29 Giugno 2015

Le fette della torta

di Michele D’Agnolo
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Uno degli argomenti più dibattuti nella governance degli studi professionali è quello della determinazione delle quote di partecipazione agli utili.

Non c’è professionista al mondo che non si senta di dover percepire una quota maggiore di quella che sta attualmente fruendo dallo studio al quale collabora stabilmente o del quale è associato. Si tratta con ogni probabilità di un corollario del teorema secondo il quale tutti gli esseri umani credono di essere intelligenti sopra la media.

E la definizione delle quote di spartizione è l’incubo di tutti i promotori e managing partners, che temono di avere persone demotivate, di scatenare guerre intestine o addirittura di dover ricominciare daccapo dopo l’ennesima diaspora professionale. A ogni dipartita, elegantemente definita spin off per mascherare dietro un dito le opposte visioni di fatto della clientela e meritata ricompensa per l’impegno profuso, lo studio si indebolisce e perde almeno un decennio sulla strada del proprio sviluppo.

E allora si tratta di capire come dividere il risultato in un modo economicamente sostenibile e che i professionisti percepiscano come equo.

Le regole di suddivisione possono essere le più diversificate. Secondo un primo schema, a ciascuno degli associati spetta una quota paritetica degli utili. È evidente che questo schema va molto bene per le start-up di giovani che non hanno nulla da perdere ma rischia di stare molto stretto a quei professionisti che apportino in fase iniziale o successivamente una significativa clientela o mezzi materiali. Qualche volta, però, anche nelle fusioni per incorporazione si preferisce azzerare tutto e convogliare agli associati un senso di pariteticità. Inoltre la quota paritetica funziona solo in un regime di costante reciproco controllo tra gli associati in merito alla qualità, quantità, redditività e rischiosità del lavoro profuso. Serve, quindi, una cultura di trasparenza e di severità reciproca, al limite della ferocia. Non è un caso che nella vecchia partnership di matrice anglosassone si risponde congiuntamente e solidalmente per l’operato dei colleghi, a beneficio dei clienti.

In alternativa, si possono stabilire percentuali diversificate per i diversi associati, per tenere conto della differenza negli apporti. Questa formula viene adottata nelle fusioni per incorporazione, dove l’incorporato è molto più piccolo o più junior dell’incorporante. In questi casi il rischio è che il socio di minoranza si adagi lavorando tanto quanto previsto dalla quota. Per spiegarmi, se un professionista è titolare del 15%, si dedicherà per il 15% del tempo allo studio e per il resto si farà i fatti suoi. O almeno sarà fortemente tentato di farlo. Si possono inventare anche dei meccanismi a scalini che portano via via le quote verso la pariteticità. Questo schema si vede con una certa ricorrenza nelle associazioni notarili che si costituiscono quando arriva in paese un giovane notaio, il cui apporto viene stimato sempre più simile a quello del socio storico, fino a giungere alla par condicio.

Le percentuali possono essere diversificate in base al grado di esperienza raggiunto. Questo è quello che si vede nei grandi studi internazionali, che hanno spesso più livelli gerarchici degli eserciti o della chiesa cattolica. Si tratta di disegnare molto bene i profili di competenze richieste da ciascuna posizione e poi di monitorare e misurare che tali competenze siano effettivamente esercitate.

Qualche volta il grado di esperienza viene (malamente) approssimato utilizzando degli schemi legati all’anzianità, che sono detti lockstep. Più tempo stai (rectius: resisti) all’interno dello studio e più guadagni. È evidente l’approccio nonnistico di questo schema di suddivisione, che potrebbe alla lunga non avere più alcun collegamento con l’apporto del professionista. È chiaro però che uno schema che dà al professionista la possibilità di crescere è l’unico allettante per i più rampanti, che hanno bisogno dell’adrenalina di continue sfide. Fin da quando sono praticanti, li vediamo costantemente preferire lo studio di grande dimensione anche se è pieno di squali e nonostante il fatto che in quello piccolo potrebbero diventare soci in men che non si dica. Come volevasi dimostrare.

