non si può estendere anche al reddito dei fabbricati.

Tutto ciò, come sopra evidenziato, vale per gli immobili abitativi: per quanto riguarda gli immobili commerciali, l’Agenzia delle Entrate, optando per l’applicazione letterale del disposto normativo, a nostro parere determina un ingiusto (e soprattutto ingiustificato) differente trattamento tra i contribuenti che, come recita il richiamato articolo 53 della Costituzione dovrebbero “concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva” e ciò a prescindere dalla natura dell’immobile concesso in locazione.