16 Giugno 2025

La recente posizione di legittimità in tema di antieconomicità del settore della vendita di automobili usate

di Luciano Sorgato
Scarica in PDF
La scheda di FISCOPRATICO

Il caso ha riguardato un avviso di accertamento notificato a seguito di verifiche nel corso delle quali l’Agenzia delle entrate contestava l’antieconomicità della gestione relativa alla vendita di automobili usate che aveva prodotto un margine negativo. L’avviso di accertamento veniva impugnato dalla contribuente ed il ricorso era stato parzialmente accolto dalla Commissione Tributaria Provinciale di Caserta, con riguardo all’Iva, mentre la ripresa fiscale relativa alle imposte dirette era stata ritenuta fondata. In sede di ricorso d’appello, la CTR della Campania-Napoli confermava la sentenza di I grado.

Nel ricorso per Cassazione, il patrocinio erariale lamentava violazione e/o falsa applicazione dell’articolo 54, commi 2 e 3, D.P.R. 633/1972, in quanto i giudici del gravame avrebbero erroneamente affermato che “le presunzioni volte a contrastare un comportamento non economico non possono essere estese all’Iva”. La Cassazione nell’assumere fondato il motivo d’impugnazione ha ritenuto di affermare il principio per il quale il diritto alla detrazione dell’Iva va escluso se l’Amministrazione finanziaria dimostra l’antieconomicità manifesta e macroscopica dell’operazione, la quale assume rilievo quale indizio di non verità della fattura, e, quindi, di non verità dell’operazione o di non inerenza del bene o servizio all’utilizzo per operazioni assoggettate ad Iva. In tal caso, per la Corte, spetterà all’imprenditore dimostrare che la prestazione del bene o servizio è reale ed inerente all’attività svolta.

Il passo cui il giudice di Cassazione ricorre usualmente è: “l’incongruità e l’antieconomicità della spesa, sul piano probatorio, assumono rilievo come indici sintomatici della carenza di inerenza pur non identificandosi con essa”. L’equivocità di tale passo è palese dal momento che se un “fatto indice” è sintomatico del mancato riscontro di un presupposto, esso non può non concorrere in qualche modo alla sua identità legale. Se, quindi, l’interazione funzionale tra un costo abnorme e la misura di sinergia utile che esso riversa nell’operatività dell’impresa, lo rende sintomaticamente non inerente, è perché il principio dell’inerenza nel suo paradigma concreto ritrae dalla congruità del rapporto costi–benefici la relativa configurazione strutturale. L’abnormità di un costo si misura necessariamente rispetto ad un parametro e tale parametro non può che essere rappresentato dall’utilità del suo concorso utilitaristicoquantitativo nell’attività economica, per cui prospettare sul piano sintomatico il sillogismo costo abnorme – mancanza di inerenza, altro non può volere dire che l’inerenza di un costo si misuri attraverso la verifica del quantum di funzioni utili che esso genera nel dinamismo di mercato.

L’inerenza arretra, in tal modo, la rilevanza di un tale squilibrio di sinergia utile, rendendo possibile condizionare l’inerenza di un costo ad una forma di misurazione di rapporto costi–benefici. Le parole hanno un senso preciso e se impiegate nel contesto di una sentenza non possono che rendersi intellegibili proprio in base al loro significato testuale. L’inerenza dovrebbe, ormai, assumere il solo ruolo metagiuridico di rivelare un rapporto di connessione causale con i bisogni in senso lato dell’impresa, senza che conti il peso della sua sinergia funzionale da misurare secondo una predefinita soglia di quantum (da valutare come non sproporzionata). Un costo, quindi, non dovrebbe essere inteso come non inerente solo quando viene fatto transitare formalmente nel regime d’impresa, ma nel concreto viene destinato al soddisfacimento di bisogni personali dell’imprenditore, proprio com’era stato l’approdo interpretativo della Corte di Cassazione nella sentenza n. 450/2018 dopo decenni di pressione da parte della dottrina. L’antieconomicità, intesa come soglia non proporzionata del costo, rischia di continuare a mantenere attuale nelle verifiche un giudizio sulla congruità del costo secondo canoni di logica aziendale, con ingerenza della Finanza nelle scelte strategiche dell’imprenditore e nella sua libertà d’impresa.

