1 Giugno 2016

La mancata dicotomia perfetta dell’agrarietà civilistica e fiscale

di Luigi Scappini
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È indubbio che la definizione di imprenditore agricolo quale si ricava dall’articolo 2135, cod. civ., rappresenti il punto di partenza per la successiva disamina delle ricadute in termini di tassazione del reddito dallo stesso prodotto e non solo.

A bene vedere, l’intera costruzione del diritto tributario è strettamente collegata agli aspetti civilistici: in assenza di una qualifica civilistica di imprenditore agricolo, le norme fiscali non si rendono applicabili.

Questo vale sia per l’imposizione diretta, sia per quella indiretta.

Tuttavia, è bene rilevare come, in ragione della natura delle differenti imposte, comunitaria o meno, vi siano alcuni aspetti che si differenziano.

Di tutta evidenza è, ad esempio, il diverso perimetro soggettivo di applicazione della norma di riferimento per quanto attiene l’imposizione diretta, l’articolo 32, Tuir, e la disciplina prevista ai fini Iva, contenuta negli articoli 34 e 34-bis, DPR 633/1972.

Se nel primo caso il reddito agrario viene dichiarato dai soli soggetti esercenti le attività di cui all’articolo 2135, cod. civ. in forma individuale, di società semplice e di ente non commerciale, salvo le deroghe previste dall’articolo 1, comma 1093, L. 296/2006, ben più vasto è il perimetro applicativo per l’Iva.

In tale contesto, infatti, il Legislatore si limita a individuare quali soggetti che per natura applicano il regime speciale Iva nei produttori agricoli definiti al successivo comma 2 nei soggetti esercenti attività di cui all’articolo 2135, cod. civ., senza limitazioni in merito alla forma societaria prescelta.

Tuttavia, non sempre l’imprenditore agricolo in senso civilistico coincide con quello fiscale, in particolare per quel che riguarda le imposte dirette. L’affermazione trova una prova evidente quando si cala l’analisi nel contesto di una delle attività agricole per definizione: l’allevamento di animali.

Come noto, l’articolo 2135, cod. civ., è stato integralmente riscritto, in ossequio a quanto previsto dalla delega di cui alla L. 57/2001, a mezzo dell’articolo 1, D.Lgs. n.228/2001 che, almeno per quanto riguarda l’allevamento ha risolto alcune problematiche interpretative.

In particolare, l’aspetto più discusso era quello relativo alla portata da assegnare al termine “bestiame” che portava la dottrina a espungere dal novero alcune specie. Nella realtà, lo sviluppo del sistema agricoltura caratterizzato dalla meccanizzazione a discapito della forza traino bestiame e dalla graduale sostituzione del foraggio ottenuto dal terreno con quello di origine industriale ha portato, conseguentemente, a un’evoluzione interpretativa del concetto di bestiame, nonché, da ultimo a una sua sostituzione con il termine “animali”.

Non solo, la riscrittura dell’articolo 2135, cod. civ., ha comportato altresì una sconnessione dal fondo che diviene elemento potenziale ma non necessario, nonché un’evoluzione dell’imprenditore che diviene dinamico dovendo, adesso, svolgere un ciclo biologico o una fase necessaria dello stesso.

Ma quello che qui si vuole evidenziare è che, da un punto di vista civilistico, si è imprenditori agricoli, nel rispetto dei requisiti testé richiamati, allorquando si allevi un animale.

Di contra, calando l’analisi da un punto di vista squisitamente fiscale le cose si complicano o per meglio dire, l’anello si restringe, infatti, ai sensi dell’articolo 32, comma 2, lettera b), Tuir solamente “l’allevamento di animali con mangimi ottenibili per almeno un quarto dal terreno” è produttivo di un reddito agrario.

Per stabilire tale limite, il successivo comma 3, prevede che, con decreto del Mef, di concerto con il Mipaaf, è stabilito per ciascuna specie animale il numero dei capi che rientra nei limiti di cui alla richiamata lettera b) del comma 2, tenuto conto della potenzialità produttiva dei terreni e delle unità foraggere occorrenti a seconda della specie allevata.

Tradotto: per verificare se l’attività di allevamento è produttiva di un reddito agrario si dovrà andare a verificare quali sono gli animali ricompresi in detto decreto, da ultimo quello del 18 dicembre 2014.

Ecco che allora, di fatto, nasce una discrasia tra disciplina civilistica e fiscale, allorquando, ad esempio, andiamo ad analizzare il corretto trattamento tributario d riservare a un allevatore di serpenti che dichiarerà sempre un reddito di impresa in quanto i suddetti animali non sono ricompresi nell’elencazione ministeriale.

E questo vale, ad esempio, anche per quanto riguarda il baco da seta, fattispecie che accentua la mancata dicotomia in quanto, in questo caso, le strade si biforcano in tema di imposte dirette, mentre si ricongiungono in merito all’iva in quanto si rende applicabile il regime speciale previsto per l’imprenditore agricolo dall’articolo 34, DPR 633/1972.  

A chiusura, forse sarebbe giunto il momento, in ragione dello sviluppo del concetto di allevamento, che il Legislatore, in sede di approvazione del decreto di riferimento per il biennio 2016-2017, rivedesse il novero degli animali ricompresi nello stesso.