Un’altra possibilità è quella “you eat what you kill”, dove ognuno mangia ciò che ha portato a casa. È evidente la forza centrifuga di questo modello compensuale. Questo studio aumenterà probabilmente i fatturati velocemente ma fino a un certo punto. In questo caso infatti si ragiona per silos. Nessuno si occuperà dei compiti organizzativi e di comunicazione e collaborazione reciproca perché saranno tutti impegnati a curare i propri clienti attuali e potenziali. Si tratta di uno schema che assomiglia molto ad una condivisione di costi. Inoltre, in questa configurazione, non esiste un minimo criterio solidaristico, che pure è uno dei motivi più forti che spinge a cercare l’associazione. I giovani che arrivano in questi studi sono quasi sempre lasciati a sé stessi e impareranno a nuotare solo se capaci di galleggiare e di non bere troppo.

Esistono poi gli schemi legati alla valutazione qualitativa e quantitativa del lavoro svolto. Questi schemi sono i più interessanti perché possono coniugare l’apporto professionale, quello manageriale e quello di sviluppo della clientela. Se sono agiti costantemente portano ad uno studio meritocratico, al quale le persone sono orgogliose di appartenere. Sono anche i più difficili da stabilire perché occorre partire da lontano, fissando un set di valori per lo studio e poi collegare una serie di misure qualitative e quantitative. Le dimensioni immateriali da valutare possono essere capacità di concludere un compito, accuratezza, disponibilità verso i colleghi, correttezza. Tutti aspetti molto difficili da soppesare anche se di estremo interesse per lo studio. Tali valutazioni possono essere svolte dai nostri pari e/o dai clienti. Conosco uno studio dove il 30% dell’utile è suddiviso in base alla media dei voti che gli altri partners ti attribuiscono. Qualche volta, infine, la definizione del compenso è rimessa ad un comitato di saggi i quali decidono de aequo et de bono. Si parla in questi casi di un compenso “black box”. Il difetto è che questo schema è scarsamente motivante e può portare alla dipartita del professionista che senta di aver apportato molto di più di quanto ha ricevuto o che banalmente non capisca su quale criterio è giudicato.

Le formule quindi influenzano i comportamenti. E se sono troppo incasinate e complicate, o addirittura sostituite dall’arbitrio di un comitato, possono portare tutti a sedersi o perfino ad andarsene. 

Il problema tuttavia non si risolve con uno schema o con l’altro. E questo perché per loro natura gli apporti immateriali dei professionisti, quelli più importanti, sono mutevoli nel tempo. Basta un ingiusto avviso di garanzia per trasformare una dinamo in uno zombie col muso come una pantofola. E quando hai due o tre famiglie da mantenere contemporaneamente vorresti poter lavorare e guadagnare il doppio o il triplo anche se i tuoi soci ti dicono che non è possibile. Inoltre, gli apporti dei professionisti non sono sempre proporzionali al tempo profuso. Ha senso caricare come tempo lavorato la domenica inutilmente passata in studio a leggere un quotidiano economico perché nostra moglie dopo anni di frustrazione e di abbandono ormai si è organizzata e gioca a bridge? E quanto vale invece la genialata che ci è venuta in mente mentre ci grattavamo la schiena facendo la doccia?

Da questo punto di vista, l’unico soggetto che ci ha capiti profondamente è il legislatore tributario, al quale troppo spesso rimproveriamo di non essere psicologo. I professionisti infatti sono l’unica categoria che può ripartire il reddito anche dopo il termine del periodo di imposta cui tale risultato economico afferisce. Quindi solo una periodica revisione delle quote e dei criteri consente di calzare al meglio la variabilità degli apporti e non a caso è una caratteristica che ritroviamo puntualmente nelle associazioni più proficue e longeve.