Tuttavia, quello che maggiormente non convince è il raccordo di tale configurazione dell’antieconomicità all’Iva. Sul piano dell’Iva, l’accomunamento con l’antieconomicità appare ancora meno centrato, A tale proposito si deve sottolineare come, nonostante la detrazione dell’Iva a monte sia condizionata dall’effettuazione a valle di operazioni imponibili (articolo 19, comma 2, D.P.R. 633/1972), il conseguimento a valle di ricavi imponibili non è sinonimo di redditività e di congruità rilevanti ai fini dell’Iva, in quanto tale concetto non integra il suo presupposto impositivo. Proprio per tale motivo, la Cassazione (sentenza n. 20713/2014) aveva ritenuto che un ente pubblico che esercita un’attività commerciale ha diritto ad ottenere il rimborso dell’Iva sulle opere di ristrutturazione di un impianto sportivo, nonostante l’assoluta esiguità dei ricavi procurati con la gestione dell’impianto. Sul piano della detrazione dell’Iva serve richiamare proprio la giurisprudenza della Corte di Giustizia UE per la quale è consolidato l’indirizzo che, al di fuori delle ipotesi di frode e abuso l’Amministrazione finanziaria non può negare il diritto della detrazione ad un soggetto passivo che potenzialmente acquisti per produrre operazioni imponibili a valle, a nulla rilevando se questa produzione a valle prospetti un raccordo congruo con le operazioni di acquisto a monte (CGUE, 29/11/2012, causa C-257/11, Gran Via Moinesti).

A tal proposito, si deve considerare come per l’articolo 13, comma 1, D.P.R. 633/1973, la base imponibile è costituita “dall’ammontare complessivo dei corrispettivi dovuti al cedente o prestatore secondo le condizioni contrattuali” in piena corrispondenza dell’articolo 73, Direttiva 2006/112 CE, per la quale la base imponibile comprende “tutto ciò che costituisce il corrispettivo versato o da versare al fornitore o al prestatore da parte dell’acquirente”. Secondo il costante orientamento della Corte di Giustizia, il corrispettivo rappresenta il valore soggettivo, ossia il valore realmente percepito e non un valore stimato secondo un criterio oggettivo, ossia secondo una sorta di valore normale che mandi a bilanciamento il prezzo pagato con l’utile ritraibile dal bene o servizio comprato (tra le tante, si confronti CGUE, 7/11/2013, cause riunite C-249/12 e C/250/12).

Su tali basi ermeneutiche, ad esempio, la Corte di Giustizia ha categoricamente escluso che la rideterminazione del corrispettivo di un’operazione infragruppo effettuata in ragione del valore normale dei beni o servizi scambiati, secondo la normativa in tema di transfer pricing abbia effetti ai fini dell’Iva (CGUE, 09/06/2011, C-285/10). La ricongiunzione all’Iva dell’antieconomicità come configurata nel comparto delle imposte dirette incontra una netta ostruzione anche nella considerazione che il soggetto passivo dell’imposta (l’imprenditore o l’esercente l’arte o la professione) non riassume verso la fornitura del bene o servizio alcuna personale manifestazione di capacità contributiva, fungendo il medesimo da mero ausiliario della riscossione dell’Iva per conto dell’Erario. L’Iva nella sua delineazione strutturale di imposta sui consumi deve incidere unicamente nei confronti del consumatore finale che nell’atto di godimento personale del bene o servizio realizza il presupposto del prelievo impositivo.

Se, quindi, in virtù di un’asserita antieconomicità della fornitura di un bene o servizio, all’acquirente venisse ripresa la detrazione dell’Iva, a fronte del corrispondente versamento della medesima da parte del fornitore, verrebbe destrutturata la prerogativa fondamentale dell’Iva ossia la neutralità, con il ribaltamento di un carico impositivo definitivo nei confronti dell’imprenditore/professionista che, nella dinamica dell’Iva, funge da mero inciso di diritto e non da inciso di fatto, alla stregua del consumatore finale. Ed allora il passo della sentenza riesce a prospettare rispondenza a diritto solo se l’antieconomicità manifesta e macroscopica dell’operazione è rivelatrice di un piano evasivo o di abuso del diritto in pregiudizio del Fisco, o di un costo solo fatto transitare per il regime d’impresa ma destinato ad un consumo extraimprenditoriale e non quando non risponde al margine di errore di valutazione aziendale. Ed anche sul piano della prova il pieno ribaltamento del relativo onere nei confronti del contribuente andrebbe rimeditato alla luce del nuovo comma 5-bis dell’articolo 7, D.Lgs. 545/1992.