26 Marzo 2016

L’assegnazione determina sempre passaggio a conto economico?

di Comitato di redazione
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L’assegnazione agevolata dei beni immobili (e beni mobili registrati) delle società rappresenta una opportunità da non lasciarsi sfuggire, consentendo, da un lato, la fuoriuscita di beni dal perimetro aziendale (con ovvi vantaggi, ad esempio, sul versante delle società di comodo) e, peraltro verso, il godimento di un carico fiscale davvero modesto.

Una delle questioni che certamente andranno chiarite dall’Agenzia è la base imponibile IVA da utilizzare; a tale riguardo, non resta che attendere le eventuali indicazioni che giungeranno dalle Entrate, dovendoci confrontare con una disposizione troppo vaga quale risulta essere l’articolo 13 del DPR 633/1972.

Ma la vicenda che più interessa gli operatori in queste settimane è certamente la modalità di rappresentazione contabile dell’operazione di assegnazione, in merito alla quale si dovranno valutare due questioni centrali.

In primo luogo, la necessità di rappresentazione dell’operazione al valore contabile del bene assegnato, oppure al valore corrente del medesimo.

In seconda battuta e qualora si condividesse l’idea di rappresentare a valori correnti, la modalità di recepimento nelle scritture del differenziale (positivo o negativo) tra i due valori (contabile e corrente).

Su tali questioni, come noto, è stato emanato un documento interpretativo da parte della Commissione Principi Contabili dell’ODCEC.

Con il supporto di tale intervento, appare possibile rispondere in modo sensato al primo quesito: nonostante l’abitudine degli operatori fosse quella di ragionare in termini di valori contabili, appare maggiormente corretto dare rappresentazione all’operazione adottando valori correnti.

La correttezza di tale interpretazione discende direttamente dall’inquadramento della operazione di assegnazione che, come confermato più volte da parte del Notariato, consiste nella estinzione di un debito della società nei confronti del socio con utilizzo di un bene in natura anziché di denaro.

Così, ad esempio, ove si intendesse deliberare una distribuzione di dividendi, si dovrà indicare quanta parte di riserve si intende attribuire ai soci (nel rispetto della parità di condizioni, vale a dire proporzionalmente alla quota di partecipazione al capitale oppure alla differente misura del diritto agli utili previsto dai patti societari); tale debito della società nei confronti del socio verrà estinto (meglio se in presenza di una previsione statutaria che autorizzi all’utilizzo di beni in sostituzione del denaro, oppure con il consenso unanime di soci) con l’attribuzione di un bene, che dovrà gioco forza essere apprezzato per il suo reale valore corrente (da stabilire prudentemente con una perizia, pur se non obbligatoria, oppure mediante riferimento a parametri il più possibile oggettivi) al fine di riuscire ad estinguere il predetto debito per il corretto valore scaturente dalla delibera.

Chiarito, dunque, che risulta più corretta tale impostazione, si tratta di comprendere come appostare il differenziale esistente tra valore di libro e valore corrente.

Sposando le indicazioni dell’IFRIC 17, il documento del CNDCEC privilegia l’utilizzo di una plusvalenza (ove il valore corrente sia maggiore di quello residuo contabile), ovvero di una minusvalenza (ove il valore corrente sia inferiore rispetto a quello netto contabile).

Se, ad esempio, si intende assegnare (per estinguere un debito verso un socio) un immobile dal valore corrente di 1.500 e dal valore contabile netto di 1.000, il differenziale di 500 rappresenterebbe, secondo la predetta tesi, una plusvalenza. Seguire tale impostazione determina, tuttavia, la necessità di avere un patrimonio netto di almeno 1.500, situazione non sempre presente nella pratica; la plusvalenza iscritta, infatti, rileverà come incremento del netto ma solo al termine del periodo in cui viene effettuata l’assegnazione.

Chiaramente, ragionare in questo modo significa considerare come non realizzabili operazioni di assegnazione in società che si trovano ad avere un netto limitato; ciò può essere prudenziale e condivisibile, anche se in alcuni casi penalizzante. Per converso, l’iscrizione della plusvalenza (o della minusvalenza) in assenza di un realizzo vero e proprio, potrebbe destare quale perplessità sul versante della legittimità del comportamento contabile.

Ci pare, allora, di poter affermare che – nonostante la posizione assunta dal documento ODCEC – non possa essere considerato del tutto errato il comportamento volto ad evidenziare una riserva di netto, proprio di ammontare pari al differenziale tra la quotazione del bene e la sua “targa” storica.

Quindi, riprendendo il precedente esempio, l’assegnazione del bene del valore corrente di 1.500, determinerebbe solo una apparente diminuzione del netto di pari importo, poiché contestualmente verrebbe appostata una riserva di 500, con la conseguenza che – di fatto – sarebbe sufficiente una copertura di netto di solo 1.000, vale a dire pari all’importo del residuo contabile del bene assegnato.

Tale seconda modalità di comportamento:

  • da un lato evidenzia un incremento del netto non connesso ad una destinazione di un utile realmente conseguito;
  • per altro verso evita di falsare il conto economico di un valore che emerge esclusivamente in conseguenza di una decisione dei soci.

Come si ha modo di valutare, allora, ciascuno dei metodi proposti presenta aspetti condivisibili ed altri censurabili.

Stante, però, l’assenza di una pronuncia ufficiale dell’OIC, che probabilmente non intende interessarsi di una questione dal “sapore” meramente fiscale, si crede che ciascuno possa prescegliere la modalità di gestione contabile dell’accadimento che meglio lo soddisfa, risultando che nessuna tra le due proposte sia nettamente migliore e preferibile dell’altra.