10 Settembre 2013

Lo studio professionale e la gestione del cambiamento

di Michele D’Agnolo
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Cambiare è faticoso e certamente piace a pochi, ma, volenti o nolenti, il cambiamento è diventato necessario per la sostenibilità degli studi professionali. Cambiare forma organizzativa, associarsi ad altri professionisti, traslocare in uffici o localizzazioni più adeguate, modificare il rapporto con il personale dello studio, cambiare modalità di relazione con la clientela, rinnovare le tecnologie, razionalizzare i costi, sono tutte problematiche divenute sempre più all’ordine del giorno.

Molti studi non hanno un programma per il cambiamento, ma lo subiscono. Attendono gli eventi e nel frattempo gli eventi scelgono al loro posto. Non è affatto facile di questi tempi avere sempre le idee chiare sul da farsi, vista la debolezza della domanda per le prestazioni professionali e le incertezze nel quadro politico e normativo: rimanere inerti, però, è peggio.

Un numero significativo di studi ha invece maturato un’idea da perseguire. Spesso si tratta per il professionista di effettuare interventi complessi, in grande solitudine, che non sempre riescono perché il contesto nel quale avvengono pone forti contrasti.

In molti studi si possono rinvenire “cantieri aperti” che prevedono la realizzazione di nuovi protocolli, nuove procedure, piani di comunicazione, schede. Tecnologie acquistate e mai usate, problemi annosi di rapporti con le persone che si “trascinano” per la riluttanza ad affrontarli, disposizioni di servizio anche più volte ripetute rimaste disattese, fino a che, per sfinimento, si finisce per arrivare ad una rinuncia al cambiamento.

C’è sempre qualcosa di più urgente (o forse di meno spiacevole) da fare. Si creano così precedenti negativi che rendono scettiche le persone che collaborano allo studio rispetto alle possibilità di miglioramento della situazione.

Fortunatamente si può imparare a gestire il cambiamento. Serve innanzitutto molta maggiore perseveranza di quanto potremmo immaginare, ma è utile anche trovare delle leve che possano moltiplicare lo sforzo del professionista nei confronti del personale. Identificando e coinvolgendo le persone più inclini al nuovo, portando da subito qualche piccolo miglioramento organizzativo, identificando e isolando chi “rema contro”, stanando i “gattopardi”.

In qualsiasi progetto di cambiamento, si parte, per definizione, da uno stato attuale per giungere ad uno stato futuro e fra i due stati ce n’è uno intermedio, il più delle volte sottovalutato, ma oltremodo critico: lo stato transitorio.

Nello stato attuale, l’aspetto chiave è il timore dell’abbandono del vecchio, nello stato futuro, invece, il momento critico sta nell’accettazione e attuazione di qualcosa di nuovo.

Lo stato transitorio è quello più sofferto: mancano le certezze del passato, anche se non sempre felici o idonee, mentre l’assetto futuro è ancora avvolto nella nebbia.

Il primo passo verso un cambiamento efficace consiste nell'”attivazione delle persone” mediante la formulazione e condivisione di obiettivi misurabili, l’individuazione di una direzione di marcia, una precisa articolazione delle attività e delle responsabilità, la trasmissione di grande energia da parte del titolare dello studio.

In alcuni casi può essere opportuno che il cambiamento avvenga in modo rapido anche se estremamente drastico; in altri, invece, va dosato e graduato.

Occorre, già nella fase iniziale, tornare sui propri passi e porsi una serie di domande.

Qual’è la nostra meta? Come vivremo la fase di cambiamento, e come verificheremo se stiamo procedendo bene? Chi sarà coinvolto e in quale misura? Chi risentirà maggiormente del cambiamento? Quali sono i fattori che con maggiore probabilità potranno rendere difficoltoso il percorso? Quali fattori invece potranno essere utili?

L’obiettivo è quello di poter intervenire tempestivamente sui fattori critici (tempi mal stimati, mancato rispetto degli impegni, documenti carenti o incompleti, e così via).

Una volta diffusa la visione dello stato futuro ai livelli opportuni, occorrerà predisporre un flusso di informazioni bidirezionale, per promuovere l’ascolto di eventuali problemi o timori.

Occorrerà concedere al personale un periodo di tempo ragionevole per abituarsi alla perdita di quanto era ormai “familiare” e “confortevole”, ma pretendere i nuovi comportamenti con “benevola” insistenza.

Per acquisire una nuova abitudine, per interiorizzare il cambiamento, è necessario che il professionista insista dedicando il proprio tempo a dialogare con il personale e, se del caso, con la clientela, dando per primo l’esempio del cambiamento che desidera ottenere.

Per apprendere il precedente modo di lavorare una persona ha impiegato un tempo significativo, quantificabile magari in anni: non si può pretendere ora che, per cambiarlo radicalmente, ci metta un paio d’ore (e solo perché qualcuno l’ha chiesto/imposto). Secondo alcuni studiosi per formare una nuova abitudine ci vogliono almeno 21 giorni di perseveranza nei nuovi comportamenti.

In conclusione, l’attitudine al cambiamento continuo si può (e si deve) coltivare e diffondere all’interno dello studio, con grande beneficio per l’adattabilità dello studio ai mutamenti esterni.